11 febbraio 2019 |
La Cassazione considera lecita la commercializzazione al dettaglio della "cannabis light"
Cass., Sez. VI, 29 novembre 2018 (dep. 31 gennaio 2019), n. 4920, Pres. Fidelbo, Rel. Costanzo, ric. Castignani
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1. Con la sentenza che può leggersi in allegato la Corte di cassazione, discostandosi da un suo precedente orientamento, considera legittima la commercializzazione al dettaglio della c.d. cannabis light, proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242/2016 e recante un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%[1]. La legge n. 242/2016, lo ricorda anche il provvedimento in commento, muove dalla ratio di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa, delineando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata. Per permettere ciò, la citata legge stabilisce che particolari varietà di tale pianta – quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002[2] – non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope e possono essere coltivate liberamente, senza necessità di autorizzazione, a condizione che le varietà coltivate non superino lo 0,6% di THC.
La decisione in commento si interroga sulla diversa questione della commercializzazione delle sostanze oggetto di tale coltivazione lecita. La legge n. 242/2016, infatti, pur indicando le finalità per le quali tale coltivazione è consentita, non tratta esplicitamente del diverso profilo della loro commercializzazione. Ciononostante, va segnalato che, dopo l’entrata in vigore di tale legge, sono andati diffondendosi su tutto il territorio nazionale i c.d. cannabis shop: negozi che rivendono al dettaglio le infiorescenze della cannabis e altri preparati a base di cannabis con un contenuto di THC inferiore al valore massimo consentito dalla legge (appunto, lo 0,6%). Nel caso in esame la Cassazione si trova proprio a decidere della legittimità di un sequestro preventivo di infiorescenze di cannabis che erano state messe in commercio al dettaglio da un esercente. Come vedremo tra breve, partendo dal presupposto che la commercializzazione di tale prodotto non integra gli estremi di una condotta penalmente rilevante, i giudici di legittimità concludono per l’insussistenza del fumus delicti, e quindi annullano l’ordinanza che aveva in precedenza disposto il sequestro preventivo.
2. Prima di entrare nel merito delle argomentazioni proposte dalla sentenza in esame è necessario però riportare sinteticamente i contenuti della legge n. 242/2016 e in quale rapporto questa si pone con il d.P.R. n. 309/1990. Come già ricordato la legge del 2016 contiene disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa ed è mossa dalla ratio di promuovere lo sviluppo di tale settore produttivo. L’art. 1, comma 2 precisa subito che la coltivazione delle varietà di canapa menzionate dal presente testo normativo – come detto, quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientra nell'ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (d.P.R. n. 309/1990) ed è soggetta solo alla disciplina della l. n. 242/2016. Per tale coltivazione la legge in esame stabilisce due diversi limiti di THC: i) da un lato è previsto che, per essere ammessi a godere degli aiuti economici europei corrisposti agli agricoltori in proporzione agli ettari utilizzati per l’attività agricola[3], le varietà di canapa coltivate non devono avere un tenore di tetraidrocannabinolo superiore allo 0,2%; ii) dall’altro, ed è questo il punto fondamentale, l’art. 4, comma 7[4] dispone che al di sotto dello 0,6% di THC la coltivazione della canapa deve ritenersi conforme alla legge: è quindi lo 0,6% il limite al di sotto del quale la sostanza non è considerata come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti. La sentenza in commento precisa poi che, sempre a norma della l. n. 242/2016, il coltivatore non ha l’obbligo di comunicare l’inizio dell’attività alla polizia giudiziaria, ma solo di conservare i cartellini delle semente e le fatture di acquisto, e se all’esito dei controlli – che vanno effettuati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa europea e nazionale – il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulta superiore allo 0,2% e entro il limite dello 0,6% nessuna responsabilità è prevista per l’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni.
3. La legge indica poi le finalità per le quali la coltivazione della canapa è consentita senza autorizzazione. L’art. 2, comma 2 dispone infatti che dalla canapa coltivata è possibile ottenere: «a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo».
Nessun riferimento viene fatto invece dalla legge al diverso profilo della commercializzazione dei beni qui menzionati, alla cui produzione può essere destinata la coltivazione della canapa. Secondo la sentenza in esame, risulta però del tutto ovvio che i prodotti, ricavati dalla coltivazione della canapa e contemplati dall’art. 2, comma 2 possono essere commercializzati lecitamente senza restrizioni. La l. n. 242/2016 non fa riferimento alla commercializzazione dei beni, ma solo alla loro produzione, perché è destinata a disciplinare l’attività dei produttori e delle aziende di trasformazione, mentre non menziona i passaggi successivi della filiera economica semplicemente perché non li deve regolare.
4. Nella sentenza in commento i giudici di legittimità affrontano invece il profilo della commercializzazione di tali sostanze in un contesto differente. La Cassazione si chiede infatti se possa considerarsi lecita la messa in commercio delle infiorescenze ricavate dalla coltivazione della cannabis di cui alla l. n. 242/2016 nel particolare caso in cui queste siano commercializzate al dettaglio per fini connessi all’uso che l’acquirente riterrà di farne e che potrebbero riguardare l’alimentazione (infusi, the, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici e financo il fumo. A questo proposito si registrano nella giurisprudenza di merito e di legittimità orientamenti di segno opposto.
5. Da un lato, un primo filone giurisprudenziale ha sostenuto, in senso maggiormente restrittivo, che la liceità della cannabis è circoscritta alla sua coltivazione e alla destinazione dei prodotti coltivati entro l’alveo delle previsioni esplicite contenute nella n. 242/2016. Le disposizioni di questa legge che consentono, a certe condizioni, la coltivazione di cannabis sono ritenute, da questo orientamento, norme eccezionali e sicuramente non estensibili analogicamente alle altre condotte disciplinate dal d.P.R. n. 309/1990, tra le quali la vendita e la detenzione per il commercio. Da questo assunto, si conclude che «la presenza di un principio attivo sino allo 0,6% è consentita solo per i coltivatori non anche per chi commerci i prodotti derivanti dalla cannabis[5]».
6. In senso opposto ha cominciato ad affacciarsi in sede di merito un orientamento secondo cui la liceità della commercializzazione dei prodotti della predetta coltivazione – e in particolare delle infiorescenze – costituirebbe un corollario logico-giuridico del contenuti della legge n. 242/2016. In altre parole, «dalla liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THD inferiore allo 0,6%, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del d.P.R. 309/1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nella tabelle del predetto d.P.R.»[6].
7. La sentenza in esame accoglie questo secondo orientamento, discostandosi dalle sue recenti pronunce che, invece, si inserivano nel primo dei due filoni qui richiamati. Il principio secondo cui la liceità della cannabis è circoscritta alla sola coltivazione e destinazione dei prodotti coltivati entro l’alveo delle esplicite previsioni della legge n. 242/2016, diretto precipitato dell’idea che le disposizioni di questa legge siano norme eccezionali, è ritenuto, dal provvedimento in commento, una petizione di principio. Tale impostazione trascura, infatti, che «è nella natura dell’attività economica che i prodotti della ‘filiera agroindustriale della canapa’, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati e che, in assenza di specifici dati normativi non emergono particolari ragioni per assumere che il loro commercio al dettaglio debba incontrare limiti che non risultano posti al commercio all’ingrosso».
Fa propendere per questa conclusione anche il corretto inquadramento della questione nel quadro dei principi fondamentali dell’ordinamento. Secondo i giudici di legittimità, il principio di tassatività delle norme incriminatrici impone di considerare le fattispecie penali come tassative eccezioni alla generale libertà di azione delle persone. Da ciò discende che, eventuali ridimensionamenti della loro portata normativa non rappresentano eccezioni – rectius norme eccezionali non estensibili analogicamente –, ma fisiologiche riespansioni delle libertà individuali. La sentenza in esame afferma quindi il principio secondo cui «la commercializzazione di un bene che non presenta intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi».
La fissazione del limite dello 0,6% di THC, entro il quale l’uso delle infiorescenze di cannabis provenienti dalle coltivazioni considerate dalla legge n. 242/2016 è lecito, rappresenta allora l’esito di quello che il legislatore ha considerato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le, in pratica inevitabili, conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.
8. Da queste affermazioni discendono una serie di conseguenze che la sentenza in esame sottolinea e che, immaginiamo, desteranno certamente grande interesse nella prassi:
i) se il rivenditore di infiorescenze di cannabis provenienti dalle coltivazioni considerate dalla legge n. 242 del 2016 è in grado di documentare la provenienza lecita della sostanza, il sequestro probatorio delle infiorescenze, al fine di effettuare successive analisi, può giustificarsi solo se emergono specifici elementi di valutazione che rendano ragionevole dubitare della veridicità dei dati offerti e lascino ipotizzare la sussistenza di un reato ex art. 73, comma 4, d.P.R. 309/1990;
ii) è sempre possibile, sul piano del diritto amministrativo, che gli organi di polizia prelevino soltanto campioni delle infiorescenze per verificare il superamento del tasso soglia del 0,6% di THC, dal quale possono derivare sia lo non ammissibilità della coltivazione sia il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. dell’intera sostanza detenuta dal commerciante;
iii) la posizione di chi sia trovato dagli organi di polizia in possesso di sostanza che risulti provenire dalla commercializzazione di prodotti delle coltivazioni previste dalla legge n. 242/2016 è quella di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito. Questo comporta che la percentuale dello 0,6% di THC costituisce un limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non devono considerarsi psicotropi o stupefacenti secondo un significato che sia giuridicamente rilevante per il d.P.R. n. 309/1990. Dalla piena legittimità dell’uso della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite deriva che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo ex art. 75 d.P.R. 309/1990, a meno che non emerga che il prodotto sia stato in qualche modo alterato e che di questa condizione chi lo detenga per cederlo sia consapevole;
iv) quest’ultima conclusione non conduce, in senso opposto, ad un automatismo per il quale dal superamento dello 0,6% di THC nella sostanza detenuta derivi immediatamente una rilevanza penale della condotta, che, invece, andrà ricostruita secondo i paramenti di applicazione del d.P.R. n. 309/1990. Si dovrà quindi dimostrare la presenza delle condizioni e dei presupposti della sussistenza del reato ex art. 73 del predetto d.P.R.
9. Alla luce di tutto quanto affermato, la Cassazione conclude dunque che, nel caso in esame, deve essere esclusa la responsabilità penale del commerciante. E ciò perché le infiorescenze sequestrate provengono da coltivazioni lecite ex l. 242/2016 e sono risultate contenere un THC inferiore allo 0,6%. Venuto meno il fumus delicti, deve essere esclusa la presenza dei presupposti del sequestro preventivo, che viene quindi annullato con conseguente restituzione di quanto sequestrato all’avente diritto.
[1] l. 2 dicembre 2016, n. 242 (Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa).
[2] Il primo comma di tale disposizione afferma che: «Conformemente alle informazioni fornite dagli Stati membri e via via che esse le pervengono, la Commissione provvede a pubblicare nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, serie C, sotto la designazione "Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole", tutte le varietà le cui sementi e materiali di moltiplicazione, ai sensi dell'articolo 16, non sono soggetti ad alcuna restrizione di commercializzazione per quanto concerne la varietà nonché le indicazioni di cui all'articolo 9, paragrafo 1, relative al responsabile o ai responsabili della selezione conservatrice La pubblicazione indica gli Stati membri che hanno beneficiato di un'autorizzazione in base all'articolo 16, paragrafo 2, o in base all'articolo 18».
[3] Gli aiuti economici qui menzionati sono corrisposti sulla base del Regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio del 19 gennaio 2009.
[4] Cfr. art. 4, comma 7, l. n. 242/2016: «Il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall’autorità giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento. Nel caso di cui al presente comma è esclusa la responsabilità dell'agricoltore».
[5] Cfr. le decisioni citate nel testo della sentenza in esame: Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, imp. Ricci; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, imp. Moramarco; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332, imp. Durante.
[6] Cfr. le decisioni di merito citate dalla sentenza in esame: Trib. Ancona, Sez. riesame, 27 luglio 2018, Rel. Sbano, in www.giustiziainsieme.it; Trib. Rieti, Sez. riesame, 26 luglio 2018; Trib. Macerata, Sez. riesame, 11 luglio 2018; Trib. Asti, Sez. riesame, 4 luglio 2018.