ISSN 2039-1676


07 marzo 2019 |

Alle Sezioni Unite la questione della liceità della commercializzazione al dettaglio della “cannabis light"

Cass., Sez. IV, ord. 8 febbraio 2019 (dep. 27 febbraio 2019), n. 8654, Pres. Ciampi, Rel. Di Salvo, imp. Castignani

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1. Con l’ordinanza di rimessione che può leggersi in allegato,  la Quarta Sezione della Corte di cassazione chiama in causa le Sezioni Unite per risolvere un contrasto interpretativo riguardante la liceità della commercializzazione al dettaglio della “cannabis light”. Come abbiamo dato conto sulle pagine di questa Rivista qualche commentando una decisione in materia (cfr. M.C. Ubiali, La Cassazione considera lecita la commercializzazione al dettaglio della "cannabis light"), un recente orientamento della Suprema Corte, discostandosi da un precedente indirizzo, ha considerato legittima la commercializzazione al dettaglio della c.d. “cannabis light”, proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242/2016 e recante un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%. La legge n. 242/2016, lo ricordiamo, è stata introdotta con l’intenzione di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa, delineando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata. Per permettere ciò, la citata legge ha stabilito che particolari varietà di tale pianta – quelle iscritte nel Catalogo di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 – non rientrano nell’ambito di applicazione del T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope: sono pertanto sottratte alle relative sanzioni e possono essere coltivate liberamente, senza necessità di autorizzazione, a condizione che le varietà coltivate non superino lo 0,6% di THC.

 

2. Il contrasto interpretativo di cui si è detto non riguarda la coltivazione, pacificamente consentita, alle condizioni dette, bensì la commercializzazione al dettaglio delle sostanze derivanti da tale coltivazione lecita. La legge n. 242/2016, infatti, pur indicando le finalità per le quali la coltivazione è consentita, non discipllina il profilo della commercializzazione. Diverse sentenze di legittimità si sono chieste allora se possa essere considerata lecita la messa in commercio delle infiorescenze ricavate dalla coltivazione della canapa di cui alla l. n. 242/2016, in particolare nel caso in cui queste siano commercializzate al dettaglio per fini connessi all’uso che l’acquirente riterrà di farne e che possono riguardare l’alimentazione (infusi, the, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici e financo il fumo. A tale interrogativo sono state date risposte differenti. Da qui, dunque, il sorgere del menzionato contrasto interpretativo che approda ora alle Sezioni Unite con un quesito formulato nei termini che seguono: «se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, legge 2 dicembre 2016 n. 242 – e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L – rientrino o meno nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa».

 

3. Due sono gli orientamenti interpretativi presenti nella giurisprudenza di legittimità con riguardo alla liceità della commercializzazione della “cannabis light”. Un primo indirizzo ha fornito risposta negativa al quesito se la predetta legge consenta anche la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa (hashish e marijuana). Si è ritenuto infatti che tale normativa disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall'art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. Per questo orientamento la detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione disciplinata dalla predetta legge rimangono, conseguentemente, sottoposte alla disciplina di cui al d.P.R. n. 309 del 1990 (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, imp. Ricci; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003, imp. Moramarco; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332, imp. Durante).

Secondo l’opposto indirizzo, invece, è nella natura dell'attività economica che i prodotti della ‘filiera agroindustriale della canapa’, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati. La l. n. 242 del 2016 si dirige ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita le attività successive semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse. Dalla liceità della coltivazione della canapa, alla stregua della legge n. 242 del 2016, deriva, di conseguenza, la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%, poiché essi non possono più essere considerati, in virtù di tale normativa, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990. La fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenta allora, nell'ottica del legislatore, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. Secondo questo orientamento, la percentuale dello 0,6% di THC costituisce, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, ric. Castignani).

 

4. L’ordinanza di rimessione non prende posizione a favore di uno degli orientamenti contrapposti, ma riporta gli argomenti più significativi che possono essere spesi a sostegno dell’uno piuttosto che dell'altro. A favore del primo indirizzo – che ha fornito risposta negativa al quesito se la predetta legge consenta anche la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa – si evidenza che:

i) dai lavori preparatori della l. n. 242 del 2016 non emerge in alcun modo la volontà del legislatore di consentire la commercializzazione della marijuana e dell'hashish provenienti dalle coltivazioni lecite di cui alla predetta legge;

ii) è certamente estranea all'elenco delle finalità di cui all'art. 1, comma 3, l. n. 242 del 2016 qualunque indicazione relativa allo scopo di consentire la commercializzazione di hashish e di marijuana. Ed appare corretto il rilievo secondo il quale tale elencazione è tassativa;

iii) non sembra condivisibile l'argomento – sostenuto da una sentenza che si colloca nell’opposto filone interpretativo – secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti di legge, ritenersi consentita, nell'ambito del generale potere di ogni individuo di agire per il soddisfacimento dei propri interessi. E ciò perché l’ordinamento considera le norme incriminatrici come tassative eccezioni rispetto alla generale libertà di azione di ogni soggetto. Questo principio non appare però valido per la specifica materia delle sostanze stupefacenti, nella quale il combinato disposto degli artt. 17, 73 e 75 d.P.R. n. 309 del 1990 pone, in via generale, il principio di illiceità delle condotte di detenzione per la vendita, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle di cui all'art. 14 dello stesso d.P.R. In questo ambito esiste quindi un divieto che ha carattere generale, tanto che i rapporti fra il d.P.R. n. 309 del 1990 e la legge n. 242 del 2016 appaiono ricostruibili in termini di regola-eccezione. Secondo questo primo orientamento interpretativo, nello stabilire quale sia l’ambito applicativo della l. 242/2016, la si dovrà considerare derogatoria di un principio generale e dunque insuscettibile di applicazioni analogiche. Non essendo espressamente menzionata tra le attività lecite, la commercializzazione al dettaglio della “cannabis light” dovrà ritenersi allora penalmente rilevante.

A sostegno del secondo indirizzo che, come dicevamo, sostiene che dalla liceità della coltivazione della canapa, alla stregua della legge n. 242 del 2016, discende la liceità della commercializzazione dei prodotti che ne derivano, si afferma che tra le finalità della legge n. 242/2016 rientrano, a norma dell'art. 1, comma 3, lett. d), il sostegno e la promozione della coltura della canapa finalizzata alla produzione di alimenti. Inoltre l'art. 2, comma 2, stabilisce espressamente che dalla canapa coltivata è possibile ottenere alimenti, prodotti nel rispetto delle discipline di settore. Secondo l’ordinanza in commento, ammettendo l'utilizzo di alimenti contenenti residui di THC, il legislatore ha voluto sancire la liceità del consumo umano, e quindi della commercializzazione di prodotti contenenti tale principio attivo, sia pure alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla normativa. Alla luce di questo, risulta allora contraddittorio ritenere vietata la detenzione, cessione e vendita di derivati della “cannabis light” provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242 del 2016.

 

5. Preso atto della sussistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia e della validità delle argomentazioni a sostegno dell’uno quanto dell’altro filone interpretativo, la Quarta Sezione della Corte di cassazione rimette la questione alle Sezione Unite, chiamate ora a risolvere un problema di indubbio rilievo per la prassi che pone, in termini più generali, il tema di una possibile limitata legalizzazione delle "droghe leggere", realizzata dal legislatore in sordina, o inavvertitamente.