ISSN 2039-1676


18 ottobre 2011 |

Coltivazione domestica di canapa indiana: una pronuncia assolutoria della Cassazione dopo le Sezioni Unite del 2008

Nota a Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 2011 (dep. 28 giugno 2011), n. 351, Pres. Marzano, Rel. Izzo

1. La Corte di Cassazione, nella pronuncia che può leggersi in allegato, conferma la sentenza del GUP del Tribunale di Paola, che aveva dichiarato non luogo a procedere per il delitto di coltivazione illecita di sostanze stupefacenti di cui all'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. Il fatto oggetto di giudizio riguardava la coltivazione di una singola pianta di canapa indiana – da cui poteva ricavarsi un quantitativo di principio attivo pari a circa 16 mg – posta in un vaso sul terrazzo di casa dell'imputato.
 
Il giudice di merito aveva motivato la propria decisione osservando come, nonostante fosse stata effettivamente posta in essere una condotta corrispondente a quella descritta dalla norma incriminatrice, la coltivazione di una sola pianta non potesse dirsi idonea a porre in pericolo sicurezza e salute pubblica. Mancando la necessaria offensività della condotta, il reato non può dirsi integrato.
 
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal P.G., a parere del quale la condotta potrebbe dirsi inoffensiva solamente in caso di totale “inidoneità della sostanza a determinare un effetto stupefacente”.
 
 
2. Questa sentenza interviene su un tema – quello della rilevanza penale della coltivazione “domestica” di canapa indiana – sul quale si sono avvicendati orientamenti contrastanti nella giurisprudenza, anche di legittimità, che hanno portato, nel 2008, ad un intervento della Corte a Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia). Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di intervenire sul tema (in particolare, cfr. le sentenze 443/1994 e 360/1995).
 
La questione ruota attorno alla corretta interpretazione da darsi agli artt. 73 e 75 del T.U. stupefacenti (D.P.R. n. 309/1990). Il primo comma dell'art. 73,infatti, punisce le condotte di chi, senza autorizzazione, “coltiva, produce, fabbrica, (...) commercia, trasporta, procura ad altri, (...) sostanze stupefacenti o psicotrope”.
 
Chi invece “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”, è punito solamente ove tali sostanze non appaiano destinate ad un uso esclusivamente personale (art. 73 comma 1 bis); altrimenti, tali condotte costituiscono meri illeciti amministrativi ex art. 75.
 
La coltivazione di sostanze stupefacenti, non rientrando tra le condotte di cui all'art. 73 co. 1 bis, risulterebbe dunque, quantomeno in forma espressa, sempre penalmente rilevante, a prescindere dalla destinazione (uso personale o spaccio) del prodotto ricavato.
 
 
3. La giurisprudenza prevalente – attenendosi ad un'interpretazione letterale della normativa – ritiene quindi in ogni caso punibile la coltivazione di piante stupefacenti, quand'anche risulti provata la destinazione ad uso personale degli stessi: “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale” (così Cass. pen., SS.UU., n. 28605/2008, Di Salvia, cit.; v. anche, ex multis, Cass. pen., sez. IV, sent. 7 luglio 2011, n. 3130; Cass. pen. sez. VI, sent. 27 giugno 2011, n. 30201; App. Trieste, sez. I, 8 febbraio 2011; Trib. Lanusei, 16 marzo 2011).
 
La ratio alla base di siffatta disciplina risiederebbe nella maggior offensività di una condotta che, pur se destinata all'uso personale, è comunque idonea a creare nuove disponibilità di droga sul territorio (in questo senso, Cass. pen., SS.UU., n. 28605/2008, Di Salvia, cit., nonché, ex multis, Cass. pen., sez. VI, sent. 9 dicembre 2009, n. 49523; Cass. pen., sez. IV, sent. 11-03-2011, n. 14688).
 
L'incriminazione della mera coltivazione di stupefacenti costituisce una notevole anticipazione della tutela penale, configurando – osservano le SS.UU. – un reato di “pericolo di pericolo”, ossia “del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti” (Cass. pen., sez. un., n. 28605/2008, Di Salvia, cit.). La Suprema Corte osserva tuttavia come tale anticipazione sia giustificata dalle esigenze di “tutela della salute collettiva connesse alla valorizzazione del pericolo di spaccio” derivanti proprio dalla “capacità della coltivazione, attraverso l'aumento dei quantitativi di droga, di incrementare (...) il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell'autorità”. La “salute collettiva”, infatti, “è bene giuridico primario che, anche secondo l'elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto”. La coltivazione, inoltre, a differenza di condotte come detenzione ed acquisto, sarebbe priva di un “nesso di immediatezza” con l’uso personale della sostanza, essendo altresì impossibile “determinare ‘ex ante’ la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione”.
 
 
4. Una diversa corrente giurisprudenziale, diffusa prima della pronuncia delle SS.UU., tendeva invece a limitare l'area del penalmente rilevante in caso di coltivazione di poche piante stupefacenti, applicando anche a tale condotta il limite della destinazione all’uso personale. Questa tesi faceva leva, sostanzialmente, su di una distinzione concettuale tra coltivazione “in senso tecnico-agrario” e coltivazione “domestica”. La normativa, nell'utilizzare il termine “coltivazione”, farebbe riferimento solamente alla coltivazione in senso tecnico-agrario: ciò si dedurrebbe, tra l’altro, dalla disciplina del procedimento autorizzativo della coltivazione di piante stupefacenti (art. 27), che fa riferimento ad indici (quali la superficie di terreno sul quale sarà effettuata la coltivazione, le particelle catastali, i locali destinati alla custodia dei prodotti,…) che richiamano un tipo di coltivazione effettuato su larga scala. La nozione di coltivazione sarebbe dunque da intendersi restrittivamente: la “coltivazione domestica” – consistente nella semplice messa a dimora di poche piantine nella propria abitazione, con modalità “atecniche” – non costituirebbe vera e propria “coltivazione” ai sensi del T.U. Stupefacenti, bensì dovrebbe essere ricompresa nella generica nozione di “detenzione”, per la quale l'art. 75 esclude la punibilità ove l'uso sia esclusivamente personale (così, ad es., Cass. pen., sez. VI, 12 luglio 1994, Gabriele; v. anche Cass. pen., sez. VI, 18 gennaio 2007, n. 17983, Notaro: “se, dunque, deve riconoscersi una nozione unitaria di coltivazione (artt. 26, 30 e 73) questa va identificata con la coltivazione in senso tecnico, rimanendo la c.d. coltivazione domestica compresa nella nozione, di genere e di chiusura, della detenzione”).
 
Le sentenze che facevano propria questa impostazione sottolineavano come, non riconoscendo l'autonomo rilievo della “coltivazione domestica” e la sua equiparazione alla detenzione, si sarebbe giunti ad una irragionevole disparità di trattamento di situazioni simili: quella di chi coltiva una piccola quantità di piantine, e di chi detenga o importi la medesima quantità di principio attivo drogante. Così, ad esempio, Cass. pen., n. 17983/2007, Notaro: “non appare conforme a ragione [...] un differente trattamento penale delle due condotte di importazione e di coltivazione di droga identiche sotto il profilo oggettivo-quantitativo e soggettivo una volta che il risultato dell'incremento della disponibilità della droga sul territorio dello Stato, comune a entrambe, non ha impedito, in ragione dell'uso personale, l'inserimento della fattispecie della importazione nell'elenco delle condotte di cui all'art. 75”. In questo modo, prosegue questa sentenza, si assegnerebbe irragionevolmente al momento della scoperta del fatto una “forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie”. Infatti, nel caso in cui la scoperta avvenga quando il coltivato è stato ormai raccolto rileva, ai fini della qualificazione della fattispecie, l'accertamento della destinazione (ad uso personale o spaccio) del prodotto; al contrario se la coltivazione è ancora in corso, un simile accertamento risulterebbe del tutto irrilevante (in dottrina, si v. sul tema Turchetti, La coltivazione di stupefacenti, una nozione sempre più controversa, in Corr. Merito, 2008, 593).
 
Questa impostazione, tuttavia, è stata ormai abbandonata in giurisprudenza, a partire dalla sentenza delle SS.UU. del 2008, che ha ritenutoarbitraria” poiché “non legittimata dal dato letterale della norma” la distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario e domestica.
 
Anche la Corte costituzionale – che pur in un primo momento (C. Cost., sent. n. 443 del 1994) aveva suggerito l'esegesi adeguatrice della normativa, invitando il giudice a quo a verificare “se ... l'operata depenalizzazione della condotta di 'chi ... comunque detiene' sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi 'coltiva e fabbrica'” – nuovamente chiamata nel 1995 a valutare la legittimità costituzionale dell'art. 73 del T.U., aveva del resto dichiarato l'infondatezza della questione (C. Cost., sent. n. 360 del 1995).
 
Oggetto del giudizio era la legittimità di tale articolo per violazione del principio di eguaglianza e di offensività, dal momento che, secondo l'interpretazione prevalente, esso comporta un trattamento sanzionatorio diversificato per condotte ugualmente caratterizzate dalla destinazione della sostanza all'uso personale (coltivazione da un lato e acquisto, importazione e detenzione dall'altro)”. La Corte ha ritenuto non fondata la questione “in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa ... con alcuna di quelle allegate come tertia comparationis, sicchè non sussiste la denunciata disparità di trattamento”. La mancanza di un nesso di immediatezza con l'uso personale, infatti, giustificherebbe “un possibile atteggiamento di maggior rigore [nei confronti della coltivazione], rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”.
 
La ragione di fondo alla base delle di interpretazioni della normativa che equiparano la “coltivazione domestica” alla detenzione potrebbe sintetizzarsi, con le parole della Suprema Corte (sentenza Notaro, cit.), nella necessità di “escludere che un legislatore (...) ragionevolepossa prevedere pene elevate (da sei a vent'anni di reclusione e da 26.000 a 260.000 euro di multa o – in caso di fatti di lieve entità ex art. 73, co. 5 – da uno a sei anni di reclusione e da 3.000 a 26.000 euro di multa) “per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marijuanaper chi “coltivi la cannabis per uso personale”. Per una condotta, dunque, che sembra avere un basso grado di offensività.
 
 
5. Proprio in relazione al profilo dell'offensività la sentenza n. 360/1995 della Corte Costituzionale aveva peraltro operato importanti precisazioni. Essa infatti – pur respingendo l'equiparazione “coltivazione domestica-detenzione”, ed ammettendo che la coltivazione “costituisce reato anche quando sia realizzata per (...) uso personale” – giunge comunque ad escludere la rilevanza penale della coltivazione “casalinga” di poche piante.
 
Tale soluzione passa attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa, sotto il profilo del rispetto del principio di offensività inteso come “criterio guida per l'interprete onde valutare la tipicità della condotta”. La Corte ritiene che l'art. 73 del T.U. rispetti il principio di offensività “come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario”, perché la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti “ben può valutarsi” (in astratto) “come 'pericolosa', ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga”. Tuttavia chiarisce che “quello dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata” costituisce un diverso profilo, rispetto al quale il giudizio è devoluto al giudice ordinario. Infatti, “la indispensabile connotazione di offensività in generale [della fattispecie astratta] implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente”; quando, al contrario, la condotta sia “assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato”, viene meno “la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta”, ed il giudice dovrà di conseguenza escludere la rilevanza penale del fatto.
 
Anche le SS.UU. e la successiva giurisprudenza di legittimità, richiamandosi a questa sentenza, hanno osservato che spetta comunque al giudice “verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva”.
 
 
6. La sentenza qui in commento, richiamando le indicazioni di Corte Costituzionale e SS.UU., osserva che “la mera aderenza del fatto alla norma di per sé non integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene giuridico protetto dalla norma”; nel caso di specie, le “oggettive circostanze del fatto” e la “modestia dell'attività posta in essere” (ricordiamo trattarsi di coltivazione domestica di una piantina, posta in un piccolo vaso sul terrazzo, contenente un principio attivo di circa 16 mg) costituiscono condotta “del tutto inoffensiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice”.
 
La Corte, per arrivare alla conclusione di cui sopra, ricostruisce la portata del principio di offensività, nel nostro ordinamento, sulla base di disposizioni costituzionali (artt. 13, 25 e 27 Cost.) e codicistiche (art. 49 co. 2 c.p.), nonchè alla luce di alcune pronunce della Corte Costituzionale (sentenza n. 62 del 1986 e n. 360 del 1995) e della giurisprudenza di legittimità e di merito (che “sebbene timidamente” fa in alcuni casi appello al principio di offensività per ritenere non punibili alcune condotte “tipiche”). I giudici di legittimità richiamano, altresì, alcune norme “di diritto positivo” in cui, “con molta cautela” si va facendo strada il principio di offensività: l'art. 27 del d.P.R. 448/1988 (processo penale minorile: sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto1); l'art. 34 d.lgs. 274/2000 (competenza penale del giudice di pace: esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto2). Da questi elementi, a parere della Corte, emerge “l'apertura mostrata dal legislatore verso la problematica dell'offensività”, chedunque “apare destinata in futuro ad innovare tutto il sistema penale”.
 
Tale risultato risulta a prima vista conforme con quanto statuito dalle SS.UU. Tuttavia, come vedremo, sembra esservi una differenza sostanziale tra la decisione in commento e la soluzione proposta dalle SS.UU.
 
Le SS.UU., infatti, avevano effettivamente ritenuto necessario l'accertamento, da parte del giudice, dell'offensività in concreto della condotta; tuttavia in quell’occasione la Corte (seguita dalla quasi totalità delle recenti sentenze in argomento3) dopo aver chiarito che per “condotta inoffensiva” deve intendersi una condotta che non leda né metta in pericolo anche in grado minimo il bene tutelato, specifica che “con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto [...] se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.
 
Tale approccio segue, con alcune differenze non insignificanti, quanto indicato dalla Corte Costituzionale (sent. 360/1995), la quale portava ad esempio, come caso di condotta “assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato ... [la] coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un'unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente”.
 
La sentenza in commento, invece, fa riferimento alla generica “modestia dell'attività posta in essere”, ed esclude l'offensività della condotta posta in essere pur in presenza di un accertato effetto stupefacente nella sostanza coltivata, rigettando così la tesi sostenuta dal P.G., il quale riteneva potersi ravvisare inoffensività della condotta “[ne]lle sole ipotesi di inidoneità della sostanza a determinare un effetto stupefacente”.
 
 
7. Le diverse impostazioni in merito4 appaiono indicative di quale sia ritenuto, di volta in volta, “bene giuridico tutelato” e, in definitiva, della linea di discrimine tra ciò che costituisce reato e quanto resta invece al di fuori dell'illiceità penale. Ove si ritenga offensiva la presenza di una insignificante, seppur tecnicamente rilevabile, capacità stupefacente, il bene tutelato sarà quello della salute del singolo consumatore, e solo in forza di una astrazione la salute collettiva o l'ordine pubblico. Le SS.UU., infatti, individuano i beni oggetto di tutela penale da parte del T.U. Stupefacenti non solo nella “salute pubblica, [...] sicurezza e ordine pubblico”, nella “salvaguardia delle giovani generazioni”, turbate dall'implemento del mercato degli stupefacenti, ma anche nella salute individuale, seppur (forse, a parere della Corte) “essa costituisca, all'esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato”.5; individuando così un'ipotesi di plurioffensività cui consegue, tra l'altro, la difficoltà di un'applicazione rigorosa del principio di offensività.
 
La sentenza qui in commento, ammettendo la liceità penale della coltivazione di una piccola quantità di sostanza pur effettivamente stupefacente, sembrerebbe invece ritenere la “salute individualeal di fuori dei possibili oggetti di tutela dell'art. 73 del T.U Stupefacenti. A parere di chi scrive tale soluzione appare maggiormente conforme con il dettato costituzionale, che non consente di imporre coattivamente (e dunque anche di sanzionare penalmente) comportamenti che recano danno unicamente al destinatario della norma6, oltre che con la ratio della disposizione (maggior disvalore attribuito alla coltivazione rispetto alla mera detenzione, legato alla potenzialità di quest'ultima di immettere nuove dosi nel mercato ed aumentare così la diffusione nella collettività delle stesse). Vero è che diviene molto problematico, in quest'ottica, giustificare la decisione del legislatore di ritenere irrilevante, per il caso della coltivazione, la destinazione ad un uso personale.
 
In questa pronuncia, i giudici di legittimità si discostano dunque, sotto un certo profilo, dalla tesi ad oggi assolutamente prevalente in giurisprudenza7, ritenendo non penalmente rilevante la condotta di coltivazione di stupefacenti aventi un effettivo ed accertato (seppur minimo) effetto drogante.
 
 
8. Concludendo, vi è da segnalare come al momento vi è una notevole incertezza sulla soluzione da dare ai quesiti aperti in argomento; in particolare, ove venisse accolta l'impostazione prospettata dalla sentenza qui in commento, rimarrebbe comunque dubbio il criterio discriminante tra lecito ed illecito penale, a fronte della condotta di coltivazione, posto che il discrimine non risiede nella presenza o meno di efficacia drogante, nella destinazione d'uso. Ci si troverebbe infatti a dover individuare questa soglia all'interno dello spazio esistente tra la “minima efficacia drogante” (come limite inferiore al di là del quale il fatto è penalmente irrilevante per mancanza di tipicità) e la quantità riconducibile ad un “uso personale”8, senza però avere appigli “certi” cui ancorare la decisione, che rischierebbe dunque di essere eccessivamente discrezionale. Ciò a scapito, in definitiva, della certezza del diritto: è infatti al momento particolarmente opinabile che cosa possa considerarsi offensivo (presenza di un minimo effetto stupefacente? presenza di sostanza drogante ma in quantità modica?) e, soprattutto, offensivo di quale bene (salute individuale? salute collettiva? ordine pubblico?).
 
In ogni caso, bisogna ricordare inoltre come l'impostazione proposta dalla Cassazione moderi solo marginalmente la durezza dell'attuale disciplina, e la disparità di trattamento conseguente alla rigida differenziazione tra coltivazione e detenzione; aspetti per cui l'attuale disciplina è molto criticata in dottrina. Infatti, anche valorizzando il principio di offensività, non si può giungere a considerare la coltivazione come penalmente irrilevante sulla base della destinazione ad uso personale di quanto prodotto, al contrario di quanto avviene per la detenzione del medesimo principio attivo: si mantengono dunque attuali molte delle perplessità espresse sotto questo profilo dalla dottrina.
 
Si deve da ultimo notare che, in questo caso, la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare un caso comunque “limite”, in cui si trattava di una esigua quantità di principio attivo ricavabile; la condotta insomma risultava, in concreto, molto vicina ai casi in cui invece è assente qualsiasi effetto drogante rilevabile9. Tuttavia la (sottile) differenza nelle argomentazioni giuridiche e dei principi affermati dalla Corte Suprema rispetto al passato rimane, e potrebbe portare in futuro a decisioni anche in concreto maggiormente innovative.
 
 
 
 
1Art. 27 d.P.R. 448/1988: “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. [...]”.
2Art. 34 d.lgs. 274/2000: “Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato [...]”.
3V., ex multis, Cass. pen., sez. VI, sent. 26 maggio 2011, n. 29076, Cass. pen., sez. III, sent., 10 febbraio 2011 n. 9295; Cass. pen., sez. VI, sent. 12 maggio 2010, n. 20807; Cass. pen., sez. VI, sent. 19 aprile 2010, n. 23743; App. Palermo, sez. III, sent. 13 giugno 2011; App. Trieste, sez. I, 29 marzo 2011.
 
4In particolare, la Corte Costituzionale porta ad esempio il caso in cui la sostanza non sia idonea a produrre un apprezzabile effetto stupefacente; dunque lascia aperta la possibilità che la sostanza abbia un effetto drogante, ma di entità molto limitata; le SS.UU., richiedendo l'inidoneità a produrre un “effetto stupefacente in concreto rilevabile”, di fatto ravvisano l'offensività in tutti i casi in cui sia possibile un qualsiasi effetto stupefacente. In dottrina si sottolinea che tale impostazione confonde i piani della tipicità e dell'offensività: l'assenza di un qualsivoglia effetto stupefacente nella sostanza prodotta o coltivata esclude non tanto l'offensività, quanto la tipicità stessa della condotta (cfr. ad es. Ruga Riva, Stupefacenti e doping, in Diritto penale, parte speciale, vol. I, a cura di Pulitanò, Torino 2011, pp. 185 s.).
5Anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della "salute individuale" costituisca, all'esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte Costituzionale, alle esigenze di tutela della "salute collettiva" connesse alla valorizzazione del "pericolo di spaccio" derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l'aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell'autorità”.
6Un intervento coattivo o sostanzialmente coattivo sarà legittimo solo ove “la salute di uno metta in gioco quella di tutti”: qualora invece “sia indifferente per lo stato di salute degli 'altri' che un individuo migliori o preservi il suo stato di salute” non può dirsi sussistente nessun interesse della collettività . L'applicazione coattiva di una misura sanitaria sarà possibile, in definitiva, non quando si abbia un contrasto tra la volontà del singolo “ed un contrapposto generico 'interesse'” bensì quando vi sia contrasto “tra la volontà del singolo ed il diritto alla tutela della propria salute degli altri componenti della collettività” (così, in riferimento all'imposizione di misure sanitarie, Vincenzi Amato D., Art. 32 - secondo comma , in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca G., Bologna 1976).
7Segnaliamo, tra le sentenze che come la presente si sono allontanate, sotto questo profilo, dall'orientamento prevalente, Cass. pen., 14 maggio 2010, n. 26082, che non ravvisa offensività nella coltivazione di due piantine da cui poteva estrarsi “sostanza stupefacente con un effetto drogante ragionevolmente minimo e, in ogni caso, irrilevante agli effetti dei termini cui va improntata la corretta lettura del principio di offensività in concreto”. Si v. anche Trib. Roma, 5 marzo 2010, con nota di Verrico, in Cass. pen., 2010, 3581.
8Mantenendo tuttavia ben chiara la necessaria distinzione tra il concetto di inoffensività e quello di uso personale, che non ha, nel T.U., l'effetto di escludere la penale rilevanza del fatto in caso di coltivazione.
9Infatti la dose di 16 mg, pur ritenuta in sentenza come effettivamente “drogante”, è inferiore a quella che viene indicata nella tabella di cui al d.m. 11 aprile 2006 come “dose media singola”, corrispondente a 25 mg di principio attivo.