7 novembre 2013 |
Ancora sulla coltivazione "limitata e domestica" di marijuana per uso personale: una aperta ribellione all'insegnamento delle Sezioni Unite
GUP Trib. Cremona, 10.10.13 (sent.), Giud. Salvini
1. La sentenza di merito qui pubblicata si discosta espressamente, con articolata motivazione, dall'insegnamento delle Sezioni Unite sul tema della coltivazione domestica di stupefacenti, confermando il disagio della giurisprudenza, in particolare di merito, di fronte al rigore delle conseguenze che sul piano sanzionatorio quell'insegnamento produce.
Questo il fatto: presso l'abitazione dell'imputata vengono trovate quattro piante di marijuana, contenenti una quantità di principio attivo pari a 1940 mg. Le piante erano coltivate in vaso, ed esposte alla luce del sole "come qualsiasi pianta ornamentale", in assenza della strumentazione normalmente utilizzata per la coltivazione rapida o estensiva di questo tipo di piante. Vengono rinvenute nel posacenere tracce tali da far ritenere che l'imputata facesse uso di quanto coltivato.
2. Come noto, l'art. 73 co. 1 del T.U. stupefacenti incrimina chiunque "senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva (...) per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope", e non prevede alcuna esclusione della rilevanza penale della condotta in caso di destinazione "ad uso personale" della sostanza; esclusione che, invece, è prevista dal comma 1 bis per l'acquisto o la detenzione della stessa.
Ciò rende quello della coltivazione domestica di piante stupefacenti un tema problematico (per un inquadramento del tema ed i necessari riferimenti giurisprudenziali, sia consentito rinviare a M. Pelazza, Coltivazione domestica di canapa indiana: una pronuncia assolutoria della Cassazione dopo le Sezioni Unite del 2008, in questa Rivista 18 ottobre 2011). Basti qui accennare alla disparità di trattamento di situazioni simili (l'applicazione letterale della norma porta all'assoluzione di chi detenga una piccola quantità di sostanza per uso personale ed alla condanna di chi, sempre per uso personale, detenga lo stesso quantitativo "sotto forma" di piantina), nonché allo stridente contrasto con il principio di proporzione della pena delle severe sanzioni[1] previste per la coltivazione anche di piccole quantità di sostanza.
Sul punto la giurisprudenza non ha ancora raggiunto un indirizzo condiviso, nonostante gli interventi della Corte Costituzionale (C. cost. 443/1994 e 360/1995) e la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite nel 2008 (SS.UU. n. 28605/2008, Di Salvia).
3. In effetti, il tentativo dei giudici (sia di merito che di legittimità) di ridurre la severità della normativa in casi di coltivazione domestica di poche piante aveva portato in primo luogo ad un orientamento interpretativo che distingueva il concetto di "coltivazione" in due fattispecie: la prima, della "coltivazione in senso tecnico-agrario" o "imprenditoriale"; e la seconda, caratterizzata come coltivazione "domestica". Solo in relazione alla prima, secondo questa interpretazione, avrebbe dovuto trovare applicazione il comma 1 dell'art. 73 T.U. stup., con conseguente equiparazione della coltivazione domestica alla mera detenzione.
Questo orientamento è stato tuttavia sconfessato dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, Di Salvia: "[a]rbitraria deve ritenersi la distinzione tra "coltivazione in senso tecnico-agrario" ovvero "imprenditoriale" e "coltivazione domestica"; tale distinzione non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale". Le Sezioni Unite hanno dunque chiarito che "[d]eve ritenersi vietata (...) qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti (...), non necessariamente connotata (poiché la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione "tecnico-agraria"".
Un ulteriore filone interpretativo affermatosi in giurisprudenza ha invece dato rilievo al principio costituzionale di offensività, giungendo per tale via ad escludere la rilevanza penale in caso di coltivazione di un numero molto esiguo di piante.
In primo luogo le stesse SS.UU. affermarono che "[i]n ossequio (...) al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta (...) sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva". Sul punto, le Sezioni Unite rammentarono che nella ormai risalente sentenza n. 350/1995 la Corte costituzionale aveva "salvato" la norma, chiarendo tuttavia che, nel caso in cui la condotta sia "assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato", viene meno "la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta", con conseguente obbligo del giudice di escluderne la rilevanza penale. Le SS.UU., tuttavia, adottarono un'accezione particolarmente rigorosa di "inoffensività", ritenendo che possa parlarsi di condotta inoffensiva solamente ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione "non [sia] idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile".
Dal restrittivo criterio posto dalle SS.UU. in tema di offensività diverse successive pronunce hanno preso, nei fatti, le distanze. Possiamo qui segnalare Cass. pen. n. 351/2011 e Trib. Rovereto, sentenza 16 febbraio 2012 (entrambe pubblicate in questa Rivista, con note rispettivamente di M. Pelazza e S. Lo Forte), che hanno ritenuto inoffensive - e pertanto penalmente irrilevanti - condotte quali la coltivazione di piante di marijuana con principio attivo pari a 16 e 49 mg rispettivamente. Si tratta di quantità estremamente modeste, che tuttavia - seguendo rigorosamente il criterio indicato dalle SS.UU. - avrebbero dovuto essere ritenute effettivamente "offensive" in quanto comunque idonee a provocare "un effetto stupefacente in concreto rilevabile"[2].
4. La sentenza qui pubblicata si discosta con ancora maggiore decisione dalle indicazioni delle SS.UU. sia sul fronte dell'offensività, sulla scia delle pronunce appena citate, sia su quello della distinzione concettuale tra coltivazione in senso tecnico-agrario e coltivazione domestica.
E' quest'ultimo il punto sul quale il GUP concentra l'attenzione. "L'assimilazione tout court della coltivazione industriale o semi-industriale della marijuana alla coltivazione 'domestica' effettuata dalla Suprema Corte", afferma il giudice, contiene "considerazioni di eccessiva teoricità", risultando "assai discutibile sul piano ermeneutico". La sentenza qui pubblicata propone un'interpretazione del termine "coltivazione" da effettuarsi "alla luce dell'intera normativa di riferimento": il T.U., infatti, in diversi articoli utilizza questo termine, evocando sempre, a parere del giudice "un'attività tecnico-agraria o imprenditoriale". Si fa riferimento infatti a "superficie di terreni, particelle catastali, locali destinati all'ammasso", all'"ubicazione ed estensione del terreno coltivato" ed "alla natura e alla durata del ciclo agrario".
Ciò, conclude il GUP, "può solo significare che la legge, e cioè il D.P.R 309/90, letto nel suo insieme, quando parla di 'coltivazione', ha per oggetto di riferimento un'attività in larga scala o quantomeno apprezzabile, destinata ex se all'utilizzo e alla circolazione presso terzi e non si riferisce invece a modesti quantitativi di piante messe a dimora in modo rudimentale in vasi e terrazzi". "'Coltivare' - prosegue il giudice - non significa allestire vasi e vasetti ma governare un ciclo di preparazione del terreno, semina, sviluppo delle piante e raccolta del prodotto.
La c.d. "crescita domestica" di poche piante in vaso "esce dal concetto di 'coltivazione'", per risolversi "in una forma di detenzione senza acquisto da parte dell'agente che si procura da sé ed anche ripetutamente la sostanza" - sempre che non vi siano segnali di utilizzo non meramente personale della stessa.
Ma, come anticipato, questa pronuncia richiama anche fortemente l'attenzione sul principio di offensività. Il giudice ritiene infatti che, anche qualora non si volesse accogliere la distinzione concettuale da i due tipi di coltivazione, la condotta oggetto di giudizio si manterrebbe comunque al di fuori dell'area del penalmente rilevante perché non offensiva in concreto del bene tutelato.
Il ragionamento prende le mosse dall'individuazione del bene giuridico tutelato ex art. 73 T.U. stup., che a parere del giudice "è certamente quello di evitare che le sostanze stupefacenti siano cedute a terzi e fatte circolare accrescendone così la diffusione". Una volta chiarito tale punto di partenza, la condotta dell'imputata - analizzata al fine di individuare eventuali elementi che indichino una destinazione della sostanza a terzi - è facilmente qualificabile come per nulla o minimamente offensiva del bene tutelato, perchè "circoscrivibile all'interno di una detenzione ad uso personale".
"Fermo restando (...) che la condotta (...) ascritta non è né neutra né lecita ma comunque sottoposta, come richiamato nel dispositivo, alle sanzioni amministrative, anche serie, di cui all'art .75 D.P.R. 309/90", il GUP nota, e valorizza, anche elementi positivi nella condotta oggetto di giudizio, con un'osservazione "attenta al concreto": autoproducendo la sostanza - nota il giudice - l'imputata ha evitato di rivolgersi ed alimentare il narcotraffico.
[1] Da sei a vent'anni di reclusione e da 26.000 a 260.000 euro di multa o - in caso di fatti di lieve entità ex art. 73, co. 5 - da uno a sei anni di reclusione e da 3.000 a 26.000 euro di multa.
[2] Si tenga presente che le tabelle ministeriali indicano come principio attivo (THC) necessario per integrare una "dose media singola" il quantitativo di 25 mg; il quantitativo massimo (oltre il quale si ha presunzione di destinazione non esclusivamente personale della sostanza) è invece di 500 mg.