ISSN 2039-1676


11 dicembre 2014 |

Alcune riflessioni critiche a margine del caso Eternit

Ancora a proposito del momento consumativo del disastro da dispersione di polveri da amianto

Continua sulle pagine della nostra Rivista il dibattito a margine del caso Eternit, definito dalla Corte di Cassazione, lo scorso 19 novembre, con la declaratoria di prescrizione del contestato delitto di disastro doloso da dispersione di polveri di amianto. L'intervento, questa volta di segno critico nei confronti della sentenza della S.C., è del Cons. Guglielmo Passacantando, già Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (e in tale veste impegnato, tra gli altri, nel noto processo relativo al disastro ambientale del Petrolchimico di Porto Marghera: Cass., Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, P.G. in proc. Bartalini e altri). (Gian Luigi Gatta)

Mi permetto di avanzare alcune riflessioni critiche sulle questioni sollevate dalla sentenza emessa dalla Suprema Corte in ordine al c.d. processo Eternit.

Innanzi tutto, non può certamente essere condiviso l'assunto, secondo cui il delitto ex art. 434 c.p., essendo un reato di pericolo e, quindi, a consumazione anticipata, si sarebbe perfezionato (facendo così iniziare a decorrere il relativo termine prescrizionale) con il compimento della condotta (conclusasi e definitivamente interrotta nel lontano 1986 con lachiusura dello stabilimento). Infatti, siffatta tesi non tiene conto della struttura stessa del reato in questione, del particolare rapporto tra condotta ed evento (disastro) e della natura del capoverso dell'art. 434 c.p. 

La fattispecie criminosa ex art. 434 c.p. è configurata, sì, al primo comma, come un delitto di pericolo o di attentato, per la cui sussistenza è sufficiente la semplice messa in pericolo (concreto) del bene tutelato (pubblica incolumità), ma la struttura della condotta originaria e il suo rapporto con l'evento (disastro) la qualificano in modo tale da sottolineare la natura essenzialmente e necessariamente dolosa del delitto. Al riguardo va evidenziato il fatto che - contrariamente ad altre ipotesi di reato aggravate dall'evento - il delitto in questione richiede una condotta "diretta" ed idonea a provocare il disastro, che è il fine stesso dell'azione base e, quindi, deve essere sostenuto da un dolo, che la giurisprudenza di legittimità definisce addirittura intenzionale. Una fattispecie criminosa, dunque, costruita con una condotta che, fin dall'origine, mira ( "è diretta"), con dolo intenzionale, a raggiungere il fine stesso del reato, cioè il disastro, inteso come evento. L'evento-disastro, perciò, non è elemento accessorio o marginale rispetto al reato base e non è neppure indifferente rispetto all'elemento soggettivo dell'agente.

Ma se la fattispecie ex art. 434 c.p. richiede il dolo intenzionale dell'evento, che deve essere dall'autore voluto e consapevolmente perseguito, in quanto il disastro non rappresenta che la realizzazione del fine stesso della condotta, ne consegue che appare plausibile ritenere l'ipotesi contemplata nel capoverso dell'art. 434 c.p. come figura autonoma di reato (seguendo anche il criterio distintivo tra reato circostanziato e reato autonomo, cui fa riferimento la Corte Costituzionale nella sentenza n. 194 del 1985), giacché l'agente realizza, con il conseguimento dell'evento, una situazione di danno (evento di danno), in luogo di quella di pericolo (evento di pericolo), pure autonomamente punita ma al primo comma dell'art. 434 c.p. Allora, agli effetti dell'individuazione del momento consumativo del reato non può aversi riguardo alla cessazione della condotta, bensì al verificarsi dell'evento-disastro e del suo protrarsi nel tempo, evento che resta differito rispetto alla condotta e che rimane tale finché non venga rimossa la situazione di illiceità cagionata. Evento di danno, che, essendo certamente ricollegabile alla condotta volontaria e consapevole dell'agente, oltre che produttiva dell'evento medesimo, non può considerarsi un semplice effetto permanente di un reato già consumato.