24 febbraio 2015 |
Eternit, il disastro è prescritto. Le motivazioni della Cassazione
Cass. pen., sez. I, 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny
1. «Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti dell'imputato Schmidheiny Stephan Ernst relativamente al reato di cui all'art. 434 cod. pen. di cui al capo B) della rubrica e alle conseguenti statuizioni di condanna nei confronti del predetto imputato e dei responsabili civili, perché il reato è estinto per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di primo grado».
È il dispositivo, tombale, della pronuncia con cui la Cassazione scrive la parola "fine" sullo storico processo penale per i danni provocati dall'amianto all'ambiente ed alla vita di migliaia di persone in Italia. Dopo le severe condanne pronunciate in primo e in secondo grado dai giudici torinesi (clicca qui per la sentenza di primo grado; clicca qui per la sentenza d'appello) la declaratoria di prescrizione da parte dei Giudici Supremi potrebbe a prima vista suonare come un diniego di giustizia, come il frutto delle lungaggini di un processo penale che - una volta ancora - non è stato sufficientemente celere da concludersi prima che il trascorrere del tempo estinguesse il reato.
Le cose, invece, non stanno così. Lo spiegano le motivazioni della sentenza, depositate ieri, ma del resto emerge già dalla lettura del dispositivo: il processo Eternit, ad avviso dei giudici di legittimità, è iniziato quando il delitto di disastro innominato ex art. 434 c.p. era in effetti già prescritto. Si potrebbe allora dire che la prescrizione non è sopravvenuta quale traguardo obbligato del processo; bensì ne ha decretata la falsa partenza.
Rinviando ad altra sede il meditato commento che questa importante vicenda merita (cfr., per alcune considerazioni a caldo all'indomani del dispositivo, Gatta, Il diritto e la giustizia penale davanti al dramma dell'amianto: riflettendo sull'epilogo del caso Eternit, in questa Rivista, 24 nov. 2014), ci si limiterà nel prosieguo a mettere in luce le statuizioni della Suprema Corte in ordine alla nozione di disastro ed al suo momento consumativo, insieme alle critiche rivolte dai giudici di legittimità nei confronti delle diverse posizioni adottate sul punto dall'accusa e dai giudici di merito.
2. Il cuore del dictum di legittimità sta tutto nell'individuazione del momento in cui il reato di disastro cd. innominato si consuma, e per l'effetto inizia a decorrerne il termine di prescrizione. Osserva sul punto la Cassazione:
"nel caso in esame la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell'amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all'imputato: non oltre, perciò, il mese di giugno dell'anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo".
Il termine di prescrizione del delitto ex art. 434 c.p. - pari nel massimo a 15 anni, se si computano anche gli atti interruttivi - aveva dunque iniziato a decorrere nel 1986, ed era pertanto abbondantemente spirato prima che venisse pronunciata la condanna di primo grado, nel 2012. Ragione per cui, come recita il dispositivo, anche tutte le statuizioni civili delle sentenze di merito a favore delle persone offese devono considerarsi travolte dalla causa estintiva.
3. La domanda che subito sorge spontanea, ovviamente, è perché il decorso della prescrizione non fosse già stato rilevato dalle sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello, nonché prima ancora dagli stessi pubblici ministeri, evitando così un inutile dispendio di risorse oltre che la frustrazione delle aspettative delle parti civili, in prevalenza vittime dell'amianto e familiari delle vittime decedute.
La ragione di fondo per cui tale tempestiva declaratoria non è avvenuta risiede a ben vedere nel tentativo, compiuto dai pubblici ministeri prima e dai giudici di merito poi, di re-interpretare, rispetto agli orientamenti giurisprudenziali sino a quel momento consolidati, la struttura del delitto di disastro innominato, e con essa la disciplina della prescrizione, al fine di inquadrare al suo interno un fenomeno dai connotati nuovi: ossia una situazione di diffuso e perdurante inquinamento ambientale, accompagnata da una "epidemia" di malattie e morti, entrambe ancora lontane dall'esaurirsi benché cagionate da condotte assai risalenti nel tempo. Un evento complesso, di estensione trasversale agli stabilimenti produttivi ed alle aree abitate limitrofe, dotato di una portata offensiva al contempo di pericolo e danno rispetto aduna molteplicità eterogenea di beni giuridici (l'ambiente, la salute umana, la vita): il tutto riconducibile ad una attività industriale conclusasi nel 1986, anno del fallimento della Eternit.
Le fattispecie prescelte dall'accusa per inquadrare tale multiforme situazione erano quelle di cui agli artt. 437 c.p. (omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro) e 434 c.p. (disastro cd. innominato doloso), entrambe nell'ipotesi aggravata dall'evento di cui ai rispettivi capoversi. Si rinvia ad un precedente studio per ogni dettaglio in merito alla struttura originaria dell'impianto accusatorio, nonché alla sua successiva rimodulazione ad opera delle sentenze di merito, che già aveva portato - tra l'altro - all'uscita di scena del delitto di cui al capo A) dell'imputazione (art. 437 c.p.), sempre per prescrizione (dovuta, in quel caso, alla riqualificazione del capoverso alla stregua di circostanza aggravante anziché di fattispecie autonoma).
Ciò che preme mettere in evidenza in questa sede sono le quattro diverse teorie emerse nel corso del processo in ordine alla individuazione del momento consumativo del disastro cd. innominato, corrispondenti alle posizioni adottate originariamente dai pubblici ministeri, quindi dalle due sentenze di merito, ed infine dalla Cassazione; la quale, come si vedrà, non ha fatto altro che sconfessare i ripetuti tentativi di allontanarsi, nell'interpretazione dell'art. 434 c.p., dai binari degli orientamenti ermeneutici da tempo consolidati.
4. La tesi accusatoria originariamente avanzata era nel senso di qualificare il disastro innominato alla stregua di reato permanente, categoria, come è noto, caratterizzata dal protrarsi della consumazione finché sussiste la situazione di compressione del bene giuridico tutelato, quale effetto della persistente condotta dell'agente. I pubblici ministeri avevano infatti sostenuto che l'offesa fosse rappresentata dalla perdurante situazione di inquinamento pericoloso per l'incolumità pubblica, e che la condotta degli imputati fosse tuttora in corso sotto forma di omesso impedimento - attraverso la mancata collaborazione alle attività di bonifica - del protrarsi del disastro. Tutto ciò consentiva, sotto il profilo della prescrizione, di affermare che il relativo termine non avesse nemmeno iniziato a decorrere.
Questa impostazione, riproposta da alcune delle parti civili nei ricorsi dinanzi alla Suprema Corte, viene oggi respinta dalla Cassazione, sulla scorta dei seguenti argomenti: "Non può annettersi invece rilevo, nella situazione normativa data, alla circostanza (...) della mancata o incompleta bonifica dei siti. Attribuirne la penale responsabilità all'imputato a titolo di protrazione della condotta costitutiva del disastro postulerebbe che si potesse ricostruire la fattispecie in termini bifasici: una prima commissiva e una seconda omissiva, violativa dell'obbligo di far cessare la situazione antigiuridica prodotta. Ma la fattispecie incriminatrice non reca traccia di tale obbligo, né esso, o altro analogo, può desumersi dall'ordinamento giuridico, specie se riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986). D'altronde, come è stato efficacemente osservato a proposito della risalente analoga teorizzazione formulata con riferimento alla configurazione del reato permanente, «se fosse concepibile un obbligo secondario di rimozione e se il suo contenuto fosse quello di ripristinare l'assetto degli interessi offesi con l'azione o di attuare gli scopi negletti con l'omissione, non si comprenderebbe perché tale obbligo non dovrebbe operare rispetto a ogni fattispecie che non contempli la distruzione del bene protetto, qualificando come permanente il relativo reato (in tal modo, il furto o la ricettazione - universalmente riconosciuti come reati istantanei - dovrebbero essere considerati reati permanenti fino alla restituzione al proprietario del bene sottratto)» (Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, cit.); dovendo al contrario riconoscersi che ritenere incriminabile «anche la successiva omissione di una contro-condotta», costituirebbe violazione del principio di tipicità e di tassatività che governa la materia penale ( Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, cit.)".
5. Del resto, la ricostruzione incentrata sul reato permanente, quale effetto di persistenti omissioni da parte degli imputati, era stata già scartata dalla sentenza di primo grado, la quale aveva escluso che in capo agli imputati sussistesse l'obbligo giuridico di attivarsi al fine di impedire il protrarsi del disastro. Ciò nonostante, il Tribunale di Torino era pervenuto allo stesso risultato perseguito dall'accusa - cioè sostenere che la prescrizione non avesse ancora iniziato a decorrere -, benché soltanto con riferimento a due dei quattro stabilimenti italiani della multinazionale Eternit. Infatti, premessa la natura di fattispecie autonoma del capoverso di cui all'art. 434 c.p., i giudici di prime cure avevano tenuto distinte le zone di Casale Monferrato e Cavagnolo da quelle di Rubiera e Bagnoli: mentre rispetto a queste ultime avevano collocato la consumazione in corrispondenza del completamento delle bonifiche, giá avvenuto negli anni '90, ed avevano dichiarato la prescrizione del disastro; con riferimento alle prime due avevano ritenuto accertata una permanente situazione di inquinamento ambientale pericoloso per l'incolumità pubblica, ed avevano conseguentemente ritenuto che il disastro integrasse un «evento perdurante», di per sé in grado di portare avanti la fase consumativa, nonostante l'assenza di condotte - attive od omissive - da parte degli imputati.
Anche questa impostazione viene oggi scartata dalla Cassazione, secondo la quale il «Tribunale ha confuso non solo le nozioni di reato permanente e di reato così detto istantaneo a condotta perdurante, ma, soprattutto, le nozioni di evento differito e di effetti permanenti, istituendo una inedita nozione di evento permanente indipendentemente dal perdurare della condotta che gli ha dato origine, idoneo a determinare lo spostamento della consumazione del reato sino alla cessazione degli effetti oggettivi dell'evento stesso. Che sarebbe come dire che in caso di lesioni il reato si consuma non quando la malattia viene prodotta o si manifesta, ma quando la persona offesa guarisce. E' evidente, in effetti, che in tanto nel reato permanente (e nel reato istantaneo a condotta perdurante) si determina uno spostamento in avanti della consumazione rispetto al momento di iniziata realizzazione del reato, in quanto, e fino a quando, la condotta dell'agente "sostenga" concretamente la causazione dell'evento. Del tutto diversa è invece l'ipotesi del reato a evento differito, nel quale si ha semplicemente un distacco temporale fra la condotta e l'evento tipico ad essa causalmente collegato; laddove, nel caso in esame, l'evento disastroso si è realizzato contestualmente al protrarsi della condotta causativa e ha continuato a prodursi fino a che questa è stata perpetrata».
6. Ancora diversa la ricostruzione del momento consumativo del disastro proposta dai giudici di appello, i quali pure muovevano dalla qualificazione del capoverso dell'art. 434 c.p. come fattispecie autonoma, con conseguente fissazione del dies a quo nel momento della verificazione dell'evento-disastro, ma di quest'ultimo avevano offerto una diversa descrizione, ottenendo il risultato di salvare dalla prescrizione tutti e quattro i delitti integrati in corrispondenza degli stabilimenti italiani di Eternit. L'evento disastro, secondo i giudici d'appello, risultava integrato da due elementi strutturali inscindibilmente connessi, entrambi di natura continuativa e perdurante: da un lato il pericolo per l'incolumità pubblica; dall'altro quello che la pronuncia definiva «fenomeno epidemico», rappresentato dall'impressionante picco di patologie amianto-correlate registrato dalle indagini epidemiologiche tra i lavoratori della Eternit ed i residenti nelle aree limitrofe. Secondo i giudici del gravame, dal momento che la straordinaria incidenza delle patologie da amianto era ancora in atto in tutte e quattro le zone in cui si trovavano gli stabilimenti Eternit, ne conseguiva l'irrilevanza della distinzione tracciata dai giudici di primo grado tra i comuni bonificati e quelli ancora contaminati, atteso che nessuna delle fattispecie di disastro poteva essere considerata consumata e tantomeno prescritta.
Nemmeno questa ingegnosa ed innovativa ricostruzione dei contorni del disastro è riuscita a fare breccia nel collegio della prima sezione della Cassazione, che l'ha sconfessata sulla scorta di motivazioni che - come già accennato - riconducono la norma incriminatrice in esame nei binari dell'interpretazione consolidata in dottrina e in giurisprudenza.
E veniamo, così, al nocciolo delle motivazioni della Suprema Corte.
7. Anzitutto i giudici di legittimità riaffermano la tesi maggioritaria in ordine alla natura circostanziale del capoverso di all'art. 434 c.p. (confutando la ricostruzione in termini di fattispecie autonoma offerta dai giudici di merito). Tuttavia, al contrario di quanto si sarebbe portati a pensare, non è su questa base che la Cassazione fa arretrare il dies a quo della prescrizione. Rinviando per ogni approfondimento al testo della motivazione (in particolare, cfr. il punto n. 5), basterà qui riportare il passaggio in cui il collegio afferma: "la considerazione della realizzazione del disastro alla stregua di aggravante non comporta tuttavia, ad avviso del Collegio, che, ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza quindi dei termini di prescrizione, l'evento non debba essere considerato (...) In conclusione, deve riconoscersi che nell'ipotesi di cui all'art. 434, secondo comma, cod. pen. la realizzazione dell'evento disastro funge da elemento aggravatore ma la data di consumazione del reato comunque coincide con il momento in cui l'evento si è realizzato".
Il punto focale della questione relativa alla consumazione del reato torna così ad essere quello della nozione di "disastro", ossia dell'evento tipico che - a prescindere dalla sua qualificazione in termini di fattispecie autonoma o di elemento accidentale - sposta in avanti il momento in cui il delitto ex art. 434, secondo comma, c.p. giunge a consumazione.
8. Quanto alla struttura ed alla portata offensiva del disastro, osserva la Suprema Corte: "Al riguardo occorre, per prima cosa, ricordare che la fattispecie in esame si riferisce, come oggetto dell'intenzione al primo comma e come evento al secondo, al solo "disastro"; non considera lesioni o morti come fini od eventi ulteriori, neppure sotto forma di aggravante. L'incolumità personale (collettiva) entra nella previsione normativa del disastro innominato solamente sotto il profilo della pericolosità, o, come dice la Corte costituzionale, della proiezione offensiva della condotta, che ha ad oggetto specifico un evento materiale, il disastro, inteso come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità per la pubblica incolumità".
Tale pericolosità - prosegue coerentemente il Collegio contestualizzando il disastro nella sistematica codicistica - "non va confusa con i concreti effetti per l'incolumità delle persone, che rilevano ai soli fini della dimensione offensiva, com'è reso palese dalla pena comminata per la fattispecie aggravata dall'evento voluto: inferiore nel massimo persino a quella prevista per l'omicidio colposo plurimo. Non a caso nella Relazione del Guardasigilli (p. II, p. 369) all'art. 577 cod. pen. (circostanze aggravanti per l'omicidio) si osservava «Accanto al veneficio, ho dovuto prevedere la circostanza che l'omicidio sia consumato con altri mezzi insidiosi [...]. L'omicidio commesso col mezzo di incendio, sommersione o altro delitto di comune pericolo, rientra [invece] nel delitto di strage» (art. 422, punito con l'ergastolo)".
Il punto da ultimo evidenziato consente di rafforzare l'argomento con considerazioni inerenti ai profili sanzionatori del disastro: "la Corte di appello, che, pur riconoscendo che l'evento integrante la fattispecie del capoverso dell'art. 434 cod. pen. deve essere voluto, fa rientrare in esso lesioni e morti (sia pure sub specie di accadimenti statisticamente significativi), finisce al contrario per abbracciare una tesi che implicherebbe che l'art. 434 cod. pen. rende punibile con pena massima sino a dodici anni la condotta di colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage: cosa questa che - come giustamente ha rilevato il Procuratore generale - é insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contraria al buon senso".
È su queste premesse che la Corte basa la propria perimetrazione dell'evento disastro: "Sul piano teorico, non può dimenticarsi che il pericolo non è mai, in se stesso, un evento fisico naturale, bensì soltanto un giudizio qualitativo di probabilità - o, se si vuole, di apprezzabile possibilità - che ad un fatto ne segua un altro. Ciò che di naturalistico vi è nel pericolo è, in altri termini, solo il fatto - pura condotta o condotta più evento - cui va collegato il giudizio concernente il rischio di un effetto ulteriore. Pienamente condivisibile, perciò (alla luce del principio di offensività e dell'art. 49 cod. pen.), l'opinione che per reati quali quello in esame, in cui il pericolo è assunto quale fattore di connotazione del fatto tipico (e delimitazione dell'oggetto della fattispecie), detto giudizio di probabilità dovrà informare anche la valutazione sulla obiettiva idoneità della condotta o dell'evento. Ma tale giudizio, ancorché formulabile ex post rispetto all'evento cui la norma richiede debba collegarsi il pericolo di conseguenze ulteriori, non trasforma, de iure condito, l'effetto paventato in evento ulteriore del reato e non può spostarne la consumazione oltre l'esaurimento dell'iter criminoso tipico sino al momento di cessazione del pericolo, dando così al protrarsi nel tempo del "giudizio" di pericolosità un rilievo autonomo rispetto al presupposto fattuale cui deve necessariamente accedere".
Se dunque né il protrarsi di meri effetti pericolosi per la pubblica incolumità, né tantomeno il loro concretizzarsi in eventi lesivi della vita e della salute delle persone, possono spostare in avanti il momento consumativo del reato ex art. 434 co. 2 c.p., la conclusione non può essere che nel senso di agganciarne il momento consumativo - e dunque il dies a quo della prescrizione - alla cessazione delle condotte che diedero origine ed alimentarono per molti anni detta situazione di pericolo. Ossia, come già riportato, l'anno 1986, in cui la Eternit chiuse per sempre i cancelli dei quattro stabilimenti italiani.
9. Breve: secondo la Cassazione, mentre "il Tribunale ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte di appello ha inopinatamente aggiunto all'evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio, non oggetto di contestazione formale e in relazione ai quali in entrambi i giudizi di merito era stata espressamente respinta qualsiasi richiesta volta alla verifica dei nessi di causalità con la contaminazione ambientale".
Respingendo come infondati tutti gli sforzi ermeneutici finalizzati ad "aggiornare" la figura del disastro innominato, e in definitiva a renderla compatibile de jure condito con un fenomeno al quale certamente il legislatore non aveva pensato, la Cassazione ha riportato tutti coi piedi per terra, ribadendo la validità degli orientamenti interpretativi maturati nel corso degli anni in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza, e traendone coerenti conclusioni in punto di prescrizione del reato. Il messaggio che lascia questa sentenza, in definitiva, rispecchia il monito formulato dal Procuratore Generale Iacoviello nella sua requisitoria: il giudice, quando si trova di fronte all'alternativa tra la giustizia e il diritto, deve scegliere il diritto.