ISSN 2039-1676


09 luglio 2018 |

La sentenza della Cassazione sulle malattie professionali presso il petrolchimico di Mantova

Cass., sez. IV, sent. 14 novembre 2017 (dep. 16 aprile 2018), n. 16715, Pres. Blaiotta, Est. Dovere

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018

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1. Con una sentenza depositata il 16 aprile 2018, la Quarta Sezione della Cassazione è intervenuta sul caso del petrolchimico di Mantova, relativo alle malattie professionali che hanno colpito, talvolta con esito letale, lavoratori esposti ad amianto, benzene ed altre sostanze nocive. La Corte, da un lato, ha parzialmente annullato le condanne pronunciate dalla Corte d’Appello di Brescia (la quale sul punto aveva confermato la sentenza del Tribunale di Mantova: per una dettagliata ricostruzione delle statuizioni di primo grado, v. Bell A., Amianto e non solo: le motivazioni della sentenza di primo grado nel maxi-processo a carico degli ex dirigenti Montedison del petrolchimico di Mantova, in questa Rivista, 14 dicembre 2015); mentre dall’altro lato ha respinto le censure avanzate dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Brescia, supportate anche dalle memorie di parte civile, rispetto alle statuizioni assolutorie ed alle declaratorie di prescrizione.

 

2. La vicenda vede coinvolti, in veste di imputati, dodici soggetti che, tra il 1970 ed il 1989, si sono succeduti nella titolarità di posizioni di garanzia della salute e della sicurezza dei lavoratori presso lo stabilimento mantovano. Tre i capi di imputazione: 1) omicidio colposo plurimo aggravato dalla violazione della disciplina antinfortunistica, in relazione alla morte di sette lavoratori per patologie del sistema emolinfopoietico o del pancreas, ricollegabili ad esposizione a sostanze utilizzate nel petrolchimico come materie prime, segnatamente benzene, stirene, acrilonitrile, dicloretano; 2) omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, aggravati dalla violazione della disciplina antinfortunistica, in relazione alle patologie amianto-correlate (mesoteliomi, tumori polmonari, placche pleuriche) patite da altri ventidue lavoratori; 3) omissione dolosa di cautele antinfortunistiche ex art. 437 co. 1 e 2 c.p., nei confronti sia delle stesse ventinove persone offese indicate nei capi precedenti, sia di altri quarantacinque lavoratori rispetto al cui decesso il reato ex art. 589 c.p. risultava già prescritto al momento della formulazione delle imputazioni.

 

3. Esaurite le questioni processuali, la Cassazione affronta le problematiche inerenti all’accertamento del nesso di causalità, svolgendo anzitutto alcune considerazioni di carattere generale in ordine ai criteri che devono guidare il giudice chiamato a selezionare la legge scientifica di copertura, specie laddove le teorie veicolate dai consulenti intervenuti nel giudizio siano tra loro contrastanti (pp. 67-70). Al riguardo la Cassazione, dopo avere ricordato che il giudice è necessariamente consumatore e non creatore della legge di copertura, richiama gli indici di attendibilità del sapere esperto già declinati dalla sentenza Cozzini[1] in un noto passaggio della motivazione[2]. Sempre ripercorrendo i propri precedenti, il collegio insiste in particolare sulla necessità che «la legge di copertura sulla quale è assisa l’ipotesi accusatoria sia riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata» (p. 71). Questa affermazione si riflette – proseguono le motivazioni – anche sull’oggetto dell’onore probatorio delle parti: «se il giudice ha necessità di conoscere quale sia la tesi scientifica maggiormente accreditata nella comunità degli studiosi, la parte che intende appellarsi a quella tesi ha l’onere di dimostrare tale accreditamento, mentre la controparte potrà e dovrà resistere su quel medesimo terreno» (p. 70). Pertanto – conclude sul punto la Corte – la parte che intenda contestare l’utilizzabilità di una data teoria dovrà evidenziarne, per bocca del consulente, non già l’intrinseca debolezza, bensì il carente accreditamento nella comunità scientifica.

 

4. Tanto premesso, la Corte prende anzitutto in esame le censure difensive relative alla rilevanza causale dell’esposizione ad amianto rispetto ai decessi da mesotelioma, sia pleurico che peritoneale. All’esito del giudizio d’appello, alcuni degli imputati erano stati condannati per omicidio colposo in relazione a sei decessi per mesotelioma giudicati eziologicamente riconducibili alle esposizioni all’amianto, presente nello stabilimento quale materiale di coibentazione degli impianti, nonché – paradossalmente – quale componente di dispositivi di sicurezza individuale (guanti, coperte ecc.). Ciò che i difensori contestavano – come spesso accade in questi processi – non è l’astratta idoneità dell’amianto a cagionare la patologia, bensì l’assenza di prove in ordine all’efficacia concausale della dose di amianto inalata dalle singole persone offese in corrispondenza dell’intervallo temporale in cui ciascun imputato aveva ricoperto l’incarico direttivo. Sul punto, il Tribunale di Mantova e la Corte d’Appello di Brescia avevano posto alla base dell’accertamento causale la c.d. teoria dell’effetto acceleratore, secondo la quale ogni successiva esposizione all’amianto è idonea a contribuire allo sviluppo della cancerogenesi, e dunque ad anticipare la verificazione dell’evento lesivo. Le motivazioni formulate dai giudici di merito a sostegno dell’attendibilità scientifica dell’effetto acceleratore vengono tuttavia censurate dai giudici di legittimità sotto molteplici profili.

 

4.1. Cominciando dalla causalità generale (pp. 71-79), la Corte ripercorre nel dettaglio gli argomenti alla luce dei quali il Tribunale e la Corte d’Appello avevano giudicato la teoria dell’effetto acceleratore sufficientemente attendibile. Dopo avere richiamato, uno ad uno, gli studi scientifici citati in particolare dal Tribunale, la Cassazione osserva «come essi sostengano la conclusione di una relazione tra dose e incidenza dei casi di mesotelioma; mentre in nessuno di essi, per come riportati dal Tribunale, ad eccezione del Quaderno del Ministero della Salute n. 15, si pone una relazione tra dose e abbreviazione del tempo della morte». Coerentemente – e dopo avere per inciso ricordato che argomenti a sostegno dell’esistenza dell’effetto acceleratore non possono essere direttamente ricavati dalla giurisprudenza della Cassazione: «il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico» – il collegio si sofferma sulle argomentazioni incentrate sul citato Quaderno ministeriale e sulla principale fonte scientifica in esso richiamata, vale a dire lo studio di Berry del 2007 sul tumore polmonare. Al riguardo, la Cassazione rileva diversi profili di illogicità che la portano ad accogliere le censure dei difensori.

Anzitutto, si osserva che la Corte d’Appello non ha replicato al rilievo difensivo secondo cui l’applicabilità del modello di Berry anche al mesotelioma (anziché solo al tumore polmonare) sia sostenuta dai soli c.t. del PM, ma non trovi riscontro nella letteratura scientifica internazionale (p. 76). I giudici del gravame si sarebbero in particolare concentrati sul diverso tema della corrispondenza logica, a livello di popolazione, tra aumento dell’incidenza ed accorciamento della latenza; ma appunto avrebbero omesso di illustrare argomenti in forza dei quali tale corrispondenza, dimostrata da Berry con riferimento al tumore polmonare, potesse essere predicata anche rispetto al mesotelioma.

È vero – osserva la Cassazione – che la validità della teoria dell’effetto acceleratore (anche) rispetto al mesotelioma è espressamente affermata nel citato Quaderno ministeriale. Tuttavia – soggiunge la Suprema Corte – anche su questo punto la Corte d’Appello non ha replicato in maniera soddisfacente ai rilievi difensivi secondo cui: i) la versione originaria del Quaderno poneva la questione dell’effetto acceleratore in termini problematici e non pacifici; ii) la successiva modifica del testo è stata effettuata ad opera di una parte soltanto degli autori originari, segnatamente di coloro che risultano impegnati come consulenti dell’accusa in vari procedimenti penali (p. 77). Stante questo scenario, secondo i giudici di legittimità «la Corte di Appello avrebbe dovuto verificare […] quali nuovi elementi erano intervenuti nel panorama di quelle conoscenze che fossero capaci di giustificare un così palese cambio di posizione, peraltro in un arco temporale in definitiva ristretto (prima versione maggio 2012, seconda versione anteriore al novembre 2013 […])» (ibidem).

Infine, i giudici d’appello si sono basati sulle sole affermazioni dei c.t. dell’accusa, anziché preoccuparsi di ricostruire la posizione della più ampia comunità scientifica, per giudicare non attendibile uno studio del 2013 (firmato dalla scienziata Frost) che metterebbe in dubbio l’esistenza di una proporzione inversa tra esposizione e latenza (p. 78).

Quello dell’effetto acceleratore, conclude la Cassazione, è un «segmento del percorso ricostruttivo di tale decisività che una irrisolta ambiguità o una incertezza in ordine all’effettivo riconoscimento di quella legge è in grado di fondare il ragionevole dubbio il cui mancato superamento impone una decisione assolutoria, ai sensi dell’art. 533, co. 1 c.p.p.».

 

4.2. La questione dell’effetto acceleratore conduce all’annullamento delle condanne di merito anche sotto il profilo del difetto di prova della causalità individuale (pp. 79-88). La Cassazione ricorda come, sul punto, il Tribunale avesse concluso nel senso che hanno sempre efficacia causale (legge scientifica universale) le dosi di amianto inalate nella fase di induzione del tumore (cioè, sempre secondo il Tribunale, nell’intervallo temporale tra l’inizio dell’esposizione al fattore cancerogeno ed il decimo anno precedente alla diagnosi clinica); e pertanto avesse ritenuto accertata la causalità individuale laddove vi fosse stata una almeno parziale sovrapposizione tra il periodo in cui l’imputato aveva rivestito la carica ed il periodo di induzione del tumore di ciascuna persona offesa. La Corte d’Appello, invece, aveva preso le mosse dalla diversa convinzione secondo la teoria dell’effetto acceleratore ha natura probabilistica: tuttavia – osserva la Cassazione – la stessa corte territoriale non aveva portato nessun elemento concreto a sostegno della conclusione – alla quale nondimeno era pervenuta – secondo cui l’effetto acceleratore si era effettivamente verificato rispetto alle singole persone offese. Ma se davvero la legge di copertura ha natura probabilistica – ha ricordato la Cassazione richiamando nuovamente la sentenza Cozziniallora «devono essere noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi devono essere presenti nella concreta vicenda processuale» (p. 84). In assenza di questi elementi – conclude il supremo collegio – le statuizioni dei giudici del gravame in ordine alla credibilità razionale del giudizio causale si risolvono in un «mero artificio verbale, vuoto com’è di una significativa base fattuale» (Ibidem); ed al contempo «coglie nel segno la censura difensiva, di un utilizzo della legge statistica come se si trattasse di una legge universale» (p. 86).

 

5. Passando al nesso causale tra amianto e tumore polmonare, che entrambi i giudici di merito avevano ravvisato rispetto a tre lavoratori del petrolchimico, la Cassazione ha anzitutto respinto le censure difensive rivolte contro l’asserita esistenza di un’esposizione causalmente efficiente sotto il profilo del quantum (pp. 88-92). Tali censure si articolavano in due principali argomenti: i) il dato, ricavato dal Consensus report di Helsinki del 1997, secondo cui il tumore polmonare sarebbe causalmente associato all’amianto solo in presenza di elevate esposizioni (segnatamente 25 fibre/ml anno); ii) la circostanza che, nel caso di specie, l’entità dell’esposizione subita da ciascun lavoratore non fosse stata oggetto di misurazione. Quanto al punto i), la Cassazione ha ritenuto immune da vizi logici l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui, in base al medesimo Consensus report, la soglia delle 25 fibre/ml è associata ad un raddoppio del rischio relativo, senza che ciò significhi che esposizioni minori non aumentano comunque il rischio, fatta eccezione per quelle estremamente basse. Quanto al punto ii), la circostanza che i lavoratori del petrolchimico fossero stati esposti a dosi non trascurabili è stata adeguatamente dimostrata su base testimoniale, e non può essere revocata in dubbio sulla mera base dell’assenza di misurazioni e campionamenti, atteso che «il vigente sistema processuale non conosce ipotesi di prova legale»; tanto è vero – osserva la Cassazione – che «anche nei settori nei quali risultano indicazioni normative per uno speciale rilievo di valori soglia e peculiari previsioni per il relativo accertamento» – la Corte porta gli esempi dell’accertamento dello stato d’ebbrezza e della misurazione delle emissioni di acque reflue – «viene escluso che la prova possa essere data esclusivamente attraverso tali metodiche» (p. 90).

La sentenza impugnata viene nondimeno parzialmente annullata sotto il profilo del difetto di prova della causalità individuale (pp. 92-96). Secondo i giudici di legittimità, mentre in due casi la Corte d’Appello aveva fatto buon governo delle regole che disciplinano l’esclusione dei decorsi causali alternativi in presenza di patologie multifattoriali (in un caso, peraltro prescritto, il lavoratore non era fumatore; in un altro caso aveva smesso di fumare trent’anni prima della diagnosi di tumore e comunque si era trattato di un consumo ridotto, pari a circa 5-6 sigarette al giorno, di tal ché «l’esistenza stessa di un fattore alternativo appare, in questo caso, meramente congetturale»); ad analoghe conclusioni non poteva pervenirsi rispetto ad un terzo caso, dove la rilevanza causale del fumo era stata negata dai giudici di merito malgrado il lavoratore fosse dedito al consumo di circa 10-15 sigarette al giorno, e tale abitudine si fosse protratta fino al 1997, dunque anche oltre l’esposizione all’amianto (per lui cessata nel 1996).

 

6. Ulteriore esposizione che subivano gli operai del petrolchimico mantovano era quella al benzene, che entrambi i giudici di merito hanno ritenuto causalmente rilevante rispetto alla leucemia mieloide acuta (LMA). Trattandosi di reati prescrittisi dopo la condanna di primo grado, rispetto ai quali la Corte d’Appello aveva soltanto confermato le statuizioni civili ex art. 578 c.p.p., la Cassazione procede all’esame dei ricorsi dei difensori degli imputati al solo scopo di verificare eventuali vizi nel giudizio di “non evidenza” della prova dell’innocenza ai sensi dell’art. 129 co. 2 c.p.p.; vizi che non vengono riscontrati, con conseguente rigetto dei ricorsi (pp. 96-107).

Immune da censure, anzitutto, si ritiene la conclusione raggiunta dai giudici di merito con riferimento alla dose di esposizione al benzene dotata di idoneità lesiva rispetto alla LMA, quantificata in almeno 10 ppm-anni (come prospettato dai c.t. dell’accusa) anziché in almeno 40 ppm-anni (come invece sostenuto dai c.t. della difesa). Nel solco delle indicazioni fornite con riguardo ai criteri di selezione del sapere scientifico (v. supra, n. 3), la Cassazione osserva che la sentenza impugnata ha motivato l’adesione alla prospettazione accusatoria in ragione della sua coerenza con lo “stato dell’arte” delle conoscenze scientifiche condivise: tanto in virtù dell’ampiezza della base di dati (studi epidemiologici su coorti formate da decine di migliaia di lavoratori), della specificità degli studi rispetto alla situazione di cui si occupa il processo (con riferimento alle mansioni dei soggetti esposti ed alla durata delle esposizioni), dell’autorevolezza e imparzialità dei soggetti che li hanno condotti («studiosi di competenza riconosciuta a livello internazionale, con numerose pubblicazioni scientifiche ed estranei a conflitti di interesse con industrie che producono o commerciano prodotti contenenti benzene», p. 100).

Così risolto il problema della causalità generale, e dopo avere altresì respinto le censure difensive che contestavano l’effettiva esposizione al benzene di una delle persone offese (pp. 103-105), la Corte si concentra sul tema della causalità individuale (pp. 105-107). Prendendo le mosse dalla natura multifattoriale della LMA, i ricorrenti sostenevano che non fosse possibile escludere l’intervento di cause alternative, quali il fumo di sigaretta o altri specifici fattori oncogeni. La Cassazione, invece, rinviene nelle motivazioni d’appello sufficienti elementi a sostegno della conclusione secondo cui «nessuna emergenza processuale dava concretezza all’ipotesi di una azione causale indotta da fattore diverso dal benzene» (p. 105): non era emersa, anzitutto, l’esistenza di una legge scientifica di copertura capace di evidenziare un aumento del rischio di LMA rispetto al solo fattore “fumo”; in secondo luogo, quanto ai fattori di rischio dell’LMA scientificamente riconosciuti (diversi dal benzene), non erano emersi elementi a sostegno dell’ipotesi che le persone offese vi fossero state effettivamente esposte.

 

7. Una parte della motivazione è dedicata alle questioni relative alle posizioni di garanzia degli imputati (alcuni dei quali indicati come amministratori delegati della società proprietaria dello stabilimento, altri come direttori di quest’ultimo), con rifermento alle quali i motivi di ricorso vengono interamente rigettati. Si tratta di questioni per lo più collegate alle censure difensive secondo cui la sentenza impugnata si sarebbe limitata a prendere atto della qualifica di ciascun agente, senza accertarne l’effettiva titolarità di poteri di gestione e controllo. Tali censure vengono appunto rigettate passando in rassegna, per ciascuno degli imputati, le motivazioni formulate dalla Corte d’Appello alla luce del concreto contesto organizzativo e della documentazione aziendale disponibile. Sullo sfondo di queste specifiche statuizioni, per le quali si rinvia al testo della sentenza (pp. 107-114), la Corte ritiene che i reati ascritti agli imputati abbiano natura commissiva, e che nondimeno, stante la complessità dell’organizzazione societaria, la ricostruzione delle posizioni di garanzia sia comunque indispensabile in quanto funzionale a circoscrivere la sfera di competenza di ciascuno, onde evitare che la responsabilità penale discenda automaticamente dal ruolo formale ricoperto, anziché dalla effettiva decisione di esporre i lavoratori all’agente patogeno in determinate condizioni.

 

8. Anche le censure formulate dai ricorrenti con riferimento all’accertamento della colpa vengono rigettate (pp. 118-122). Agevolmente la Cassazione si libera dei motivi di ricorso secondo cui le norme cautelari sulla difesa dei lavoratori dalle polveri vigenti all’epoca delle esposizioni (in primis quelle racchiuse nel d.P.R. n. 303 del 1956, recante “norme generali per l’igiene del lavoro”) erano volte a prevenire meri fastidi e molestie, ricordando come invece si trattasse di previsioni poste a tutela della salute e segnatamente volte a prevenire eventi lesivi connessi a malattie professionali dell’apparato respiratorio.

Un altro insieme di censure prendeva le mosse dai valori soglia di esposizione (all’amianto ed al benzene) raccomandati tra gli anni ’70 e ’80, per affermare che gli imputati non avrebbero potuto rappresentarsi la pericolosità dell’amianto a concentrazioni che si fossero attestate sotto soglia; al contrario, avrebbero potuto riporre legittimo affidamento sull’innocuità di tali esposizioni. Osservavano i difensori come la sentenza impugnata da un lato avesse ritenuto non dimostrato il rispetto dei valori soglia da parte degli imputati, così tuttavia indebitamente invertendo l’onere della prova; dall’altro lato avesse ritenuto che, in ogni caso, le concentrazioni avrebbero potuto essere ridotte ulteriormente, muovendo in sostanza dall’implicita premessa secondo il cui il garante deve spingersi sino all’azzeramento totale delle esposizioni nocive. Infine, con specifico riferimento alle conoscenze sulla cancerogenicità dell’amianto, osservavano dai difensori che, anche a ritenere che si trattasse di un rischio già noto negli anni ’60, solo successivamente era maturata la consapevolezza in merito all’esistenza di rischi a basse e bassissime dosi (in particolare rispetto al mesotelioma).

La Cassazione mostra tuttavia di condividere i rilievi della Corte d’Appello «sull’accertata anteriorità delle conoscenze circa la cancerogenicità dell’amianto rispetto ai periodi nei quali i diversi imputati ebbero la responsabilità delle attività dello stabilimento di Mantova» (p. 122); nonché «sulla inconferenza del richiamo ai valori soglia, perché nella specie non era in questione la rilevanza di un comportamento cautelare limitatosi al contenimento delle esposizioni entro quei limiti, essendo mancata qualsivoglia azione di contenimento delle polluzioni, fermo restando che in relazione al mesotelioma pleurico neppure si poneva il tema delle soglie di esposizione» (ibidem). Richiamando, più in generale, i principi costantemente affermati nella giurisprudenza di legittimità in materia di colpa, la Corte ribadisce la propria posizione in base alla quale l’ambito di applicazione delle regole cautelari sulla difesa dei lavoratori dalle polveri – segnatamente l’art. 21 del già richiamato d.P.R. n. 303 del 1956 – non era limitato ai casi in cui il garante si trovasse «in presenza di “esposizioni molto consistenti” o di definite concentrazioni di fibre di amianto»; piuttosto «la disciplina intendeva eliminare del tutto l’esposizione del lavoratore all’agente fisico, ove possibile», fermo restando che «nel caso che occupa non è neppure dubitato che venne omesso qualunque provvedimento per fronteggiare il rischio connesso all’amianto» (p. 121).

Ancora, rispondendo alla censura difensiva in ordine alla carenza di motivazioni nella sentenza d’appello in punto di evitabilità dell’evento da parte di ciascun imputato attraverso la condotta alternativa lecita, la Cassazione si limita ad osservare che tale pretesa «non ha alcun fondamento se, come nel caso che occupa, le diverse vicende incentrate sul singolo fatto reato risultino per ogni aspetto sostanzialmente omogenee» (p. 122).

 

Sempre in materia di colpa, vengono respinti i motivi di ricorso del PG che contestavano il mancato riconoscimento dell’aggravante della colpa con previsione (nonché le conseguenze che ne erano state tratte sul piano della prescrizione). Secondo il ricorrente, anzitutto, le condizioni di esposizione presso il petrolchimico erano tanto gravi da rendere consapevoli di un elevato livello di rischio:  tale motivo viene respinto in quanto attinente al fatto. In secondo luogo, il ricorrente faceva leva su un vizio di illogicità della motivazione d’appello, consistito nell’avere dapprima escluso la colpa cosciente e successivamente, in sede di commisurazione della pena, nell’avere affermato l’elevata rimproverabilità degli imputati in ragione dell’ampia diffusione delle conoscenze in ordine al carattere tossico delle sostanze in questione. Al riguardo la Cassazione ricorda, richiamando le sentenze rese nei casi Costa Concordia e ThyssenKrupp, che «ricorre la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo» (p. 137). Ciò premesso, i giudici di legittimità evidenziano come la Corte d’Appello avesse collegato l’elevata rimproverabilità ad un “mancato approvvigionamento informativo”: sicché, secondo la Cassazione, «il ricorrente mostra di confondere la generale disponibilità di conoscenze scientifiche con il possesso delle stesse da parte dell’autore del reato» (p. 138).

 

9. Nessuna condanna, nei giudizi di merito, era stata pronunciata con riferimento ai reati di cui all’art. 437 c.p. riuniti sotto il capo 3). Alcune omissioni non erano state accertate, altre erano state giudicate atipiche, con conseguente insussistenza del fatto. Rispetto alle condotte omissive accertate, il Tribunale aveva negato la sussistenza del dolo, mentre i giudici del gravame, ritenendo non evidente la prova dell’innocenza degli imputati, avevano dichiarato la prescrizione del reato, decisione confermata dalla Cassazione, che peraltro – nel respingere il ricorso del PG di Brescia – svolge alcune precisazioni in merito all’individuazione del dies a quo del termine estintivo (pp. 131-134). Secondo i giudici di legittimità, rispetto all’ipotesi di cui all’art. 437 co. 1, la consumazione del reato permane sino a quando si avveri una delle seguenti condizioni alternative: i) il dispositivo omesso sia stato collocato, o ii) non sia più utilmente collocabile, o iii) non possa più pretendersi il comportamento attivo doveroso, essendo venuto meno l’obbligo di facere, situazione che in particolare si verifica quando il garante cessa dalla carica. Nei casi in cui si sia verificata la malattia-infortunio di cui al co. 2, invece, «la consumazione del reato coincide con il momento momento al quale si fa risalire l’insorgenza della stessa» (p. 133), momento a sua volta identificato, nel caso di specie, con la «prima diagnosi della malattia […], risultando irrilevante ai fini del perfezionamento dell’ipotesi aggravata l’ulteriore evoluzione della malattia nella morte» (p. 134). Sulla scorta di tali premesse la Corte colloca il dies a quo della prescrizione in un momento addirittura antecedente rispetto a quello individuato dai giudici del gravame, senza peraltro che ciò ne modifichi le statuizioni.

 

Sempre con riferimento all’ipotesi del capoverso dell’art. 437 c.p., il PG aveva provato a sostenere che l’evento lesivo non fosse costituito da tante malattie-infortunio quante erano le persone offese indicate nel capo 3), bensì da un unico macro-evento di disastro, capace di ricomprendere collettivamente tutte le morti verificatesi in conseguenza delle esposizioni nocive presso lo stabilimento mantovano; tale ricostruzione era strumentale a sostenere che il dies a quo della prescrizione coincidesse con la verificazione dell’ultimo evento morte. La Cassazione respinge tale prospettazione ribadendo, sulla scorta dei principi affermati dalla pronuncia di legittimità sul caso Eternit, che tra i due eventi di cui al capoverso dell’art. 437 c.p. corre un’evidente linea di demarcazione sul piano del soggetto passivo: l’uno di natura individuale, nel caso delle malattie-infortunio; l’altro di natura collettiva, nel caso del disastro. Rispetto a quest’ultimo concetto la Corte richiama la nozione giurisprudenziale ormai consolidata, comprensiva del disastro c.d. ambientale che si realizza in un arco temporale prolungato, concludendo che «non vi è equivalenza giuridica tra numero dei soggetti passivi e sussistenza del pericolo comune (per non dire degli ulteriori elementi costitutivi del disastro)» (p. 133).

 

10. Alla luce di quanto esposto la sentenza della Corte d’Appello di Brescia viene annullata con rinvio in relazione agli omicidi colposi, esito di patologie amianto-correlate, per i quali non è ancora decorso il termine di prescrizione. Secondo la Cassazione, i giudici del rinvio dovranno procedere ad un nuovo esame per quanto riguarda: i) rispetto ai mesoteliomi, il riconoscimento da parte della comunità scientifica della teoria dell’effetto acceleratore, nonché l’identificabilità in termini temporali delle diverse fasi del processo oncogeno; ii) rispetto al tumore polmonare sviluppato dal lavoratore tabagista, l’esclusione di tale decorso causale alternativo. I ricorsi degli imputati e del responsabile civile vengono per il resto rigettati, e gli stessi condannati al risarcimento del danno nei confronti di alcune parti civili; parimenti viene rigettato il ricorso del PG presso la Corte d’Appello di Brescia.

 

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11. La pronuncia si pone in linea di continuità con i più recenti e maturi orientamenti della Cassazione in materia di accertamento del nesso causale nel settore della responsabilità penale da esposizione a sostanze tossiche[3].

Con particolare riguardo al problema della selezione del sapere scientifico attendibile, da un lato, come evidenziato, vengono ancora una volta ribaditi i principi enucleati dalla sentenza Cozzini[4]; dall’altro lato si conferma una certa tendenza, già emersa in un altro recente arresto[5], a conferire un ruolo centrale al criterio del “consenso della comunità scientifica”, che nella sentenza Cozzini compariva quale criterio di chiusura in calce ad un più ampio catalogo[6]. Sul punto occorre peraltro sottolineare come la stessa Cozzini avesse chiarito che la verifica in ordine all’accreditamento di una teoria da parte della comunità scientifica acquista particolare rilievo laddove le consulenze tecniche esprimano posizioni irriducibilmente incompatibili[7]. Ed è proprio siffatta ipotesi, a ben vedere, a costituire l’oggetto della sentenza qui esame, dove il criterio del “consenso” determina l’esito decisionale (annullamento delle condanne con rinvio) rispetto ad una delle più controverse questioni scientifiche sulle quali negli ultimi anni gli esperti si scontrano nelle aule penali: quella dell’effetto acceleratore che il protrarsi dell’esposizione all’amianto e/o il sommarsi di più esposizioni è in grado di determinare rispetto allo sviluppo del mesotelioma. In questa prospettiva, indirizzare il giudice di merito verso la ricerca della posizione più accreditata non significa sminuire il suo ruolo di peritus peritorum, bensì garantire che rimanga fruitore e non creatore di leggi scientifiche[8], evitando che vesta i panni dell’apprendista scienziato.

La ricca casistica sviluppatasi attorno al tema dell’effetto acceleratore ha consentito, ad oggi, di individuare alcuni punti fermi, ribaditi anche dalle sentenze intervenute nella vicenda qui in esame: i) non è controverso che l’aumento della dose di esposizione determina un aumento dell’incidenza dei mesoteliomi; ii) è invece controverso se il protrarsi nel tempo dell’esposizione (c.d. dose-cumulativa) determini un accorciamento della latenza media;  iii) l’equivalenza tra aumento dell’incidenza e accorciamento della latenza a livello di popolazione è stato dimostrato dallo studio Berry sul tumore polmonare, oggetto di ampio consenso nella comunità scientifica, secondo il quale aumentando l’esposizione di una popolazione al fattore cancerogeno si raggiunge lo stesso livello di incidenza di tumori in un tempo inferiore[9]. Resta da stabilire quale sia la posizione maggiormente accreditata nella comunità scientifica in ordine all’estendibilità della teoria di Berry anche ai mesoteliomi.

Peraltro, anche laddove emerga il consenso della comunità scientifica in ordine alla validità della legge di copertura sull’effetto acceleratore, occorrerà procedere all’accertamento della causalità individuale, cioè verificare se tale effetto si sia prodotto rispetto ai singoli esposti. Sul punto appaiono in via di superamento – quanto meno nelle più attente pronunce di legittimità – gli orientamenti elusivi della causalità individuale che fino alla sentenza Cozzini dominavano la scena della giurisprudenza sull’amianto[10]: si tratta, come è noto, delle pronunce che, a fronte di un sapere scientifico di tipo statistico, predicavano il raggiungimento dell’alto grado di credibilità razionale malgrado il quadro probatorio in ordine alla conferma dell’ipotesi scientifica nel caso concreto fosse del tutto vuoto[11]. La sentenza in esame si colloca in questo nuovo e virtuoso trend giurisprudenziale: essa infatti annulla le condanne rispetto alle quali è mancato l’accertamento della causalità individuale tra il fattore di rischio e l’evento lesivo (morte per mesotelioma e per tumore polmonare), riaffermando così lo statuto condizionalistico della causalità e dando concretezza alle garanzie in esso sottese. Sul punto il collegio insiste, in particolare, sulla necessità di procedere ad un’accurata esclusione dei decorsi causali alternativi (purché vi siano elementi concreti, nel caso di specie, che rendano quanto meno plausibile l’ipotesi della loro presenza); nonché, laddove il procedimento euristico per esclusione non sia applicabile (come nel caso dell’effetto acceleratore, dove non si tratta di escludere l’intervento di un fattore di rischio dall’amianto, bensì di stabilire quale è stata l’incidenza di molteplici porzioni di esposizione all’amianto sull’evoluzione della patologia), di verificare la presenza di marcatori dell’accelerazione o quanto meno di stabilire i confini temporali delle diverse fasi della cancerogenesi, individuando quella in cui detto effetto si produce.  

 

12. Destano invece alcune perplessità le statuizioni della Cassazione sulla colpa, segnatamente quelle relative ai casi di mesotelioma. Come visto, i giudici di legittimità hanno ritenuto immune da vizi la motivazione della Corte d’Appello secondo cui: i) le conoscenze sulla cancerogenicità dell’amianto erano già disponibili quando gli imputati assunsero le cariche direttive; ii) il richiamo dei difensori ai limiti-soglia raccomandati era inconferente in quanto nulla era stato fatto per contenere le esposizioni. Ora, in disparte ogni considerazione relativa al caso di specie, ci pare tuttavia che, sul piano dei principi, questo tipo di argomentazione finisca per eludere il problema – cruciale per conferire sufficiente determinatezza ai reati colposi causalmente orientati – dell’individuazione della condotta diligente. Come è noto, in presenza di regole cautelari elastiche – quale senza dubbio era l’art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, che si limitava a prescrivere l’obbligo di abbattimento delle polveri – la condotta diligente deve essere ricostruita attraverso gli stessi criteri che presiedono all’accertamento della colpa generica[12], ossia facendo riferimento al sapere scientifico disponibile all’epoca della condotta[13]. Ebbene, se da un lato è vero che le conoscenze sul rischio mesotelioma quale conseguenza dell’esposizione ad amianto si erano diffuse a partire dalla metà degli anni ’60; è altrettanto vero che la consapevolezza in ordine al rischio a basse e bassissime dosi è maturata negli anni successivi, trovando riflesso nel progressivo abbassamento dei limiti-soglia raccomandati a livello internazionale[14]. Tali limiti-soglia, dunque, devono oggi essere necessariamente presi in considerazione quanto meno sotto forma di indici del livello di sapere scientifico disponibile nel periodo storico in cui erano raccomandati.

Limitarsi ad affermare che il datore di lavoro avrebbe dovuto in ogni caso ridurre l’esposizione significa sottrarsi a questo compito, eludendo il problema di ricostruire con precisione l’agente modello. Proprio la casistica giurisprudenziale sul mesotelioma dimostra quanto un tale approccio metta a repentaglio la natura ex ante del rimprovero colposo. Alcune sentenze, infatti, di fronte all’argomento difensivo secondo cui nessuna misura cautelare avrebbe potuto evitare l’evento, stante l’esistenza del rischio di sviluppare il mesotelioma anche a bassissime dosi, hanno affermato che in tal caso il garante avrebbe dovuto rinunciare all’attività o quanto meno all’utilizzo dell’amianto[15]. In questo modo, tuttavia, hanno sostanzialmente imposto al garante l’obbligo di anticipare un divieto che sarebbe stato introdotto dalla legge n. 257 del 1992. La verità è che fino a quel momento l’utilizzo dell’amianto, ancorché notoriamente pericoloso, rientrava entro certi limiti in un’area di rischio consentito dall’ordinamento. La circostanza che nel 1992 questa area sia stata – del tutto condivisibilmente – cancellata, non ha alcun rilievo rispetto all’accertamento della responsabilità di coloro che utilizzarono l’amianto in epoche precedenti. Ciò evidentemente non significa che essi non potranno incorrere in un rimprovero per colpa; significa, piuttosto, che tale rimprovero non potrà essere quello di “non avere rinunciato all’amianto”. Per questa stessa ragione è indispensabile procedere alla ricostruzione dei confini della condotta diligente, senza ridurre tale operazione ad un indeterminato obbligo di “abbattere le polveri” e dunque tenendo conto anche dei limiti-soglia raccomandati[16]; diversamente opinando, infatti, si arrecherebbe un vulnus alla tipicità del reato colposo d’evento non meno grave di quello derivante dall’elusione della causalità individuale.

La giurisprudenza maggioritaria sull’esposizione a sostanze tossiche ha finora trascurato il problema del rischio consentito, implicitamente identificandolo con il rischio zero. Tale posizione si fonda sull’assunto, talvolta esplicitato, in base al quale il diritto alla salute non può essere sacrificato a vantaggio di altri interessi, quali i livelli di occupazione e tanto meno il profitto economico[17]. Questa convinzione, tuttavia, si scontra con i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale in materia di limiti all’autorizzazione di attività produttive pericolose. Nelle due recenti pronunce relative ai decreti c.d. salva-Ilva del 2012 e del 2015[18], infatti, la Consulta ha affermato che non è astrattamente precluso per il legislatore e l’amministrazione contemperare gli interessi alla salute, all’ambiente ed ai livelli di occupazione; purché si tratti di un bilanciamento ragionevole ed equilibrato[19]. Tanto sul presupposto, già emerso nella dottrina costituzionale, secondo cui non esistono nella Carta fondamentale diritti affermati in termini assoluti[20]; al contrario ogni diritto, compreso quello alla salute[21], si colloca all’interno di un «tessuto costituzionale complesso»[22], nel cui ambito altri diritti e interessi, purché anch’essi costituzionalmente protetti[23], possono legittimamente limitarne la portata.

Tutto ciò non significa, evidentemente, che il datore di lavoro possa discrezionalmente sacrificare la salute dipendenti alle esigenze della produzione; significa però che l’ordinamento può legittimamente ritagliare aree di rischio consentito per lo svolgimento di attività socialmente utili, comprese quelle produttive, attraverso un ragionevole bilanciamento tra i molteplici interessi che vengono in rilievo.

Come abbiamo cercato di dimostrare compiutamente in altra sede[24], di tali aree di rischio consentito anche il giudice penale dovrà tenere conto nell’accertamento della colpa: è infatti evidente come l’unico modo per non svuotarla di qualsivoglia portata selettiva nel campo delle attività industriali rischiose sia proprio quello di non ridurla alla mera “prevedibilità” di eventi lesivi, quand’anche specificamente descritti, bensì di ricostruire a quali condizioni l’ordinamento le autorizzava nel momento in cui sono state realizzate.

 

 


[1] Cass. pen., sez. IV, ud. 17 settembre 2010, dep. 13 dicembre 2010, n. 43786, Cozzini e altri, CED 248943, in questa Rivista, con nota di S. Zirulia; nonché in Cass. pen., 2011, p. 1679 ss. con nota di R. Bartoli.

[2] Il passaggio, testualmente riportato nella pronuncia qui in esame, è il seguente: «Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove» (p. 44 del testo originale della sentenza Cozzini).

[3] Cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. IV, ud. 3 novembre 2016, dep. 14 marzo 2017, n. 12175, Montefibre-bis, in questa Rivista, con annotazione di S. Zirulia; Cass. pen., sez. IV., ud. 21 settembre 2016, dep. 3 febbraio 2017, n. 5273, Montefibre Acerra.

[4] Cass. pen., sez. IV, ud. 17 settembre 2010, dep. 13 dicembre 2010, n. 43786, Cozzini e altri, cit.

[5] Cass. pen., sez. IV, ud. 10 novembre 2017, dep. 7 dicembre 2017, n. 55005, Pesenti e altri, CED 271718.

[6] Cfr. il passaggio riportato supra, nt. n. 2.

[7] Così recita, infatti, la nota pronuncia: « […] in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l'affidabilità metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso» (p. 45).

[8] Cfr. Stella F., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, II ed., Giuffrè, 2000, 80 ss., 153 ss.; nonché, da ultimo, Romano M. – D’Alessandro F., Nesso causale ed esposizione ad amianto. Dall’incertezza scientifica a quella giudiziaria: per un auspicabile chiarimento delle Sezioni Unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 1141 ss.

[9] Cfr. Magnani C. e al., III Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of the Pleura. Epidemiology, Public Health and Occupational Medicine related issues, in Medicina del Lavoro, 2015, 106, 5: «An increase in exposure causing an increase in incidence in the target population necessarily entails the acceleration of failure time, as the relationship between increase in incidence and acceleration of failure time is mathematically determined [Berry, 2007]».

[10] Per una rassegna aggiornata, si consentito rinviare a Zirulia S., Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, Giuffrè, 2018, 57 ss.

[11] Sull’indebita “flessibilizzazione” giurisprudenziale del paradigma causale nella “società del rischio”, cfr. Stella F., Giustizia e modernità, III ed., Giuffrè, 2005, 224 ss.; Gargani A., La “flessibilizzazione” giurisprudenziale delle categorie classiche del reato di fronte alle esigenze di controllo penale delle nuove fenomenologie di rischio, in Leg. Pen., 2011, 397 ss.;  più di recente, sempre con riferimento alla sovversione del modello causale classico nel settore delle malattie da esposizione industriale, v. Paliero C.E., Causalità e probabilità tra diritto penale e medicina legale, in Riv. it. med. leg., 2015, 1515 ss.

[12] V. Giunta F., La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 92: «quanto più è indeterminata la regola, tanto più la colpa specifica scolora in quella generica». Questa considerazione è stata testualmente ripresa nella sentenza della Cassazione sul caso di Porto Marghera (v. Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri, p. 275 del testo originale).

[13] Sul punto v. per tutti Forti G., Colpa ed evento nel diritto penale, Giuffrè, 1990, 206 ss., 515 ss.

[14] Cfr. Pisano R., L’amianto, il suo utilizzo e gli effetti sull’uomo, in Di Amato A. (a cura di), La responsabilità penale da amianto, Giuffrè, 2003, 41 ss.

[15] In questo senso Cass. pen., sez. IV, 24 maggio 2012, n. 33311, Breda-Fincantieri Venezia, in questa Rivista, 11 ottobre 2012, con annotazione di S. Zirulia; Cass. pen., sez. IV, 25 marzo 2013, n. 35309, Baracchi.

[16] In questo senso, nella più recente giurisprudenza di merito in materia di amianto, v. App. Milano, 20 ottobre 2016, Fibronit Broni, in questa Rivista, 6 marzo 2017, con annotazione di F. Tomasello; Trib. Torino, 4 novembre 2015, in Riv. it. med. leg., 2016, 791 ss., con nota di Miglio.

[17] Cfr., con accenti diversi, ma tutte convergenti nell’escludere che la normativa cautelare autorizzi, ancorché entro determinati valori-limite, l’esposizione a fattori di rischio noti: Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 199, n. 3567, Hariolf in Foro it., 2000, II, 259; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988, Macola e altro, in Foro it., 2003, 324 ss.; Cass. pen., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini e altri; Cass. pen., sez. IV, 10 giugno 2010, n. 38991, Montefibre Verbania, in questa Rivista, 9 novembre 2010; Cass. pen., sez. IV, 25 marzo 2013, n. 35309, Baracchi.

[18] Il riferimento è alla sentenza n. 85 del 2013, relativa al primo decreto salva-Ilva (decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207, conv. con modif. dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231); nonché alla sentenza n. 58 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92, e degli artt. 1, co. 2 e 2-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132. Per un sintetico quadro d’insieme delle questioni affrontate nelle due pronunce, sia concesso il rinvio a Zirulia S., Sequestro preventivo e sicurezza sul lavoro: illegittimo il decreto “salva-Ilva” n. 92 del 2015, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2018, in corso di pubblicazione (contributo pubblicato nella sezione Rassegna di giurisprudenza Costituzionale).

[19] Cfr. sent. n. 85 del 2013, cons. in diritto nn. 9 e 10; sent. n. 58 del 2018, cons. in diritto n. 3.1.

[20] V. Bin R., Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, 1992, 32-35.

[21] Cfr. Onida V., Un conflitto fra poteri sotto le vesti di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente. Nota a Corte Cost., sent. n. 85 del 2013, in Riv. ass. it. cost., 2013, n. 3, p. 2, che osserva come molte attività umane ordinarie siano in linea di principio suscettibili di incidere negativamente sui diritti fondamentali della persona, e sottolinea che il relativo bilanciamento spetta in primis ai poteri politici (legislativi e amministrativi)

[22] In questo senso Cartabia M., I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, relazione nell’ambito della Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, Palazzo della Consulta, 24-26 ottobre 2013, in www.cortecostituzionale.it, 9. Al riguardo, la sent. n. 85 del 2013 ricollega al diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. «l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso» (cons. in dir. n. 9).

[23] Cartabia M., I principi di ragionevolezza e proporzionalità, cit., 12.

[24] Sia concesso il rinvio a Zirulia S., Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, cit., 309 ss.