ISSN 2039-1676


13 giugno 2019 |

Troppe incertezze in tema di "fratelli minori": rimessa alle Sezioni Unite la questione dell’estensibilità erga omnes della sentenza Contrada c. Italia

Cass., Sez. VI, ord. 22 marzo 2019 (dep. 17 maggio 2019), n. 21767, Pres. Mogini, Rel. Calvanese, Ric. Genco

 

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1. Ancora una volta torniamo a occuparci, e con noi la Corte di cassazione, della questione dei “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo. Con tale espressione, ormai ampiamente nota al linguaggio giuridico, facciamo riferimento a coloro che, pur non avendo mai personalmente adito la Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale rispetto alla quale i giudici europei abbiano riscontrato una violazione della Cedu, in un procedimento riguardante un soggetto diverso.

Nel caso che qui ci interessa, il ricorrente vanterebbe questa “particolare parentela” con Bruno Contrada, la cui vicenda non è di certo nuova ai nostri lettori: condannato in via definitiva nel 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa, per fatti commessi tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, Contrada ha ottenuto che la Corte di Strasburgo (sentenza Contrada c. Italia del 14 aprile 2015) accertasse l’avvenuta violazione, a suo discapito, delle garanzie sancite dall’art. 7 Cedu, rubricato “Nullum crimen, nulla poena sine lege”; ciò perché, a giudizio della stessa Corte europea, il reato per cui era stato condannato non era “sufficientemente chiaro e prevedibile” al momento dei fatti oggetto di imputazione, in quanto frutto di un’evoluzione giurisprudenziale consolidatasi solo con la sentenza delle Sezioni Unite Demitry dell’ottobre 1994. Il problema che ora la nostra Suprema Corte è chiamata ad affrontare è se tale principio di diritto debba o meno essere esteso erga omnes, e pertanto nei confronti di tutti coloro che, come Bruno Contrada, siano stati condannati – in via definitiva – per concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. per condotte poste in essere anteriormente al 1994.

Abbiamo già avuto modo di osservare sulle pagine di questa Rivista come si tratti di un tema tuttora aperto: difatti, mentre la vicenda giudiziaria riguardante Bruno Contrada ha trovato (seppur all’esito di un percorso “tormentoso”) la propria naturale conclusione con la sentenza della Suprema Corte del 20 settembre 2017, la quale ha dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” la condanna contro di lui emessa [1], finora i giudici italiani hanno sempre negato tale tutela ai suoi “fratelli minori”[2], che tuttavia non per questo hanno desistito dal presentare numerosissimi ricorsi dinanzi alle giurisdizioni interne: e si può certo ben immaginare quanto estesa possa essere questa singolare “famiglia”.

Questa volta la scelta del collegio giudicante, appartenente alla Sesta sezione della Corte, è stata però quella di rimettere la questione alle Sezioni Unite. Al fine di chiarire le ragioni di questo fondamentale passaggio, a nostro modesto avviso ormai necessario e inevitabile, occorre prendere in considerazione punto per punto l’ordinanza di rimessione di cui in epigrafe, cui sicuramente va reso il merito di aver intrapreso una quasi pioneristica opera di ricostruzione organica del problema, disvelando le numerose contraddizioni e criticità dell’attuale stato dell’arte in materia.

 

2. Nel caso di specie, il ricorrente, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti posti in essere fino al febbraio 1994, aveva intentato la via della revisione “europea” per far valere l’illegittimità della condanna subita ai sensi dell’art. 7 Cedu, su modello del caso Contrada. Rigettata l’istanza per infondatezza dal giudice della revisione, l’interessato ricorreva per cassazione, lamentando – in estrema sintesi – il fatto che, pur ritenendo astrattamente sussistenti i presupposti per attivare lo strumento introdotto dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 113 del 2011 (tanto che la decisione non era stata nel senso dell’inammissibilità), il giudice adito avesse sostanzialmente disapplicato la pronuncia Contrada c. Italia, omettendo di esaminare le ragioni che avrebbero dovuto portare a un’estensione della medesima anche nei confronti dell’istante.

Lo stesso ricorrente richiedeva inoltre, nelle sue conclusioni, che la decisione del ricorso fosse rimessa alle Sezioni Unite, riscontrando la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale su diverse questioni rilevanti ai fini della soluzione del caso in esame, tanto di carattere sostanziale (se debba o meno essere riconosciuta portata generale alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, e in particolare alla sentenza Contrada c. Italia), quanto di carattere processuale (se la via della revisione “europea” possa essere adita anche da soggetti diversi dal ricorrente a Strasburgo e, in generale, quali siano gli strumenti azionabili dai c.d. “fratelli minori”). In via subordinata, per il caso in cui il giudice di legittimità non avesse ritenuto percorribile la via della revisione nel caso concreto, veniva poi avanzata proposta di sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p.

 

3. Nel valutare la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, la Suprema Corte riconosce che la specifica questione inerente alla possibilità di estendere erga omnes i principi di diritto sanciti dalla sentenza Contrada c. Italia richiede di prendere in considerazione due distinti profili: da un lato, i principi finora affermatisi nella giurisprudenza – sia costituzionale, sia di legittimità – in tema di efficacia generale delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo; dall’altro la «singolarità della pronuncia stessa» quanto al tipo di violazione da essa riscontrata.

 

4. Soffermandosi anzitutto sul primo aspetto, la Cassazione muove proprio dalla già citata sentenza n. 113 del 2011 con cui la Corte costituzionale, dichiarando la parziale illegittimità dell’art. 630 c.p.p., ha introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto della revisione “europea”; in questa sede, difatti, «la Corte costituzionale ha ritenuto che l'istituto della revisione (…) dovesse invero consentire la riapertura del processo (funzionale sia alla rinnovazione di attività già espletate sia a quella integrale del giudizio) se ritenuta "necessaria", ai sensi dell'art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo». Secondo la lettura proposta dai giudici di legittimità nell’ordinanza qui in esame, con questa pronuncia la Consulta non solo avrebbe lasciato intenzionalmente aperta la possibilità di riscontrare «casi in cui la nuova celebrazione del processo non era richiesta necessariamente per l'esecuzione della sentenza europea, risultando sufficiente, per esempio, intervenire sul solo titolo esecutivo», ma avrebbe comunque forgiato, data l’ampiezza del dispositivo, uno strumento capace di porre rimedio a violazioni di carattere tanto processuale (ossia a violazioni del principio del giusto processo di cui all’art. 6 Cedu, come nel caso in cui il giudizio di legittimità costituzionale si inseriva) quanto sostanziale, «ben potendo anche una violazione che attiene al diritto sostanziale richiedere, per essere riparata, un'ulteriore attività cognitiva del giudice»[3].

Nondimeno, i giudici di legittimità ricordano anche come, successivamente a tale arresto, la stessa Grande Camera della Corte di Strasburgo, nel caso Moreira Ferreira c. Portogallo[4] (cui ha fatto seguito la Corte costituzionale con la sentenza n. 93 del 2018[5]), abbia chiarito che la riapertura di un procedimento interno a seguito dell’accertamento di una violazione della Convenzione non costituisce un rimedio automatico od obbligato, restando lo Stato libero di scegliere le modalità ritenute più adeguate a garantire il rispetto dell’obbligo di cui all’art. 46 § 1 Cedu.

Quel che è certo, in ogni caso, è che lo strumento coniato dalla Consulta sia stato pensato per essere azionato dai soggetti che abbiano adito vittoriosamente la Corte europea, nei cui confronti lo Stato condannato è convenzionalmente obbligato a rimuovere la violazione accertata e tutte le conseguenze della medesima. Ciò tuttavia non toglie che le pronunce di condanna della Corte di Strasburgo possano produrre effetti ulteriori, destinati a riflettersi su soggetti diversi dal singolo ricorrente vittorioso, e che le medesime possano assumere «valore generale e di principio»; tale efficacia “espansiva”, però, secondo l’attuale impostazione della giurisprudenza costituzionale, dovrebbe ritenersi limitata: secondo i dettami della sentenza n. 49 del 2015[6], infatti, solo le c.d. sentenze pilota o quelle espressive di “diritto consolidato” sarebbero pienamente vincolanti per i giudici nazionali, mentre «nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo»[7].

Rispetto a tale principio – di per sé finalizzato a garantire un margine di dialogo tra Corte europea e giudici nazionali, i quali non assolverebbero la funzione di “meri ricettori passivi”, bensì quella di diretti interpreti delle norme convenzionali – la stessa Corte di Strasburgo avrebbe invero assunto una posizione critica, fanno notare i giudici di legittimità. In tale senso andrebbe difatti letta l’affermazione contenuta nella sentenza G.I.E.M. e a. c. Italia del 28 giugno 2018 secondo la quale le pronunce del giudice europeo «hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e le loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate»[8].

 

5. Per quanto riguarda poi la questione della estensibilità erga omnes del c.d. giudicato europeo, e dunque lo specifico problema dei “fratelli minori”, l’arresto della Consulta a cui bisogna guardare è quello della sentenza n. 210 del 2013, emessa nell’ambito della nota vicenda Scoppola[9].

In quella pronuncia, la Corte costituzionale ha infatti espressamente riconosciuto la possibilità che le decisioni di condanna della Corte di Strasburgo rivestano portata generale, anche al di fuori delle ipotesi in cui sia la Corte europea stessa a richiedere l’adozione di misure di carattere generale e anche in relazione a situazioni già coperte da giudicato; ma, nei casi diversi da quello concretamente esaminato in sede europea, l’adeguamento dell’ordinamento non discenderebbe automaticamente dall’obbligo di cui all’art. 46 § 1 Cedu, bensì richiederebbe la pronuncia di illegittimità costituzionale della norma interna che si ponga in contrasto con la Convenzione, secondo lo schema indicato dalle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007. Laddove ciò si verifichi, sostiene la Consulta, ai sensi dell’art. 30, co. 4, legge n. 87 del 1953 lo stesso giudice dell’esecuzione potrebbe intervenire direttamente sul giudicato in applicazione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, sempre che si tratti di una situazione “a rime obbligate”, tale da non richiedere una riapertura del processo.

Su questa costruzione – in dottrina definita come “doppio binario” di tutela perché volta a diversificare il trattamento dei “fratelli minori” da quello del ricorrente[10] – si è peraltro innestata la sentenza delle Sezioni Unite nel caso Ercolano[11], la quale ha contribuito a corroborare il principio secondo cui il giudicato penale può e deve essere considerato “recessivo” rispetto a perduranti e serie compromissioni in atto dei diritti fondamentali della persona umana, come nel caso in cui sia ancora in esecuzione una pena conseguente a una condanna da considerarsi convenzionalmente illegittima. Le Sezioni Unite sono state persino più dirette della Corte costituzionale nell’affermare l’obbligo di garantire la rimozione degli effetti ancora perduranti di un’accertata violazione della Convenzione «anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo»: secondo i principi di diritto da queste elaborati (anche noti con il nome di “principi Ercolano”), un soggetto diverso dal ricorrente a Strasburgo potrebbe comunque avvalersi dell’incidente di esecuzione per eliminare le conseguenze di una condanna illegittima, purché a) la sua situazione sia identica a quella decisa dalla Corte europea; b) la pronuncia della Corte europea abbia rilevato l’esistenza di un vizio strutturale della normativa interna di carattere sostanziale; c) sia possibile interpretare la normativa interna in senso conforme a Convenzione, oppure, in caso contrario, sia intervenuta una declaratoria di illegittimità costituzionale; d) la soluzione della questione richieda un’operazione “sostanzialmente ricognitiva” e non sia dunque necessaria la riapertura del processo.

 

6. Come si è visto, tanto la Corte costituzionale, quanto le Sezioni Unite Ercolano hanno riconosciuto la possibilità di estendere il principio di diritto sancito da una sentenza di condanna europea anche ai “fratelli minori” del ricorrente attraverso lo strumento dell’incidente di esecuzione. Alla luce di questi arresti, pertanto, si potrebbe pensare che lo strumento della revisione “europea” possa invece essere attivato dal solo ricorrente, al fine di garantire l’esecuzione della pronuncia sovranazionale ai sensi dell’art. 46 § 1 Cedu.

A tal riguardo, l’ordinanza in commento rileva la sussistenza di due orientamenti differenti all’interno della successiva giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione.

Un primo orientamento sembrerebbe ammettere il ricorso allo strumento della revisione “europea” anche da parte dei “fratelli minori” nei soli casi in cui si sia in presenza di una sentenza “pilota”[12] emessa nei confronti dello Stato italiano; in questo senso, si richiamano le sentenze (entrambe pronunciate dalla Sesta sezione della Corte) Scandurra del 23 settembre 2014, n. 46067, e Barbieri del 2 marzo 2017, n. 21635.

In senso contrario, altre pronunce della Suprema Corte (nello specifico: Cass. pen., Sez. I, sentenza 23 ottobre 2018, n. 56163, Bruno[13], e Cass. pen., Sez. II, sentenza 20 giugno 2016, n. 40889, Cariolo[14]) hanno invece escluso radicalmente questa possibilità, a prescindere dalla natura “pilota” o meno della pronuncia in questione, sostenendo che il rimedio della revisione “europea” possa essere esclusivamente attivato dal soggetto ricorrente a Strasburgo nei cui confronti la violazione convenzionale sia stata accertata; deve peraltro considerarsi che, in tutti questi casi, i giudici di cassazione si sono trovati a dover decidere della questione in relazione a supposte violazioni dei principi dell’equo processo sanciti dall’art. 6 Cedu, il cui accertamento, si afferma, non può che dipendere dalle specificità della situazione concreta.

 

7. Infine, la Suprema Corte rileva come anche con particolare riferimento al problema della estensibilità del decisum proprio della sentenza Contrada c. Italia nei confronti di soggetti diversi dallo stesso Bruno Contrada in seno alla giurisprudenza di legittimità si siano affermate soluzioni esegetiche differenti.

La prima pronuncia sul tema risale all’11 ottobre 2016[15] ed è stata emessa nell’ambito di un incidente di esecuzione promosso dall’ex senatore Marcello Dell’Utri, anche lui, come Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti precedenti al 1994 (e, precisamente, commessi tra il 1974 e il 1992). Con riferimento a tale sentenza può certamente rimandarsi ai numerosi commenti della dottrina, pubblicati su questa Rivista e non solo[16]: per quanto può ora interessarci, ricordiamo solo che in quell’occasione la Cassazione ha chiaramente riconosciuto come il tema dell’applicazione di una sentenza europea emessa contro lo Stato italiano nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente, ma che si trovino in una posizione sostanzialmente identica a quest’ultimo, assuma rilievo direttamente in virtù degli obblighi previsti dall’art. 46 § 1 Cedu, affermando, quanto al profilo dei rimedi processuali utilizzabili, la “priorità logica” dello strumento della revisione “europea” e riservando così all’incidente d’esecuzione un ruolo solo residuale.

Pur riconoscendo la portata oggettiva e generale del principio di diritto contenuto nella sentenza Contrada c. Italia, però, la Cassazione ha ritenuto di negare l’estensione del “giudicato europeo” (rigettando il ricorso proposto da Dell’Utri) in quanto la situazione del ricorrente «non poteva dirsi esattamente speculare a quella del Contrada»: al fine di valutare l’identità sostanziale delle due vicende, infatti, non era a suo giudizio sufficiente considerare il solo dato temporale della commissione dei fatti antecedentemente al 1994, ma occorreva rintracciare nella condotta processuale del medesimo dei concreti indicatori della effettiva imprevedibilità di una condanna a titolo di concorso esterno. In particolare, ricollegando la violazione accertata dalla Corte europea «non già all’alternativa fatto lecito/fatto illecito (…) quanto all’aspettativa dell’imputato – nel caso concreto – di ricevere un trattamento sanzionatorio più mite», secondo la Suprema Corte era necessario che il ricorrente avesse quanto meno sollecitato una diversa qualificazione giuridica dei fatti nell’ambito del procedimento in cui era imputato, come, in effetti, aveva fatto Bruno Contrada a suo tempo.

Si poneva interamente sulla scia della Cassazione Dell’Utri anche la sentenza relativa al caso Gorgone del 10 aprile 2017, con cui la Suprema Corte perveniva alla medesima soluzione (attraverso, peraltro, ampi rinvii al proprio precedente)[17].

Diverse altre pronunce della Corte di legittimità hanno invece dimostrato di aderire a un differente orientamento, inaugurato dalla sentenza Esti del 12 gennaio 2018[18]. Con tale decisione i giudici di cassazione hanno infatti negato l’esportabilità delle conclusioni espressa dalla Corte europea nel caso Contrada in favore dei “fratelli minori” di quest’ultimo, in ragione del fatto che il “nucleo centrale” della sentenza in questione, costituito a loro giudizio dall’affermazione della incontroversa “natura giurisprudenziale” della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, si poneva in radicale contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, improntato alla riserva di legge, e non poteva pertanto trovare applicazione al di fuori dello specifico caso oggetto della decisione del giudice europeo.

 

8. Nell’ordinanza qui in commento, i giudici della Suprema Corte esprimono perplessità con riferimento alla correttezza di entrambe le soluzioni esegetiche ora riportate.

Da una parte, l’impostazione proposta dalla sentenza Esti non sembra considerare che, nell'interpretazione dell'art. 7 «la nozione di "law" (o "droit", nel testo francese), quale fonte del precetto penale e della relativa sanzione, è costantemente riferita dalla Corte EDU tanto al diritto di produzione legislativa quanto a quello di derivazione giurisprudenziale, inteso come "diritto vivente", risolvendosi la garanzia del principio del nullum crimen piuttosto nella qualità della fonte, che deve pur sempre rispondere ai criteri di accessibilità e prevedibilità»[19]. In sintesi: che si tratti o non si tratti di fattispecie a “origine giurisprudenziale”, l’esito per la Corte europea sarebbe comunque stato lo stesso, perché ciò che essa considera è la prevedibilità non solo della base legale del reato in senso stesso, ma della norma penale come applicata dalla giurisprudenza interna e, nello specifico, come applicata nei confronti dello specifico ricorrente. Di conseguenza, osservano i giudici di cassazione, «anche la legge più indeterminata potrebbe da sola essere compatibile con il principio di legalità europea se l'incertezza della sua formulazione sia compensata da una giurisprudenza applicativa uniforme; così come viene a porsi in contrasto con il principio di legalità quella legge che, per quanto formulata in maniera chiara e precisa, sia caratterizzata da un'interpretazione giurisprudenziale non uniforme». E, ancora, «la Corte EDU non impedisce alla giurisprudenza nazionale di mutare il proprio orientamento nell'interpretazione di una norma legislativa, anche in materia penale. Si richiede, tuttavia, che tale mutamento sia ragionevolmente prevedibile dal destinatario della norma»[20].

D’altra parte, però, la sentenza Dell’Utri, pur avendo correttamente inquadrato il contenuto della violazione accertata dalla Corte europea nel caso Contrada, «ha finito per offrire una lettura in chiave prettamente interna del dictum della Corte EDU, ancorando la ragionevole prevedibilità della rilevanza penale di un fatto ad un profilo eminentemente soggettivo, anziché alla qualità della norma da valutarsi oggettivamente», lettura che «non sembra tuttavia trasparire dal percorso argomentativo della Corte EDU»[21]. Potrebbe trattarsi, si afferma, di una «ragionevole soluzione “intermedia”», finalizzata ad adattare in termini soggettivi i principi espressi dalla Corte di Strasburgo nel senso di una imprevedibilità “oggettiva” della fattispecie in esame; la Suprema Corte esprime però un (legittimo) dubbio sul fatto che la sentenza Contrada c. Italia lasciasse al giudice nazionale un “margine di apprezzamento” sufficientemente ampio da consentire una tale operazione interpretativa.

Oltre a ciò, oggetto di severa critica è la scelta della Cassazione Dell’Utri di ancorare tale prevedibilità soggettiva non alla condotta del ricorrente oggetto di imputazione, bensì al suo mero comportamento processuale: non solo si tratterebbe, infatti, di un elemento assolutamente ininfluente rispetto alla componente soggettiva (da leggersi in termini di colpevolezza) del giudizio di prevedibilità, ma in questo modo l’operazione esegetica della Suprema Corte avrebbe «trasformato il vulnus sistemico rilevato dalla Corte EDU in un vizio del singolo processo, avente ad oggetto un difetto della valutazione dei giudici che sono pervenuti alla condanna per reati di concorso esterno commessi in quella determinata fascia temporale»[22].

 

9. Alla luce di queste osservazioni, si prospetta, secondo la Suprema Corte, una terza opzione interpretativa, invero mai tentata finora dai giudici interni. Laddove si intendesse correttamente la censura mossa dalla Corte di Strasburgo nella sua effettiva portata oggettiva, ragionevolmente dovrebbe estendersi a tutti i “fratelli minori” di Contrada il principio secondo cui la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa non poteva dirsi sufficientemente chiara e prevedibile fino al suo consolidamento per via giurisprudenziale attraverso la pronuncia delle Sezioni Unite Demitry del 1994.

Tale principio di diritto, viene espressamente osservato, dovrebbe persino acquisire una portata ancora più estesa, prestandosi a essere “esportato” «ogni qualvolta sia presente un contrasto giurisprudenziale, poi risolto dalle Sezioni Unite (quale espressione del “diritto vivente”), dovendosi pertanto ritenere ragionevolmente imprevedibile qualunque condanna per fatti commessi prima del “consolidamento” della giurisprudenza sfavorevole al reo».

 

10. Di conseguenza, considerata la “delicatezza della materia” e le potenziali ripercussioni dei differenti orientamenti interpretativi qui brevemente analizzati rispetto all’effettiva attuazione da parte dello Stato italiano degli obblighi di conformazione alle decisioni della Corte europea, la Sesta sezione della Corte di cassazione ritiene necessario rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, affinché queste stabiliscano «se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile».

 

* * *

 

11. Le puntuali osservazioni formulate dalla Suprema Corte sono, ci pare, perfettamente in grado di fornire un quadro dettagliato e completo del problema di cui si sta trattando.

Le discordanti pronunce di legittimità succedutesi nel breve arco degli ultimi tre anni, invero, hanno alimentato notevoli incertezze rispetto alla posizione dei c.d. “fratelli minori” all’interno del nostro ordinamento; l’unico dato non controverso, al momento, dovrebbe essere la possibilità di avvalersi dello strumento dell’incidente di esecuzione – secondo i principi stabiliti dalle Sezioni Unite Ercolano – per coloro che sostengano di essere stati vittime di una violazione delle garanzie convenzionali di carattere sostanziale e sistematico, già accertata dalla Corte di Strasburgo, per la cui riparazione possa essere sufficiente un intervento “a rime obbligate”. In verità, tuttavia, come si è visto nella vicenda Dell’Utri, la stessa interpretazione dei principi Ercolano sembra essere tutt’altro che univoca e ampi margini di dubbio residuano rispetto ai criteri in base ai quali il giudice interno è tenuto a valutare la relazione di identità tra la posizione del ricorrente in sede europea e quella di chi, rimasto terzo al giudizio celebratosi a Strasburgo, richieda di potersi giovare degli esiti di quest’ultimo, incidendo su un giudicato penale già perfezionatosi. Così come nient’affatto chiara sembra la delimitazione dei casi in cui il necessario intervento di adeguamento possa concretamente dirsi “a rime obbligate” e pertanto essere interamente rimesso al giudice dell’esecuzione.

 

12. Sembrano, anzitutto, condivisibili le critiche sul punto mosse dall’ordinanza in esame nei confronti della sentenza Dell’Utri dell’11 ottobre 2016, la quale ha considerato la posizione dell’allora ricorrente sostanzialmente non sovrapponibile a quella di Bruno Contrada, in ragione di numerose “diversità di condizione giuridica e processuale”. Come avevamo già avuto occasione di osservare[23], infatti, la sentenza in questione sembra impropriamente spostare il punto focale della valutazione di prevedibilità della condanna penale dalla condotta incriminata a quello – in verità irrilevante ai fini dell’art. 7 Cedu – del comportamento processuale del soggetto, soffermandosi, in particolare, sul fatto che Dell’Utri non avesse sollevato nel procedimento penale a suo carico la questione dell’imprevedibilità di una condanna a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa.

Occorre tra l’altro sottolineare che tale pronuncia non ha affatto concluso la vicenda giudiziale riferibile all’ex senatore della Repubblica: fallito il tentativo di accedere all’incidente esecutivo, difatti, la difesa di Dell’Utri ha intrapreso la strada del giudizio di revisione “europea”, come si è visto formalmente suggerita dalla stessa Corte di cassazione. La Corte d’appello di Caltanissetta, giudice della revisione, ha però rigettato l’istanza con sentenza pronunciata l’8 marzo 2018 e depositata il successivo 23 aprile, n. 321; nel fare ciò, nondimeno, essa non ha aderito alle argomentazioni espresse dalla Corte di cassazione nell’ottobre precedente: al contrario, la Corte territoriale ha sostenuto l’effettiva identità tra la posizione di Dell’Utri e quella di Bruno Contrada, ma ha negato l’estensione al primo della pronuncia emessa in favore del secondo in quanto considerata espressione di una giurisprudenza non consolidata della Corte europea e per questo motivo, in base al principio statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, sostanzialmente sindacabile da parte del giudice interno. Il ricorso presentato da Dell’Utri contro quest’ultima decisione è stato a sua volta respinto dalla Quinta sezione della Corte di cassazione con sentenza pronunciata il 22 gennaio del corrente anno, le cui motivazioni sono ancora in attesa di deposito.

 

13. Nel decidere della questione rimessa al loro esame, le Sezioni Unite sono dunque ora chiamate a rispondere a diverse domande tra loro successive, che per ragioni di chiarezza è bene in questa sede tenere separate:

 

a) I principi espressi dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono suscettibili di estensione erga omnes anche con riferimento alle situazioni già coperte da giudicato? La soluzione a tale quesito passa per la corretta delimitazione della portata dell’obbligo di conformazione alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo di cui all’art. 46 § 1 Cedu; questione che, alla luce dei diversi arresti giurisprudenziali qui brevemente esaminati, appare essere tutt’altro che chiara ai nostri giudici interni e alla stessa Corte di legittimità.

Persino la pronuncia della Corte costituzionale n. 210 del 2013 non è priva di ambiguità: pur definendo apertamente l’Italia come obbligata a rimuovere gli effetti della violazione riscontrata dalla Corte di Strasburgo nei confronti di tutti i condannati che si trovavano «nelle medesime condizioni di Scoppola», in essa la Consulta ha infatti affermato che «in linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato», sostenendo che la Convenzione non imponesse di superare il limite del giudicato in casi diversi da quello concretamente deciso dai giudici europei, ma che la possibilità di farlo in simili ipotesi andasse ricavata «nell’ambito dell’ordinamento nazionale», in particolare nel principio di tutela della libertà personale[24].

La Corte europea dei diritti dell’uomo, del resto, non ha mai espressamente attribuito un tale ampio significato al precetto convenzionale invocato, non avendo mai direttamente sostenuto l’idoneità delle proprie sentenze a produrre effetti erga omnes anche in relazione a casi già coperti da giudicato[25]. Peraltro, l’esito del già ricordato caso Moreira Ferreira c. Portogallo sembra aver definitivamente sbarrato la strada all’eventualità che uno dei “fratelli minori” di Contrada (o di altri) cui i giudici italiani abbiano negato la tutela richiesta possa lamentare in sede europea la violazione dell’art. 46 Cedu[26]: un simile ricorso sarebbe infatti considerato inammissibile, perché, come chiarito dalla pronuncia citata, le questioni relative alla conformazione da parte degli Stati alle sentenze definitive della Corte europea ricadono al di fuori della giurisdizione della Corte stessa, salvo i casi in cui il Comitato dei Ministri avvii la procedura d’infrazione disciplinata dall’art. 46 §§ 4 e 5 CEDU.

Per questo motivo, nel tentare di illuminare i dubbi inerenti al contenuto degli obblighi di cui all’art. 46 § 1 Cedu, potrebbe forse essere più utile rivolgere l’attenzione alla prassi del Comitato dei Ministri, responsabile del monitoraggio sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea da parte degli Stati. Per quanto attiene al caso Contrada, in particolare, all’inizio dello scorso anno il Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea – il quale ha classificato la pronuncia Contrada c. Italia come leading case, relativo a un problema strutturale o sistemico dell’ordinamento interno – ha richiesto informazioni al Governo italiano sullo stato dell’adozione di misure a carattere generale capaci di rimuovere la violazione riscontrata; e il Governo nella sua risposta, datata 20 aprile 2018, ha fatto espressamente riferimento alla questione dei “fratelli minori” e al fatto che il sistema interno offra dei rimedi anche per coloro che si trovino in una posizione identica a quella in relazione alla quale la violazione convenzionale è stata constatata[27].

In effetti, una interpretazione ampia degli obblighi convenzionali in questione è stata pacificamente accolta dalle Sezioni Unite Ercolano, le quali, come abbiamo visto, hanno chiaramente aperto la strada a un’estensione generale dei principi espressi dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo anche oltre il limite del giudicato, persino al di fuori dei casi in cui la rimozione della violazione accertata debba passare per la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma interna.

 

b) L’ordinamento italiano dispone di strumenti processuali in grado di consentire ai “fratelli minori” del ricorrente di far valere i propri diritti ai sensi dell’art. 46 § 1 Cedu? Si tratta chiaramente di una questione la cui rilevanza è condizionata al fatto che si risponda positivamente al punto di cui sopra; l’alternativa sembrerebbe essere, come si è visto, quella tra incidente di esecuzione e “revisione europea”.

Il primo strumento è stato già utilizzato in passato nella vicenda dei “fratelli minori” di Scoppola e dovrebbe pertanto ritenersi attivabile solo nel rispetto dei già ricordati principi Ercolano; il secondo strumento, nondimeno, è stato indicato dalla Cassazione Dell’Utri dell’ottobre 2016 come prioritario quando sia necessario garantire una restitutio in integrum all’individuo a seguito dell’accertamento di una violazione convenzionale, anche laddove si tratti di un soggetto diverso dal ricorrente.

La giurisprudenza di legittimità è in verità divisa sull’ammissibilità del ricorso allo strumento della revisione “europea” da parte di soggetti estranei al procedimento celebratosi innanzi alla Corte di Strasburgo, per i casi in cui debba ritenersi necessaria una riapertura del processo penale; e tale rimedio, del resto, non è mai stato finora esperito con successo da alcuno dei “fratelli” di chicchessia. Tuttavia, e a condizione ovviamente che si acceda alla teoria per cui l’art. 46 § 1 Cedu importa in capo allo Stato un obbligo di conformazione altresì nei casi già coperti da giudicato, ci pare che, in realtà, nessun ostacolo dovrebbe frapporsi all’utilizzo in casi del genere dello strumento della “revisione europea”: l’ampiezza del dispositivo della sentenza n. 113 del 2011 – che fa meramente riferimento ai casi in cui la riapertura del processo sia “necessaria” per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea – non sembra infatti giustificare un’esclusione dei “fratelli minori” del ricorrente.

In via del tutto residuale, poi, qualora le Sezioni Unite non dovessero ritenere applicabili né il rimedio della revisione “europea” concretamente invocato nel caso di specie, né il diverso strumento dell’incidente di esecuzione, rimarrebbe sempre aperta la possibilità di proporre una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., prospettandone il contrasto con l’art. 117 c. 1 Cost., in relazione all’art. 46 § 1 Cedu, nella parte in cui non prevede la possibilità di procedere alla revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo anche quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 § Cedu, per estendere il principio di diritto statuito all’interno di una sentenza definitiva di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale abbia accertato una violazione della Convenzione di carattere sistematico, nei confronti degli ulteriori soggetti che si trovino nell’identica posizione sostanziale del ricorrente: su modello di quanto già avvenuto nel 2011, dunque, come prospettato nel caso di specie anche dallo stesso richiedente.

 

c) Ma allora, quid iuris per i “fratelli minori” di Bruno Contrada? Se le Sezioni Unite vorranno proseguire sulla strada già aperta dal proprio precedente Ercolano, i giudici italiani dovranno porsi il problema di ricostruire correttamente il principio di diritto statuito nella pronuncia Contrada c. Italia, al fine di valutare quali siano i soggetti, diversi dal ricorrente, nei cui confronti esso vada applicato.

A tal riguardo, ci sembra inevitabile giungere alla conclusione che la valutazione di imprevedibilità svolta in quell’occasione dalla Corte europea abbia carattere puramente oggettivo, andando a incidere su tutte le condanne per concorso esterno in associazione mafiosa emesse prima che la giurisprudenza in materia giungesse a una posizione consolidata, con la sentenza delle Sezioni Unite Demitry del 1994. Poiché la condotta contestata al ricorrente nel caso di specie si è interamente consumata prima (anche se per soli pochi mesi!) di tale momento di “cristallizzazione giurisprudenziale”, dunque, lo stesso dovrebbe essere a diritto considerato “fratello minore” di Bruno Contrada, in quanto vittima della medesima violazione delle garanzie di cui all’art. 7 Cedu.

A questo punto, però, sembra necessario introdurre un ulteriore elemento di riflessione. L’esito di una effettiva estensione erga omnes del “giudicato europeo” affermatosi nel caso Contrada – la “terza via” propugnata nell’ordinanza di rimessione in esame – si dovrebbe concretare, a ragione, niente meno che nella caducazione di tutte le condanne per concorso esterno in associazione mafiosa pronunciate per fatti commessi fino al 1994. Nel nostro ordinamento, dobbiamo tuttavia ricordare, l’obbligo di adeguamento da parte del giudice alle sentenze pur definitive della Corte di Strasburgo non può considerarsi privo di limiti: questo è, difatti, l’insegnamento della Corte costituzionale n. 49 del 2015.

In quella pronuncia, invero, la Consulta ha chiarito che, nelle ipotesi in cui la sentenza europea cui dare esecuzione non sia una “sentenza pilota” in senso stretto e non sia nemmeno considerabile espressione di una “giurisprudenza consolidata” della Corte europea, il giudice interno non è tenuto a estenderne acriticamente i principi nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente; al contrario, qualora non condividesse l’interpretazione fornita dal giudice europeo, egli avrebbe facoltà di discostarsene, facendosi a sua volta diretto interprete della Convenzione e proponendone una diversa applicazione rispetto al diritto interno, in un’ottica di dialogo con la Corte di Strasburgo stessa[28].

Applicando tale principio alla vicenda di cui ora ci stiamo occupando, ci paiono sussistere buone ragioni per includere la pronuncia Contrada c. Italia nella categoria della “giurisprudenza non consolidata”, e pertanto controvertibile nel merito, della Corte di Strasburgo. La fisionomia del principio di prevedibilità della legge penale nell’ambito della variegata giurisprudenza di Strasburgo appare, difatti, fortemente “incerta[29]; in particolare, come abbiamo già provato a evidenziare in altra sede[30], nella sentenza in esame la Corte europea pare aver abbandonato i tradizionali canoni di prevedibilità soggettiva che informavano la gran parte della sua giurisprudenza in tema di articolo 7 Cedu (e che per esempio ha utilizzato, poco tempo dopo la sentenza Contrada, nel caso X e Y c. Francia[31]), per servirsi di un più rigoroso criterio di prevedibilità oggettiva. Il che significa che i giudici europei, piuttosto che valutare l’effettiva prevedibilità della condanna penale da parte del singolo ricorrente, alla luce anche della sua condizione personale e delle sue particolari conoscenze (Contrada, infatti, era in prima persona impegnato nella lotta alla mafia siciliana presso la Squadra Mobile di Palermo), si sono concentrati sulla prevedibilità generale della fattispecie criminosa in questione, prendendo esclusivamente in considerazione lo stato della giurisprudenza italiana in materia, ma senza peraltro nemmeno entrare nel merito della stessa: unico profilo effettivamente dirimente ai fini della condanna è stato il riscontro, fino al 1994, di un contrasto giurisprudenziale.

Si tratta, a nostro giudizio, di un’applicazione atipica del principio di prevedibilità penale discendente dall’art. 7 Cedu, alla luce della complessa giurisprudenza della Corte europea in materia[32]; la scelta fatta dai giudici di Strasburgo di sostenere l’imprevedibilità di una condanna a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1994, del resto, ci sembra presentare numerose criticità. Tra le perplessità probabilmente più rilevanti vi è il fatto che il contrasto giurisprudenziale in questione, che certamente esisteva, riguardava esclusivamente l’alternatività tra un’imputazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa e una a titolo di art. 416-bis c.p. tout court: era certa, pertanto, la punibilità dei fatti di “rafforzamento” e “mantenimento” dell’associazione criminale, poiché ciò che cambiava era solo la necessità di fare o meno ricorso all’istituto di cui all’art. 110 c.p. (istituto, peraltro, già dagli anni Ottanta applicato in relazione a fattispecie associative, circostanza che tuttavia la Corte europea ha considerato non pertinente).

Oltre a ciò, ci sembra opportuno sottolineare che la mera esistenza di un contrasto giurisprudenziale non sembra minare di per sé la prevedibilità della decisione, ma piuttosto determinare una condizione di incertezza, caratterizzata da uno stato di dubbio circa l’esito dello scioglimento dell’alternativa interpretativa nel caso concreto; il quale, secondo i principi della pronuncia n. 364 del 1988 della Corte costituzionale – attraverso cui si ritiene che il principio di prevedibilità della condanna penale possa trovare ingresso nel nostro ordinamento – comunque non esclude la colpevolezza dell’agente[33]. Tanto più che il dubbio, nel caso di Bruno Contrada, poteva al più riguardare l’alternativa tra punibilità a titolo di partecipazione nell’associazione mafiosa e punibilità a titolo di concorso esterno: ciò che, sotto un profilo meramente giuridico, veramente era al di fuori delle alternative prevedibili, dunque, era solo la possibilità di un’assoluzione.

 

14. Quali, allora, le conseguenze di un simile ragionamento? Per tirare le fila del discorso, gli obblighi di cui all’art. 46 § 1 Cedu ci sembrano imporre ai giudici italiani, e alle Sezioni Unite innanzitutto, di considerare con attenzione i principi espressi dalla Corte europea nella sentenza Contrada, al fine di valutarne l’estensione anche nei confronti dei diversi soggetti condannati per il delitto di associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1994. Questo, tuttavia, non dovrebbe significare che essi siano vincolati ad accogliere automaticamente le istanze proposte dai “fratelli minori” del ricorrente a Strasburgo: avvalendosi del margine di apprezzamento loro accordato dalla sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, infatti, ben potrebbero i giudici interni argomentare, in un’ottica di dialogo con la Corte di Strasburgo, le ragioni per cui nel caso di specie il principio di prevedibilità non dovrebbe ritenersi violato, sulla base di un’applicazione differente da quella fornita dalla pronuncia Contrada.

Quest’ultimo passaggio, però, ci sembra che non rientri ora nella competenza delle Sezioni Unite: per essere più chiari, mentre tale organo di legittimità potrebbe (e a nostro parere dovrebbe) sicuramente esprimersi sulle questioni di cui ai punti a) e b) sopra esplicitati, quella di cui al punto c) dovrebbe più correttamente essere rimessa, a nostro giudizio, al giudice di merito; solo in questo modo, ci pare, si garantirebbe il rispetto del principio del contraddittorio, dovendosi concedere alle parti la possibilità di interloquire sullo specifico tema controverso, ossia l’applicazione del principio di prevedibilità della legge penale ai sensi dell’art. 7 Cedu nel caso di specie. Nel procedimento in esame, dunque, tale valutazione potrebbe pertanto essere affidata al giudice della revisione, in sede di rinvio, qualora le Sezioni Unite o la Corte costituzionale dovessero riconoscere l’applicabilità di tale strumento processuale.

 

15. Qualsiasi sarà la decisione delle Sezioni Unite, la scelta della Suprema Corte espressa con l’ordinanza di rimessione alimenta comunque in noi una speranza: quella che la più autorevole composizione della Suprema Corte possa completare l’opera ermeneutica intrapresa con la pronuncia Ercolano e finalmente definire, con tratti più precisi ed espliciti, quale debba essere nel nostro ordinamento lo statuto giuridico – e sostanzialmente il destino – dei “fratelli minori”, di Bruno Contrada come di chiunque altro.

 


[1] Cass. pen., sez. I, sentenza 6 luglio 2017 (dep. 20 settembre 2017), n. 43112, con riferimento alla quale si rimanda al commento di F. Viganò, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, in questa Rivista, 26 settembre 2017.

[2] Così è avvenuto, ad esempio, nei casi Dell’Utri e Gorgone, già oggetto di commento su questa Rivista, per i quali si può rinviare a S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2017, p. 257 ss., e S. Bernardi, Ancora sui "fratelli minori" di Bruno Contrada: un nuovo diniego della Cassazione, in questa Rivista, 11 dicembre 2017.

[3] Cfr. p. 13 dell’ordinanza in esame.

[4] Con riferimento alla quale si può rimandare al nostro breve commento S. Bernardi, La Grande Camera di Strasburgo sulle competenze della corte in materia di esecuzione delle sentenze europee da parte degli Stati: una scelta di self restraint?, in questa Rivista, 10 novembre 2017.

[5] Corte cost., sentenza 21 marzo 2018 (dep. 27 aprile 2018), n. 93, con cui la Corte costituzionale – nel rigettare per infondatezza una questione di legittimità volta a estendere la revocazione di cui agli artt. 395 e 396 c.p.c. anche ai casi in cui questa si rendesse necessaria a garantire il riesame nel merito della sentenza (civile) rispetto alla quale la Corte europea avesse riscontrato una violazione della Convenzione – ha affermato, richiamando la citata pronuncia Moreira Ferreira, che «la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte EDU di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione». In proposito può rimandarsi a C. Nardocci, Esecuzione delle sentenze CEDU e intangibilità del giudicato amministrativo e civile, in federalismi.it, n. 18/2018, p. 27 ss.

[6] Corte cost., sentenza 14 gennaio 2015 (dep. 26 marzo 2015), n. 49, in merito alla quale può rimandarsi agli approfondimenti già oggetto di pubblicazione sul n. 2/2015 della Rivista Trimestrale di Dir. pen. cont., e in particolare a: M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2015, p. 288 ss.; G. Martinico, Corti costituzionali (o supreme) e ‘disobbedienza funzionale, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2015, p. 303 ss.; D. Pulitanò, Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale. Questioni lasciate aperte da Corte cost. n. 49/2015, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2015, p. 318 ss.; A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu in ambito interno, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2015, p. 325 ss.; F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 2/2015, p. 333 ss.

[7] Così a p. 15 dell’ordinanza in commento. Si osserva che alla nozione di “diritto consolidato” nella giurisprudenza europea la Corte costituzionale ha fatto successivamente riferimento in diverse pronunce. In particolare: Corte cost., ordinanza 24 giugno 2015 (dep. 23 luglio 2015), n. 187; Corte cost., sentenza 13 gennaio 2016 (dep. 19 febbraio 2016), n. 36; Corte cost., sentenza 8 marzo 2016 (dep. 12 maggio 2016), n. 102; Corte cost., sentenza 31 maggio 2016 (dep. 21 luglio 2016), n. 200; Corte cost., sentenza 24 gennaio 2018 (dep. 2 marzo 2018), n. 43; Corte cost., sentenza 23 gennaio 2019 (dep. 29 marzo 2019), n. 66.

[8] C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 28 giugno 2018, G.I.E.M. e a. c. Italia, in merito alla quale si può rimandare a A. Galluccio, Confisca senza condanna, principio di colpevolezza, partecipazione dell'ente al processo: l'attesa sentenza della Corte Edu, Grande camera, in materia urbanistica, in questa Rivista, 3 luglio 2018. Sul punto si segnala, in particolare, l’opinione parzialmente concorrente e parzialmente dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque, allegata alla sentenze citata.

[9] Corte cost., sentenza 3 luglio 2013 (dep. 18 luglio 2013), n. 210. Anche di tale pronuncia abbiamo già ampiamente trattato: può rimandarsi in proposito a G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta; note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 4/2013, p. 261 ss., oltre che a E. Lamarque – F. Viganò, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, in questa Rivista, 31 marzo 2014 (oltre che in Giur. ita., n. 2/2014).

[10] Così E. Lamarque – F. Viganò, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, cit.

[11] Cass. pen., SS.UU., sentenza del 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821, in proposito della quale si rinvia a F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 1/2014, p. 250 ss.

[12] Quella di “sentenze pilota” è invero una nozione tecnica, la quale ha trovato un formale riconoscimento all’interno dell’art. 61 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (in vigore dal 31 marzo 2011); essa nasce da una prassi, invalsa nella giurisprudenza della Corte a partire dalla sentenza Broniowski c. Polonia del 22 giugno 2004 e legata al fatto che spesso sono presentati contemporaneamente alla Corte diversi ricorsi, proposti da soggetti differenti, aventi a oggetto una medesima situazione interna allo Stato convenuto ritenuta in contrasto con la Cedu. In simili casi, per l’appunto, la Corte ha la facoltà di decidere solo uno di questi ricorsi, sospendendo l’esame sugli altri, ma evidenziando in sede di condanna l’esistenza di un problema di carattere strutturale all’interno dell’ordinamento dello Stato membro e indicando, di conseguenza, le misure generali più idonee per risolverlo. Qualora lo Stato responsabile della violazione strutturale accertata si conformi alla sentenza pilota, adottando le misure generali necessarie, la Corte procederà alla cancellazione dal ruolo degli altri ricorsi riguardanti la medesima questione.

[13] Rispetto alla quale si può rimandare al commento di G. Biondi, La Cassazione e i fratelli minori di Lorefice, in questa Rivista, 21 marzo 2019.

[14] Su cui, volendo, S. Bernardi, La Suprema Corte torna sui limiti di operabilità dello strumento della “revisione europea”: esclusa l’estensibilità ai “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo, in questa Rivista, 26 settembre 2017, nella quale in effetti già segnalavamo il contrasto giurisprudenziale con la precedente sentenza emessa nel caso Dell’Utri.

[15] Cass. pen., Sez. I, sentenza 11 ottobre 2016 (dep. 18 ottobre 2016), n. 44193, Dell'Utri.

[16] Oltre al nostro commento, già citato nella nota n. 2, può rimandarsi a F.P. Lasalvia, Il giudice italiano e la (dis)applicazione del dictum Contrada: problemi in vista nel “dialogo tra le Corti”, in Arch. pen. (web), n. 3/2016; A. Logli, Riflessi processuali del caso Contrada, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2018, p. 239 ss.; P. Maggio, Dell’Utri e Contrada “gemelli diversi”: è la revisione europea lo strumento di ottemperanza alle sentenze Cedu?, in Cass. pen., n. 4/2017, p. 1399 ss.; N. Recchia, La Corte di cassazione alle prese con gli effetti nel nostro ordinamento della decisione Contrada della Corte EDU, in Giur. ita., n. 5/2017, p. 1205 ss.

[17] Cass. pen., Sez. I, sentenza 10 aprile 2017, n. 53610, Gorgone, sulla quale può rimandarsi a S. Bernardi, Ancora sui "fratelli minori" di Bruno Contrada: un nuovo diniego della Cassazione, in questa Rivista, 11 dicembre 2017.

[18] Cass. pen., Sez. I, sentenza 12 gennaio 2018, n. 8661, Esti, cui hanno fatto seguito: Cass. pen., Sez. I, sentenza 12 giugno 2018, n. 36505, Corso; Cass. pen., Sez. I, sentenza 12 giugno 2018, n. 36509, Marfia; Cass. pen., Sez. I, sentenza 4 dicembre 2018, dep. 2019, n. 37, Grassia; Cass. pen., Sez. I, sentenza 19 febbraio 2019, n. 15574, Papa; Cass. pen., Sez. I, sentenza 27 febbraio 2019, n. 13856, Genco; Cass. pen., Sez. V, sentenza 3 ottobre 2018, n. 55894, P. (quest’ultima in tema di misure di prevenzione).

[19] Cfr. p. 39 dell’ordinanza in esame.

[20] Cfr. p. 41 dell’ordinanza in esame.

[21] Cfr. p. 42 dell’ordinanza in esame.

[22] Cfr. p. 45 dell’ordinanza in esame.

[23] Si conceda il rinvio a S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, cit., p. 268 ss.

[24] Corte cost., sentenza 3 luglio 2013 (dep. 18 luglio 2013), n. 210, § 7.3. Il medesimo passaggio è stato poi più recentemente ripreso da Corte cost., sentenza 7 marzo 2017 (dep. 26 maggio 2017), n. 123, §§ 7-8 – anch’essa, come la citata sentenza n. 93/2018, in tema di revocazione civile – proprio per argomentare la necessità di differenziare la posizione del ricorrente da quella di chi non si fosse avvalso del procedimento europeo.

[25] Come afferma la Consulta nella sentenza n. 210 del 2013, anzi, il valore del giudicato «non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole».

[26] Per i “fratelli minori” di Contrada dovrebbe difatti essere radicalmente preclusa la possibilità di lamentare direttamente una violazione dell’art. 7 Cedu, qualora decorsi il termine per presentare il ricorso previsto dall’art. 35 Cedu (pari a sei mesi dal momento in cui la condanna è divenuta definitiva).

[27] Il testo del documento è disponibile sul sito www.coe.int; in proposito cfr. anche pp. 10-11 dell’ordinanza in commento.

[28] Nel coniare tale principio, in verità, la Consulta faceva riferimento alla specifica questione dell’identificazione del parametro interposto nelle questioni di legittimità costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost., ma esso è comunemente inteso come riferibile a tutte le ipotesi in cui il giudice comune nazionale si trovi ad applicare le norme della Convenzione medesima così come interpretate dalla Corte di Strasburgo; appare pertanto ragionevole ritenere che esso debba essere applicato non solo qualora il giudice interno sia chiamato a conformarsi a una sentenza della Corte europea nei processi in corso o sopravvenuti rispetto alla pronuncia stessa, ma, a maggior ragione, anche nei casi che risultino già coperti da giudicato.

[29] Sul tema, ampiamente, il contributo di S. De Blasis, Oggettivo, soggettivo ed evolutivo nella prevedibilità dell’esito giudiziario tra giurisprudenza sovranazionale e ricadute interne, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 4/2017, p. 128 ss.

[30] In proposito, se si vuole, S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, cit., p. 273 ss.

[31] Corte eur. dir. uomo, sentenza del 1 settembre 2016, X e Y c. Francia, ric. n. 48158/11, § 57, in proposito della quale si può rimandare a S. Bernardi, I "fratelli minori" di Bruno Contrada davanti alla Corte di cassazione, cit., p. 275, in particolare nota n. 80.

[32] Per ulteriori approfondimenti ci si consenta di rimandare al nostro precedente contributo appena citato, p. 273 ss.

[33] In proposito si può rimandare al chiarissimo contributo di D. Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in questa Rivista, 13 luglio 2015.