24 gennaio 2017 |
Continuano i "tormenti" dei giudici italiani sul caso Contrada: la Corte d’Appello di Palermo dichiara inammissibile l’incidente d’esecuzione proposto in attuazione del "giudicato europeo"
Nota a C. Appello Palermo, Sez. I, ord. 11 ottobre 2016 (dep. 24 ottobre 2016), n. 466, Pres. Garofalo, Ric. Contrada.
Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2017
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1. Con l’ordinanza qui segnalata, la Corte d’appello di Palermo aggiunge un’ulteriore pagina alla tormentosa vicenda giudiziale riguardante Bruno Contrada, dichiarando inammissibile la richiesta di revoca ex art. 673 c.p.p. avente a oggetto la sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa pronunciata a suo carico, divenuta definitiva nel 2007 e ormai da lui interamente scontata.
Dopo la decisione con cui la Corte d’appello di Caltanissetta il 18 novembre 2015 ha respinto l’istanza di revisione presentata dalla difesa di Contrada (già ampiamente commentata in questa Rivista[1]) e la più recente sentenza del 6 luglio 2016 con cui la Corte di cassazione ha altresì dichiarato inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto da lui proposto ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p.[2], la pronuncia in esame nega ora che l’incidente esecutivo possa essere la sede idonea a rimediare alla violazione dell’art. 7 CEDU commessa dal nostro ordinamento ai danni del richiedente e accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ormai celebre sentenza del 14 aprile 2015.
2. Il caso è certamente ben noto ai nostri lettori. La Corte di Strasburgo, nella richiamata pronuncia Contrada c. Italia, ha rinvenuto un contrasto tra la condanna inflitta a Bruno Contrada e il principio di legalità convenzionale, affermando che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non fosse sufficientemente chiaro e prevedibile al tempo cui risalivano le condotte ascritte al ricorrente (il quale, tra il 1979 e il 1988, aveva in più occasioni — in qualità prima di ufficiale di polizia e poi di agente dei servizi segreti civili — fornito informazioni riservate in ordine alle indagini in corso a esponenti di vertice dell’associazione mafiosa “Cosa Nostra” e altresì interferito con alcune importanti operazioni svolte dai nuclei investigativi antimafia) in ragione dell’esistenza in materia di gravi contrasti giurisprudenziali, risolti solamente con l’intervento delle Sezioni Unite Demitry del 1994.
Di conseguenza, lo Stato italiano si è trovato di fronte al problema di come adempiere all’obbligo, chiaramente sancito dall’art. 46 CEDU, di eseguire la sentenza pronunciata dai giudici europei nei confronti del ricorrente vittorioso, il quale non ha esitato a interpellare nuovamente i giudici interni attraverso tutti gli strumenti processuali messigli a disposizione dall’ordinamento. Dopo che tanto la via della revisione “europea”, quanto la strada del ricorso straordinario per cassazione si sono rivelate infruttuose, la difesa di Contrada ha adito il giudice dell’esecuzione, chiedendogli di revocare ai sensi dell’art. 673 c.p.p. la condanna emessa in violazione dei principi di legalità e irretroattività della legge penale.
Secondo la difesa del ricorrente, benché egli abbia terminato di scontare la propria pena nel 2012, il suo interesse alla rimozione della condanna illegittima persisterebbe in riferimento a una serie di effetti accessori pregiudizievoli che continuano a prodursi, a suo danno, anche una volta cessata l’esecuzione della pena: in particolare, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, l’iscrizione nel casellario giudiziale, la possibilità che in un successivo procedimento penale venga contestata la recidiva e l’impossibilità di avvalersi in futuro del beneficio di cui all’art. 163 c.p.[3]
3. La Corte d’appello palermitana considera tuttavia inammissibile l’istanza di revoca, reputando lo strumento disciplinato dall’art. 673 c.p.p. inapplicabile al caso sottoposto alla sua attenzione.
4. La Corte sottolinea anzitutto come la disposizione in esame, risulti espressamente applicabile ai soli casi di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, ai quali peraltro la Suprema Corte ha impedito di assimilare il sopravvenuto mutamento di interpretazione giurisprudenziale, che, in assenza di interventi del legislatore, non può in nessun caso produrre alcun effetto abrogativo (cfr. Cass., SS.UU., sent. 29 ottobre 2015, dep. 23 giugno 2016, n. 26259). Inoltre, benché sia vero — come affermato dalla difesa dell’istante — che lo strumento della revoca ex art. 673 c.p.p. è stato considerato utilizzabile anche nei casi in cui l’inapplicabilità della norma nazionale sia sopravvenuta per effetto di una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ne accerti l’incompatibilità con il diritto comunitario, tale argomento non può essere addotto a sostegno di un impiego del medesimo rimedio processuale da parte di Contrada, dal momento che nel caso di specie si sarebbe in presenza di “una interpretazione comunitaria [sic] di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”.
A giudizio della Corte d’appello sarebbe infatti errato rintracciare nella vicenda in esame una violazione del principio di irretroattività della legge penale, poiché il concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un “reato di origine giurisprudenziale”, a differenza di quanto affermato dalla Corte di Strasburgo (la quale, accogliendo nel proprio regolamento il principio dispositivo, non aveva operato un’attenta ricostruzione del quadro normativo italiano, ma si era limitata ad accertare che tale fatto apparentemente non fosse “oggetto di contestazione” tra le parti). A sostegno di tale affermazione, i giudici palermitani citano una recente sentenza con cui la Corte di cassazione stessa ha considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis c.p., sollevata con riferimento agli artt. 25 comma 2 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU[4], oltre che la sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 2015, in cui si legge chiaramente che tale fattispecie criminosa scaturisce “dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 110 c.p.”[5].
Del resto, il contrasto giurisprudenziale che ha storicamente interessato il concorso esterno in associazione mafiosa riguardava unicamente il problema della mera compatibilità dell’art. 110 c.p. con la specifica fattispecie incriminatrice in questione (problema effettivamente risolto, in senso positivo, dalle Sezioni Unite Demitry nel 1994), senza perciò che fosse mai messa in dubbio la “matrice esclusivamente ed inequivocabilmente normativa dell’incriminazione”.
L’inammissibilità di un ricorso all’art. 673 c.p.p., peraltro, secondo la Corte palermitana non apre nessun vuoto normativo dal punto di vista procedurale nei confronti del ricorrente: posto che — non essendo il giudice italiano un “mero esecutore dei dispostivi della Corte EDU”, ma rispondendo egli soltanto alla legge — l’unico rimedio possibile per riesaminare il merito delle accuse mosse all’interessato, di cui si contesta la compatibilità con la Convenzione europea, rimane il giudizio di revisione, peraltro nel caso di specie già infruttuosamente promosso dal ricorrente.
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5. Rimandando ad altra sede alcune più approfondite osservazioni sul merito della vicenda relativa a Bruno Contrada e sui potenziali effetti che la pronuncia di Strasburgo può ragionevolmente produrre nell’ordinamento italiano, ci si limita qui a osservare come l’ordinanza in commento rappresenti un ulteriore esempio della ritrosia dei giudici interni a garantire una puntuale esecuzione della sentenza Contrada. E ciò sebbene non possano sussistere dubbi in ordine all’obbligo per l’ordinamento italiano di rimuovere la condanna pronunciata nei confronti del ricorrente vittorioso, emessa per un titolo di reato che la Corte europea ha espressamente qualificato come imprevedibile per l’interessato e, conseguentemente, ritenuta illegittima dalla stessa Corte europea.
A nulla può valere, pertanto, rilevare — come impropriamente fa la Corte d’appello di Palermo — che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ha una matrice normativa e non giurisprudenziale, atteso che la valutazione di imprevedibilità espressa dai giudici di Strasburgo deve essere considerata per il nostro ordinamento pienamente vincolante e non più sindacabile, quantomeno con riferimento al medesimo soggetto vincitore nel ricorso avanti la Corte europea.
Maggiore attenzione richiede invece l’argomento usato dai giudici palermitani secondo cui la sede idonea a garantire un’attuazione del “giudicato europeo” nei confronti del ricorrente dovrebbe essere il giudizio di revisione e non l’incidente esecutivo. Mentre buona parte della dottrina attualmente ritiene che solo un’immediata e incondizionata revoca della condanna in sede esecutiva possa adeguatamente soddisfare l’interesse di Bruno Contrada a ottenere la cessazione della violazione dell’art. 7 CEDU ancora perdurante a suo danno[6], la tesi contraria, che attribuisce rilievo preferenziale allo strumento della revisione c.d. “europea”, è stata recentemente affermata dalla Corte di cassazione nella parallela vicenda attinente Marcello Dell’Utri, che di Contrada può considerarsi “fratello minore”, essendo stato a sua volta condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1994[7].
Il problema, nel caso di specie, è — e i giudici di Palermo ne sono ben consapevoli — che la strada del giudizio di revisione è già stata tentata da Bruno Contrada, con esito allo stato negativo.
Se dunque la Suprema Corte dovesse ora confermare la pronuncia del giudice dell’esecuzione, Bruno Contrada rischierebbe di trovarsi definitivamente sprovvisto di strumenti di tutela mediante i quali richiedere l’esecuzione della sentenza che pur lo vede vittorioso a Strasburgo. Il che potrebbe esporre lo Stato italiano al rischio di incorrere in un’ulteriore condanna da parte della Corte europea per violazione — questa volta — dell’art. 46 CEDU, qualora lo stesso Contrada decidesse di impugnare davanti alla Corte EDU le ormai varie pronunce con cui i giudici interni hanno — per ragioni diverse — rifiutato di conformarsi alla sentenza emessa in suo favore[8].
[1] Si vedano i commenti di F. Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte Edu, in questa Rivista, 26 aprile 2016 e G. Marino, Nuove incongruenze giurisprudenziali sul concorso esterno in associazione mafiosa: gli effetti della sentenza Contrada della Corte EDU, in questa Rivista, 6 maggio 2016.
[2] Cass. pen., Sez. II, sent. 6 luglio 2016 (dep. 17 ottobre 2016), n. 43886, Contrada.
[3] Nello stesso senso si erano espressi in questa Rivista F. Giuffrida - G. Grasso, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 25 maggio 2015, p. 44; cfr. anche F. Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani, cit., p. 7.
[4] Si tratta di Cass. pen., Sez. II, 21-30 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, Perego, commentata in questa Rivista da A. Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, in questa Rivista, 2 ottobre 2015.
[5] Corte cost., sent. 25 febbraio 2015 (dep. 26 marzo 2015), n. 48, § 7 (diritto).
[6] Così ad esempio: F. Giuffrida - G. Grasso, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, cit., p. 42; F. Palazzo, La sentenza «Contrada» e i cortocircuiti della legalità, in Dir. pen. proc., 2015, p. 1066; V. Maiello, Consulta e Corte Edu riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in Dir. pen. proc., n. 8/2015, p. 1026; F. Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani, cit., p. 6.
[7] Cass. pen., Sez. I, sent. 11 ottobre 2016 (dep. 18 ottobre 2016), n. 44193, Pres. Mazzei, Rel. Magi, Ric. Dell’Utri.
[8] Un ricorso di questo genere, infatti, è attualmente in discussione davanti alla Grande Camera di Strasburgo, conseguentemente al rigetto, da parte della Corte Suprema portoghese, dell’istanza di revisione presentata dalla sign.a Moreira Ferreira, la quale aveva chiesto la revoca della pronuncia di condanna a suo carico, riconosciuta in contrasto con l’art. 6 CEDU: cfr. Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2), ric. n. 19867/12, Grand Chamber hearing, 1 giugno 2016, disponibile su www.echr.coe.int.