ISSN 2039-1676


09 gennaio 2017 |

Si conclude definitivamente il processo ThyssenKrupp

Annotazione a Cass., Sez. IV, sent. 13 maggio 2016 (dep. 12 dicembre 2016), n. 52511, Pres. Izzo, Est. Bellini, Imp. Espenhahn

Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2017

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1. Con la sentenza in allegato la Suprema Corte di Cassazione chiude definitivamente il procedimento relativo all’incendio scoppiato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nell’acciaieria torinese di proprietà della multinazionale tedesca ThyssenKrupp, nel quale avevano trovato una morte orribile sette operai addetti alla linea di ricottura e decapaggio e del quale erano stati chiamati a rispondere in sede penale l’amministratore delegato e cinque dirigenti della società proprietaria dello stabilimento.

Gli atti del procedimento, dopo la pronuncia di una sentenza di annullamento parziale da parte delle Sezioni unite (già ampiamente commentata su questa Rivista[1] e altrove[2]), erano stati tramessi a diversa sezione della Corte d’Assise d’Appello di Torino, investita, questa volta, del delicato compito di rideterminare la pena nei confronti degli imputati conformemente alle deliberazioni dei giudici di legittimità; tuttavia, a seguito di nuova impugnazione da parte delle difese degli imputati, il fascicolo approdava ancora presso le cancellerie della Corte di Cassazione.

Per consentire al lettore di seguire il percorso argomentativo della Suprema Corte, ci sembra opportuno ripercorrere brevemente le fasi essenziali della complicata vicenda processuale in esame.

 

2. In data 15 aprile 2011, la seconda sezione della Corte di Assise di Torino condannava l’amministratore delegato della società ThyssenKrupp Terni S.p.A. per i delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.) e incendio doloso (art. 423 c.p.) – commessi con dolo eventuale – rimproverando a quest’ultimo di aver preso la decisione di posticipare i necessari investimenti antincendio, omettendo «una adeguata e completa valutazione del rischio incendio», «una effettiva organizzazione dei percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori» e l’installazione di un «sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi», e così cagionando la morte dei sette lavoratori attinti dalle fiamme[3].

I giudici di primo grado, inoltre, riconoscevano la responsabilità di cinque altri dirigenti della società per i meno gravi delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e incendio colposo (artt. 423, 449 c.p.) – entrambi aggravati dalla previsione dell’evento (art. 61 n. 3 c.p.) – per avere omesso, nell’esercizio delle rispettive funzioni, di sottolineare l’esigenza di adottare le necessarie misure di prevenzione degli incendi presso lo stabilimento de quo.

Veniva, infine, riconosciuta la responsabilità di tutti e sei gli imputati anche per il delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla verificazione dell’evento di disastro e infortuni (art. 437 comma 2 c.p.), per aver omesso, «nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze [...] di adottare un sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi» nella linea di ricottura e decapaggio nella quale era scoppiato l’incendio.

Riconosciuta la sussistenza del vincolo della continuazione tra i vari reati (art. 81 co. 2 c.p.), all’amministratore delegato veniva inflitta la pena di 16 anni e sei mesi di reclusione, mentre a cinque altri dirigenti venivano irrogate pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione.

Successivamente, in data 28 febbraio 2013, parzialmente persuasi dagli argomenti delle difese degli imputati, i giudici della prima sezione della Corte di Assise di Appello di Torino riqualificavano i fatti contestati all’A.D. nei delitti di omicidio colposo e incendio colposo, entrambi aggravati dalla previsione dell’evento, ritenendo assorbito, per tutti gli imputati, il delitto di incendio colposo nel delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla verificazione dell’evento di disastro e infortuni (art. 437 comma 2 c.p.), per l’operare del «principio di specialità»[4].

Le pene inflitte per i due delitti ­­– secondo i giudici d’appello, in concorso formale tra loro (art. 81 co. 1 c.p.) – venivano così rideterminate in dieci anni di reclusione per l’A.D. e in un range compreso tra i sette e i nove anni di reclusione per gli altri imputati.

 

3. In data 24 aprile 2014, infine, la sentenza d’appello veniva a sua volta parzialmente annullata dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite, con sentenza dalla motivazione assai articolata e discussa.

In particolare, per quanto qui interessa, pur condividendo nella sostanza le conclusioni della sentenza d’appello con riferimento alla qualificazione dei fatti contestati all’amministratore delegato come omicidio e incendio colposi, i giudici di legittimità negavano innanzitutto che potesse dirsi integrata l’ipotesi aggravata del delitto di omissione dolosa contro infortuni sul lavoro. Secondo le Sezioni Unite, infatti, non poteva dirsi provato che l’adozione della singola misura cautelare posta a fondamento dell’imputazione ex art. 437 c.p. – ossia, la realizzazione di un impianto antincendio automatico nella linea di ricottura e decapaggio avrebbe evitato il verificarsi dell’incendio realizzatosi nella tragica notte del 5 dicembre 2007. Secondo le Sezioni Unite, infatti, «ove pure a Torino si fosse proceduto con [...] celerità [...] l’impianto non sarebbe stato certamente ultimato nel dicembre 2007», ma, al più presto, «a metà del 2009, cioè oltre un anno dopo i drammatici eventi» oggetto del procedimento.

Da tale conclusione, ad opinione della Suprema Corte, derivava in primo luogo la riacquisizione di autonomia del delitto di incendio colposo di cui agli artt. 423, 449 c.p. in luogo del suo «assorbimento del reato di incendio nella originaria fattispecie aggravata» di cui al secondo comma dell’art. 437 c.p.

In secondo luogo, a differenza di quando ritenuto dai giudici d’appello, il delitto di omissione dolosa di cautele non doveva più considerarsi in rapporto di concorso formale con quello di omicidio colposo (art. 589 c.p.), posto che «mentre il reato di cui all’art. 437 è caratterizzato dalla dolosa omissione di una specifica cautela doverosa, quello di omicidio colposo [...] discende da una fitta serie di condotte colpose», nonché «a maggior ragione» proprio «per l’effetto dell’esclusione dell’aggravante di cui al già richiamato capoverso dell’art. 437» c.p.

Dovevano invece considerarsi, «certamente tra loro in concorso formale», poiché «espressione dei medesimi fatti» i reati di incendio colposo e omicidio colposo.

S’imponeva, dunque, la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’Assise di Appello di Torino per la rideterminazione della pena in ordine a ciascuno dei tre reati – omicidio colposo plurimo, omissione dolosa di cautele (esclusa l’aggravante di cui al secondo comma) e incendio colposo – dei quali gli imputati erano ormai dichiarati definitivamente responsabili.

 

4. Chiamati ad occuparsi del procedimento, i giudici del rinvio confermavano, innanzitutto, le pene originariamente inflitte dalla prima sezione della Corte d’Assise di Appello di Torino con riferimento al delitto di omicidio colposo (plurimo), assumendo che la stessa non fosse stata oggetto di intervento censorio da parte della Corte di Cassazione e, in subordine, ritenendola comunque condivisibile; infine, operati gli aumenti e le addizioni rispettivamente dovuti in ragione del concorso formale con il reato di incendio colposo e del concorso materiale con quello di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, condannavano gli imputati a pene comprese tra nove anni e otto mesi e sei anni e otto mesi di reclusione.

La sentenza pronunciata dal giudice del rinvio veniva, però, nuovamente impugnata dagli imputati che lamentavano, tra l’altro, la mancata riduzione della pena inflitta per il delitto di omicidio colposo.

In particolare, ad avviso delle difese, l’esclusione dell’aggravante della verificazione del disastro prevista dall’art. 437 co. 2 c.p., in ragione dell’irrilevanza, sul piano causale, dell’omessa predisposizione di un sistema automatico di rivelazione e spegnimento incendi ai fini dell’impedimento dell’evento, avrebbe dovuto necessariamente comportare anche una correlativa diminuzione di pena inflitta per il delitto di omicidio colposo.

Infatti, la conclusione delle Sezioni Unite, secondo le quali una delle numerose negligenze di cui gli imputati si erano resi responsabili – l’omessa installazione di un impianto antincendio automatico – non aveva assunto alcuna rilevanza sul piano causale ai sensi dell’art. 437 co. 2 c.p., avrebbe in buona sostanza “eliso” un addebito di colpa che, assieme ad altri, era stato posto alla base della valutazione relativa al «gravità del reato» (art. 133 c.p.) nella commisurazione della pena per il delitto di omicidio colposo in grado d’appello.

Posto, insomma, che la pena inflitta dai giudici di appello era stata originariamente parametrata tenendo conto anche di un profilo di negligenza successivamente ritenuto irrilevante dalla Corte di Cassazione già sul piano della causalità materiale, sarebbe sorta la logica necessità di una corrispettiva diminuzione di pena anche per il delitto di cui all’art. 589 c.p.

 

5. Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione rigetta tutte le doglianze degli imputati, in particolare soffermandosi sul rapporto tra dosimetria sanzionatoria per il delitto di omicidio colposo ed esclusione, da parte delle Sezioni Unite, della rilevanza causale dell’omessa predisposizione di un impianto automatico antincendio con riferimento alla verificazione del tragico incendio nella linea di ricottura e decapaggio.

Nel rigettare le tesi difensive, la Suprema Corte sottolinea innanzitutto le differenze strutturali tra il delitto di omissione dolosa di cautele (art. 437 c.p.) e omicidio colposo, negando la sussistenza di qualunque «rapporto interferenziale» tra la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 437 c.p. e «il diverso delitto di cui all’art. 589 c.p.», sottolineando come nella sentenza delle Sezioni Unite fosse stato escluso soltanto il nesso «tra la condotta ipotizzata come doverosa [la realizzazione di un impianto antincendio automatico nella linea di ricottura e decapaggio: n.d.a.] con l’evento aggravante di cui all’art. 437 secondo comma c.p.» e non tra questa e l’evento rilevante ai sensi dell’art. 589 c.p., che costituirebbe invece un «esito eziologico del tutto estraneo», il cui «evento naturalistico» rimarrebbe «comunque legato ad una serie di inosservanze in ordine alla predisposizione di misure precauzionali anche preventive (tra cui una dolosa omissione di cautela obbligatoria)».

Infine – aggiunge ad abundantiam il giudice di legittimità – anche «qualora una delle condotte ascritte come causalmente efficienti rispetto all’evento di cui all’art. 589 c.p. fosse risultata esclusa [...], residuerebbero una serie di violazioni di regole cautelari nel settore antinfortunistico [...] tali da escludere qualsiasi rilievo [...] di minore gravità del fatto reato ascritto».

In conclusione, insomma, l’accertamento riguardo «alla assenza di relazione eziologica tra la dolosa omissione della cautela e l’evento disastroso [...] non influisce in alcuna maniera [...] sul trattamento sanzionatorio che deve essere determinato» per il delitto di cui all’art. 589 c.p. «a seguito dell’annullamento parziale».

 

6. Sia consentito, a questo punto, abbozzare alcune succinte osservazioni sulla sentenza in epigrafe.

Per cominciare, è pur vero che nella sentenza delle Sezioni Unite si esclude espressamente soltanto la sussistenza del nesso eziologico tra omessa predisposizione di un impianto antincendio e gli eventi di infortuni o di disastro di cui all’art. 437 co. 2 c.p.; ma è del tutto evidente che tale esclusione non può non valere anche rispetto all’evento ‘morte di più persone’ di cui all’art. 589 co. 3 c.p.

Ove così non fosse, bisognerebbe ritenere che l’attivazione tempestiva dell’impianto antincendio non avrebbe potuto impedire il verificarsi dell’incendio, ma, al tempo stesso, avrebbe potuto evitare il realizzarsi delle morti cagionate... proprio dal verificarsi dell’incendio. Una conclusione, quest’ultima, che, prima che alla logica giuridica, si pone di traverso alla logica aristotelica: è evidente, infatti, che una condotta che non sarebbe valsa a evitare la verificazione di un evento A (l’incendio) essenziale nella catena causale che porta alla verificazione di un evento B (le morti degli operai), non può considerarsi causale nemmeno rispetto all'evento B.

D’altra parte, solo in questa prospettiva si spiega perché le Sezioni Unite abbiano escluso il concorso formale tra omissione dolosa di cautele e omicidio colposo, optando così implicitamente per un mero concorso materiale tra le due violazioni. Se, infatti, le Sezioni Unite avessero realmente considerato la mancata predisposizione dell’impianto antincendio causale rispetto all’evento di cui all’art. 589 c.p., avrebbero dovuto riconoscere un concorso formale (e non già materiale) tra questo reato e quello di omissione di cautele, perché la medesima condotta – la mancata installazione dell’impianto antincendio – sarebbe stata tipica sia ai sensi dell’art. 589 c.p., sia ai sensi dell’art. 437 co. 1 c.p.

Chiarissima, sul punto, la divergenza di opinioni tra le Sezioni Unite e i primi giudici d’appello, che, proprio avendo ritenuto causalmente rilevante rispetto agli eventi di cui all’art. 589 c.p. anche la condotta costituita dalla mancata predisposizione dell’impianto antincendio, avevano riconosciuto il concorso formale tra il delitto di omicidio colposo e quello di cui all’art. 437 c.p., e avevano commisurato la pena da infliggersi agli imputati precisando come «nell’imputazione di omicidio colposo» fosse «stata ricompresa anche la condotta di mancata adozione di misure di protezione, genus in cui si può ricomprendere anche la mancata installazione dell’impianto antincendio».

 

7. Se, dunque, la relazione causale tra omessa predisposizione dell’impianto e verificazione degli eventi mortali è stata almeno implicitamente esclusa dalle Sezioni Unite, sembra quanto meno discutibile la decisione dei giudici del rinvio – avallata ora, come si è detto, dalla Cassazione – di non diminuire la pena inflitta agli imputati per il delitto di omicidio colposo plurimo, pur a fronte dell’eliminazione – ad opera delle Sezioni Unite – di uno degli addebiti (forse il più importante, e comunque quello attorno al quale era stata costruita l’ipotesi d’accusa) su cui si fondava l’imputazione di omicidio doloso plurimo, poi derubricata nella corrispondente figura colposa.

E’ evidente, infatti, che una condotta ritenuta irrilevante, sul piano causale, ai fini dell’impedimento della verificazione di un determinato evento, non può integrare un addebito di colpa, né, conseguentemente, essere presa in considerazione sul piano della commisurazione della pena inflitta per il corrispondente delitto colposo d'evento.

Contrariamente a quanto sostiene la Suprema Corte nella sentenza in commento, ci sembra d’altra parte pacifico che nella commisurazione della pena nell’ambito del delitto colposo si debba tenere conto anche del numero delle violazioni cautelari riscontrate: sembrerebbe, infatti, contrario al buon senso condannare alla stessa pena chi – poniamo – abbia cagionato la morte di un soggetto perché guidava a velocità superiore a quella consentita, e chi abbia provocato un incidente mortale non solo superando i limiti di velocità, ma essendo altresì ubriaco e procedendo in senso contrario a quello consentito. In un caso siffatto, qualora emergesse all’esito del giudizio di legittimità che l’incidente mortale sia stato causato dal solo superamento dei limiti di velocità, dovendosi invece escludere ogni ulteriore addebito di colpa, sarebbe del tutto ragionevole aspettarsi una rideterminazione verso il basso della pena, originariamente inflitta anche sulla base del fatto che l’improvvido autista si era posto alla guida ubriaco e in senso contrario a quello consentito.

Non si può non rilevare allora come, nel caso qui in esame, la conferma della pena inflitta dal giudice d’appello da parte del giudice del rinvio si sia posta in tensione con il divieto di reformatio in peius. Infatti, è chiaro che, analogamente al caso in cui venga confermata la pena a seguito dell’eliminazione di un’aggravante o di un reato concorrente (ove, come già limpidamente aveva osservato Cordero, «risulterebbe accresciuta la pena-base o l'applicata al reato superstite», essendo «aritmeticamente impossibile n = (n + p), dove p sia un numero diverso dallo 0»[5]), infliggere la medesima pena a fronte dell’elisione di un determinato addebito di colpa equivale in sostanza ad aumentare la pena inflitta per i rimanenti addebiti di negligenza.

E ciò in contrasto con l’esplicita indicazione delle Sezioni Unite, che pure avevano limpidamente disposto: «le sanzioni già inflitte non potranno essere aumentate».

 

[1] Cfr. A. Aimi, Il dolo eventuale alla luce del caso ThyssenKrupp, in questa Rivista, 6 novembre 2014, nonché in AA.VV., Il libro dell'anno del diritto 2015, Roma 2015, 127 ss.; A. Cappellini, Il dolo eventuale e i suoi indicatori: le Sezioni Unite Thyssen e il loro impatto sulla giurisprudenza successiva, in questa Rivista, 4 giugno 2015; S. Raffaele, La rappresentazione dell'evento al confine tra dolo e colpa: un'indagine su rischio, ragionevole speranza e indicatori "sintomatici", in Dir. Pen. Cont. – Riv. Trim., 2015, 4, 402 ss.

[2] Cfr., senza nessuna pretesa di completezza, R. Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso "Thyssenkrupp", in Giur. it, 2014, 11, pp. 2566 ss.; G. De Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, in Cass. pen., 2015, 12, 4624 ss.; G. De Santis, Il dolo eventuale come adesione volontaria alla lesione del bene: le SS.UU. "Thyssen" e il commiato dalla formula dell'accettazione del rischio, in Resp. civ. prev., 2015, 2, 640 ss.; F. De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1, 77 ss.; G. Di Biase, Il nuovo volto del dolo eventuale, tra criterio del bilanciamento e prima formula di Frank. Genesi della pronuncia a Sezioni Unite sul caso Thyssen Krupp e suo recepimento da parte della giurisprudenza successiva, in Ind. pen., 2015, 3, 388 ss.; L. Eusebi, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass. S.U., 24 aprile 2014 (ThyssenKrupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 2, 623 ss.; L. Facchini, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Studium iuris, 2014, 12, 1457 ss.; G. Fiandaca, Le Sezioni unite tentano di diradare il "mistero" del dolo eventuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 4, 1938 ss.; F.V. Rinaldi, Le Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp: la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente tra teoria e prassi, in Giust. pen., 2016, 1, II, 21 ss.; M. Romano, Dolo eventuale e Corte di cassazione a sezioni unite: per una rivisitazione della c.d. accettazione del rischio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 2, 559 ss.; M. Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 4, 1953 ss.; G. Stea, "Tertium genus" tra dolo e colpa in uno sguardo comparativo e nelle soluzioni delle Sezioni Unite, in Riv. pen., 2015, 3, 209 ss.; K. Summerer, La pronuncia delle Sezioni unite sul caso Thyssen Krupp. Profili di tipicità e colpevolezza al confine tra dolo e colpa, in Cass. pen., 2015, 2, 490 ss.

[3] Così, C. Ass. Torino, Sez. II, 11 novembre 2011, Espenhahn, in questa Rivista, 18 novembre 2011 con annotazione di S. Zirulia, ThyssenKrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d’Assise.

[4] Così, C. Ass. App. Torino, 23 maggio 2013, n. 6, Espenhahn, in Dir. pen. cont., 3 giugno 2013 con annotazione di S. Zirulia, ThyssenKrupp: confermate in appello le condanne, ma il dolo eventuale non regge.

[5] Così, appunto, F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, 1132. Contra, sulla questione della reformatio in peius in caso di annullamento di una circostanza aggravante, con motivazione clamorosamente contra legem, Cass., Sez. un., 18 aprile 2013, n. 33742, Papola, in questa Rivista, 21 ottobre 2013, con nota di G. Romeo, Le Sezioni Unite sul divieto di reformatio in peius.