ISSN 2039-1676


09 aprile 2018 |

La riforma penitenziaria: il lungo e tormentato cammino verso la Costituzione

Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2018

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento del Prof. Glauco Giostra, Presidente della Commissione di studio per la riforma dell'ordinamento penitenziario, nominata dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando.

 

1. Ragioni, ostacoli e ritardi di una riforma. – Mentre scriviamo, la riforma penitenziaria o, per meglio dire, quella parte di riforma rispetto alla quale il governo ha sinora ritenuto di esercitare la Delega non è ancora giunta al suo capolinea legislativo. Dopo un lungo e travagliato percorso, ha superato la penultima stazione – il governo ha cioè inviato alle Camere lo schema di decreto legislativo per il secondo e ultimo parere – ma sino ad oggi non è arrivata a destinazione: a causa dei complessi adempimenti dovuti alla delicata congiuntura istituzionale dell’insediamento del nuovo Parlamento, il potere esecutivo non è ancora formalmente abilitato a licenziarla, non avendo ricevuto il prescritto, sebbene non vincolante, parere parlamentare, e non essendo passati i dieci giorni decorsi i quali è autorizzato a prescinderne.

Non più breve, né meno accidentato cammino aveva avuto la legge (l. 23 giugno 2017, n.103) che, tra l’altro, delegava al Governo la riforma del sistema dell’esecuzione penale: da un lato, il suo carattere estremamente composito (il provvedimento legislativo si occupava anche, ad esempio, di temi politicamente “caldi” come la prescrizione e le intercettazioni); dall’altra, importanti appuntamenti politico-istituzionali (basti ricordare il referendum costituzionale del dicembre 2016), ne hanno rallentato sensibilmente l’incedere, sospingendo la sua approvazione a ridosso della conclusione della legislatura e conseguentemente l’esercizio della delega a cavaliere tra vecchio e nuovo parlamento, con le intuibili fibrillazioni politiche che ancora ne rendono incerto l’epilogo.

Ma gli accidenti e gli incidenti incontrati lungo il percorso non bastano da soli a spiegare perché nella tormentata gestazione parlamentare sia stato per più aspetti frenato lo slancio riformatore della Delega e perché il legislatore delegato abbia poi comunque ritenuto di dover rinunciare a darne compiuta attuazione, “confezionando” soltanto una parte, sia pure qualificante, del progetto imbastito dalle Commissioni di studio istituite. Bisogna tornare ai motivi e agli intendimenti che hanno convinto il Parlamento a ritenere non più differibile una rifondazione del sistema dell’esecuzione penale.

Già nell’intitolazione originaria della Delega – ove si parlava di modifiche “all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena” – ne erano compendiate ragion d’essere e obbiettivi: dare reale attuazione ad una finalità della sanzione penale evidentemente per gran parte e per troppo tempo soltanto enunciata. L’impietoso referto politico contenuto in questa enunciazione programmatica non consente di lasciare inevasa una domanda: come è possibile che a quasi settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione si sia avvertita l’esigenza di dar vento alla vela della finalità rieducativa, l’unica finalità che la Carta fondamentale assegna espressamente alla pena (art. 27 comma 3)? Un interrogativo che si fa culturalmente impegnativo se si pensa che già nel 1975, proprio per dare attuazione all’art.27 comma 3 Cost., aveva visto la luce la prima legge di ordinamento penitenziario (l. 26 luglio1975, n.354), presa ad esempio da molti Paesi occidentali. Un interrogativo che diviene inquietante, se si pensa che nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto un’umiliante condanna al nostro Paese (C.e.d.u. 8 gennaio 2013, Torreggiani vs Italia), con ciò attestando che in Italia non soltanto era stato tradito il principio rieducativo della pena, ma difettava l’indispensabile presupposto del suo inverarsi e cioè che le pene non consistano – come significativamente pretende lo stesso comma 3 dell’art. 27 – in trattamenti inumani e degradanti.

Comprendere a cosa sia dovuta questa parabola involutiva aiuta a capire le difficoltà del presente e a prepararsi a fronteggiare quelle di domani.

La legge penitenziaria del 1975 è stata calata – come si legge nel documento finale degli Stati generali sull’esecuzione penale – in un sistema concepito per rispondere a mere istanze custodialistiche. Strutture edilizie, modalità di organizzazione, abito mentale degli operatori, preordinati come erano a gestire il recluso per forgiare un “buon detenuto”, non potevano non opporre una naturale resistenza ad una riforma che avrebbe voluto offrire al condannato, invece, opportunità per divenire un “buon cittadino”. A questa originaria refrattarietà del sistema reale si è andata aggiungendo, con il crescere del senso di insicurezza percepito dalla collettività, una strumentalizzazione securitaria dell’esecuzione penale. Si è gradualmente diffusa la convinzione che il carcere sia l’unico rimedio alle paure del nostro tempo e con essa la corrispondente tendenza politica – elettoralmente molto redditizia nell’attuale “democrazia emotiva” – ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e più inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione delle misure alternative al carcere. Si sono susseguite, per tale motivo, “folate securitarie” che hanno incistato nell’ordinamento del 1975 divieti, preclusioni e automatismi, snaturandone la filosofia, compromettendone la coerenza sistematica, spostando al di là del costituzionalmente consentito il punto focale dell’esecuzione della pena dalla persona del condannato al fatto commesso.

La quarantennale storia del nostro ordinamento penitenziario, dunque, non soltanto ha dimostrato che qualsiasi riforma è destinata a rimanere in gran parte sulla carta, se non vi sono persone e luoghi capaci di accoglierla. Ha altresì dimostrato che, se non cambia la cultura sociale della pena e se non si debella il pregiudizio in forza del quale, limitando i diritti dei condannati, si ottiene maggiore sicurezza, ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a “scorrerie legislative” di segno involutivo e “carcerocentrico”.

Soprattutto dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva reso di drammatica evidenza che il nostro sistema penitenziario era sprofondato dall’enunciazione costituzionale del trattamento rieducativo alla realtà carceraria del trattamento inumano e degradante, è maturata, almeno nella politica e nella cultura più attenta, una consapevolezza: ogni sforzo innovativo che voglia incidere in profondità e durevolmente sull’esecuzione penale deve cercare di abbracciarla nella sua poliedrica complessità per intervenire sui piani, intimamente interconnessi, delle norme, delle strutture architettoniche, della formazione professionale, dell’organizzazione del regime penitenziario, del coinvolgimento del territorio nell’esecuzione esterna della pena; deve cercare, soprattutto, di predisporre una sorta di “placenta culturale” che sappia accogliere e nutrire le novità.

Con questo ambizioso obbiettivo sono stati istituiti gli Stati generali dell’esecuzione penale (D.M. 8 maggio 2015) che hanno preceduto e accompagnato i primi passi della legge delega nel tentativo di propiziare un diverso sentire sociale rispetto al valore e alle finalità della pena. In questa prospettiva, gli Stati generali hanno fatto ricorso ad un approccio metodologicamente inedito caratterizzato da due opzioni di fondo: da un lato, si è voluta dedicare alla realtà dell’esecuzione penale un’attenzione multifocale, orientandola sui suoi aspetti nevralgici e qualificanti; dall’altro, si è cercato di promuovere una mobilitazione culturale più ampia possibile, chiamando a confrontarsi professionalità, esperienze, linguaggi solitamente non dialoganti tra loro, con la speranza di riuscire a sospingere il dibattito pubblico al di là degli angusti confini di una concezione meramente custodialistica della pena.

Di questa esperienza resta un patrimonio di conoscenze (consultabile sul sito del Ministero della giustizia) unico nel suo genere: analisi, ricognizioni comparatistiche, documentazione, proposte, che sono ormai un ineludibile punto di riferimento per ogni studio o progetto. Ne è altresì conseguito un ampio coinvolgimento di diversi contesti professionali e culturali alla causa di una pena risocializzante, che si è manifestato anche attraverso il proliferare di iniziative molto interessanti con la convinta partecipazione della società civile. Tuttavia, a giudicare da talune scomposte e oscurantiste reazioni alla sola prospettiva di una parziale attuazione della riforma, si deve ritenere che l’obbiettivo di sensibilizzazione civile e costituzionale al tema della pena sia rimasto in parte incompiuto, del resto non imprevedibilmente se si considera che si trattava di “divellere” pregiudizi profondamente radicati. D’altra parte, un palinsesto mediatico largamente incentrato sulla cronaca nera e una politica che ha nella fomentazione delle paure il suo core business non potevano non contrastare l’affermarsi di una idea di pena che tende ad abbassare, sia pure in base a parametri e prognosi normativamente disciplinati, i ponti levatoi fisici e psicologici tra società intramuraria ed extramuraria.

 

2. Una riforma costituzionalmente orientata. – Le tre Commissioni istituite (D.M. 19 luglio 2017) per dare attuazione alla legge di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario hanno realizzato quello che può considerarsi, insieme alla legge n.354 del 1975, il più ampio disegno di rinnovamento dell’esecuzione penale nel nostro Paese. Infatti, una Commissione ha predisposto una profonda (ri)scrittura delle norme incidenti sul momento di espiazione della pena in generale (la legge di ordinamento penitenziario, anzitutto, ma anche disposizioni penali e processuali, oltre a numerose leggi speciali, quali, ad esempio, il testo unico sugli stupefacenti, la normativa giuslavoristica e quella sugli stranieri); un’altra si è dedicata alla rifondazione del sistema delle misure di sicurezza, ancora fermo all’indifendibile impostazione del codice Rocco, e alla messa a punto di un sistema di assistenza sanitaria più rispettoso del diritto alla salute del detenuto; una terza ha elaborato un nuovo corpus normativo dedicato all’ordinamento penitenziario per i minorenni (preannunciato da una norma transitoria della legge del 1975!) e ha prefigurato l’inedita introduzione, nel nostro sistema, dei canoni della giustizia riparativa, che attraverso un’opera di paziente ritessitura dei rapporti lacerati dal crimine riesce, là dove ve ne siano le condizioni, a ricostituire un tessuto relazionale e sociale, su cui la pena, da sola, saprebbe apportare soltanto un grossolano rammendo.

In dirittura d’arrivo, però, è soltanto lo schema di decreto legislativo che opera il primo tipo di intervento, arricchito di disposizioni sulla medicina penitenziaria, senza peraltro neppure recepire integralmente l’impianto normativo elaborato dalla competente Commissione ministeriale: di questo, infatti, mancano le “sezioni” riguardanti l’affettività e il lavoro. La parte relativa al lavoro, peraltro, rimasta ormeggiata in porto per problemi di copertura economica, dovrebbe intraprendere in questi giorni – insieme alla riforma dell’ordinamento minorile e della giustizia riparativa – il viaggio necessario per approdare al lido legislativo, lungo un tratto di mare che le previsioni meteo-politiche annunciano burrascoso.

Se l’approvazione dell’intero impianto di riforma voluto dalla Delega e predisposto dalle Commissioni ministeriali avrebbe rappresentato una palingenesi epocale della nostra esecuzione penale, non v’è dubbio che il varo anche della sola parte ormai all’ultimo esame del Parlamento significherebbe immettere nelle arterie normative, depurate delle sedimentazioni securitarie, la linfa di un’idea di esecuzione della pena finalmente in piena sintonia con quella prefigurata dalla nostra Costituzione

Non è qui possibile neppure compendiare le diverse linee di intervento in cui si declina nel testo in via di approvazione il nuovo approccio riformatore: preme però mettere a fuoco il punto di fuga verso il quale convergono, che tutte le spiega e le giustifica in una coerente sinergia finalistica. Alludiamo all’idea-cardine secondo cui la funzione rieducativa della pena postula l’offerta al condannato di un progetto individualizzato di risocializzazione: il tempo della pena non dovrebbe essere inedia trascorsa in una sorda astanteria, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. In coerenza con questa visione, andrebbe coerentemente bandita ogni presunzione legale di irrecuperabilità sociale, riconoscendo al condannato, anche al condannato all’ergastolo, il diritto alla speranza, che si traduce sovente in una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali. Un diritto alla speranza che implica – come ha statuito la Corte europea dei diritti dell’uomo – il dovere degli Stati di prevedere un riesame che permetta «di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il suo mantenimento in detenzione» (Grande Chambre, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito).

Nel rispetto dei limiti imposti dalla Delega soprattutto con riguardo ai reati di mafia e di terrorismo, la nuova normativa – nella profonda convinzione che presunzioni legali assolute e funzione rieducativa della pena costituiscono un ossimoro giuridico e psicologico – procede ad una bonifica delle preclusioni e degli automatismi che oggi finiscono inammissibilmente per modulare il percorso risocializzativo non sull’uomo, bensì sul fatto da lui commesso. Coerentemente, viene eliminata anche la possibilità di esecuzione domiciliare della pena detentiva introdotta dalla legge n. 199 del 2010 che, come si sa, è misura eminentemente deflativa, prevedendo l’applicazione pressoché automatica della misura per chi deve espiare pene non superiori a 18 mesi, salvo la verifica del solo requisito minimale della sussistenza di un concreto pericolo di recidiva. Insomma, nei limiti consentiti dalla legge, il condannato deve essere e sentirsi artefice della progressiva individualizzazione del trattamento punitivo.  

Ciò comporta che il destinatario dell’offerta “trattamentale” sia un soggetto messo effettivamente nella condizione di fare scelte convinte e impegnative. La riforma ripudia ogni sistema che, per regole, prassi e linguaggi, produca forme di infantilizzazione e di incapacitazione e propone un trattamento rieducativo «improntato a modelli che favoriscano l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione»; un trattamento, destinato ad un soggetto che sappia autogestirsi nel microcosmo sociale del carcere, le cui modalità di vita siano le più vicine possibili a quelle del mondo esterno, come richiedono le regole penitenziarie europee. A tal fine, «la sorveglianza delle persone detenute dovrà avvenire con modalità tali da consentire ai detenuti e agli internati di trascorrere la maggior parte della giornata fuori dalle aree destinate al pernottamento anche al fine di favorire i rapporti interpersonali e l’osservazione del comportamento e della personalità». Particolari disposizioni sono state introdotte a tutela di coloro che più facilmente possono subire pregiudizio dalla costrizione carceraria (donne e soggetti esposti a discriminazioni di genere o di orientamento sessuale). Per non recidere i legami con la comunità esterna, poi, saranno favoriti i rapporti con i familiari (viene, ad esempio, introdotta una nuova ipotesi di permesso per ragioni familiari di particolare rilevanza) e le opportunità di comunicazione, nonché di aggiornamento e di informazione.

La riforma prevede una progressività trattamentale orientata alla rinuncia dell’opzione carcerocentrica in favore di una più coraggiosa scelta di recupero del soggetto delinquente mediante un deciso spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso sanzioni di comunità, meno onerose per lo Stato e meno desocializzanti per il condannato, chiamato ad adoperarsi nella e per la collettività (es. lavoro di pubblica utilità). 

Tale spostamento, peraltro, viene accompagnato da una rimodulazione dei presupposti per la concessione delle sanzioni di comunità e dalla predisposizione di più stringenti criteri per assicurare il rispetto delle prescrizioni imposte. Ad un più ampio accesso alle misure alternative, infatti, fa da riscontro una maggiore responsabilizzazione del condannato, realizzata sia arricchendo il corredo degli impegni collegati alla misura alternativa, sia assicurando l’effettività del loro assolvimento attraverso il controllo dell’U.e.p.e., che si può avvalere anche dell’ausilio della polizia penitenziaria.

 

3. Resistenze e pregiudizi. – Mentre scrivo non so, come dicevo, se la riforma vedrà mai la luce. Ma credo di intuire quali siano le ragioni per cui potrebbe non vederla o per cui, se approvata, potrebbe non avere piena e duratura applicazione. Più che di ragioni, dovremmo parlare di luoghi comuni o, meglio, di pregiudizi. Mi riferisco, ad esempio, alla diffusa convinzione secondo cui la pena della reclusione commisurata al fatto di reato, dimentica dell’uomo che lo ha commesso e indifferente alle trasformazioni della sua personalità – la c.d. pena certa – garantisca meglio la sicurezza della collettività e meglio risarcisca il dolore delle vittime.

In questa stagione dell’insicurezza e della precarietà il carcere è divenuto, nel nostro subconscio, una sorta di metafora architettonica ove rinserrare tutte le nostre paure. Ogni breccia in questa struttura viene percepita come un’allarmante insidia e istintivamente demonizzata: solo un carcere blindato in cui rinchiudere tutti i soggetti pericolosi sembrerebbe mettere la società al riparo dal crimine. Si potrebbe far notare che la più accreditata letteratura criminologica afferma, in base ad indagini di vittimizzazione, che nelle carceri è ristretto soltanto il 5% circa degli autori di reato, con poche significative oscillazioni da Paese a Paese. Tuttavia, foss’anche rispetto a quel 5%, se la mera segregazione mettesse davvero al riparo da rischi sarebbe opzione da prendere in esame.

La realtà si pone in termini del tutto diversi, se non opposti, come sanno (o dovrebbero sapere) anche i detrattori della riforma penitenziaria. Ma in un clima di generalizzata insicurezza il rozzo placebo “gettiamo via le chiavi” continua ad essere offerto e ricevuto come risolutivo: perché “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”, ci spiega Christa Wolf nella Medea.

Partiamo, allora, da un’ovvietà troppo spesso trascurata: fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo c.d. ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a delinquere. L’indice di recidiva si aggira intorno al 70% (in Italia, il 68%), con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese (ad es., in Brasile più dell’80%, in Inghilterra intorno al 50%); questa inclinazione a ri-delinquere scema fortemente quando il condannato sconta la pena in un regime carcerario che ne rispetta la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi – anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati – un graduale e controllato reinserimento sociale. Pure in tal caso gli indici statistici oscillano (in Italia si scende al 19%, in Inghilterra al 22%) sino a registrare ancor più vistosi e significativi abbattimenti della recidiva a seguito di particolari iniziative pilota (si parla, ad esempio, del 12% con riferimento a quella degli Apac in Brasile o, addirittura, del 5% per i dimessi dal penitenziario La Stampa di Lugano).

Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati a seconda che questi abbiano subito una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza, o una pena pur severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione ad un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero dovuto. Pertanto, quando lo Stato sa offrire una tale opportunità e il condannato sa meritarla, la collettività ne trae un beneficio molto significativo. Da un lato, perché recupera energie sociali: tornano in libertà soggetti in grado di svolgere un positivo ruolo nella collettività e, soprattutto, nelle loro famiglie, quasi sempre “condannate” di riflesso a condurre un’esistenza di precarietà economica e di stigmatizzazione sociale. Dall’altro, perché, modulando gradualmente la pena detentiva in impegnative misure da eseguire in comunità, la società sarà esposta a un minor numero di crimini, anche con positivi ritorni di carattere materiale (lavori di pubblica utilità). Soprattutto, lo Stato si sottrarrà all’autolesionistico compito di mantenere dispendiosamente in galera dei soggetti con l’unico risultato di prepararli a tornare a delinquere.

Ciò non significa, ovviamente, che la pena non debba conservare anche una funzione retributiva: per i reati più gravi non saranno comunque evitabili lunghi periodi di detenzione, quand’anche il condannato sin dall’inizio s’adoperi in un serio e fattivo percorso di riabilitazione.

Ciò non significa neppure, come si ripete con logoro cliché, che vi sia incertezza della pena. Diciamo forse che la pena non è certa per il fatto che il giudice può infliggere al rapinatore una condanna da quattro a dieci anni di reclusione? Se a nessuno è mai venuto in mente di sostenerlo è perché tutti comprendono che la discrezionalità concessa al giudice serve per meglio commisurare la sanzione alla gravità del fatto in concreto. Perché, allora, quando le modalità di esecuzione e talvolta la durata della pena sono calibrate dal giudice sulla base dell’evoluzione comportamentale del soggetto, si parla di “incertezza della pena”? Come non si pretende che tutti i rapinatori siano puniti con x anni a prescindere dal fatto di cui si sono resi protagonisti, così non si dovrebbe pretendere che tutti i condannati a x anni di reclusione scontino la stessa pena e nello stesso modo a prescindere dal loro comportamento nel corso della sua espiazione. Tener conto dell’avvenuta, profonda rielaborazione del male commesso e del conseguente impegno per un operativo riscatto non significa rendere incerta la pena, ma individualizzarne i contenuti per il recupero sociale del condannato, come la nostra Costituzione prescrive. I replicanti della pena certa dovrebbero almeno avere l’avvertenza di precisare che ciò che invocano è in realtà la pena fissa, immutabile. L’incertezza della pena si verifica, semmai, quando lo Stato rinuncia ad accertare se debba applicarla, come nel caso della prescrizione processuale, che negli ultimi tempi – fenomeno soltanto nostrano – ha visto ogni anno abortire in media 150.000 processi senza arrivare all’accertamento delle responsabilità penali. È singolare che sovente quegli stessi che si scandalizzano per l’individualizzazione della pena durante l’esecuzione difendano un sistema che rinuncia a monte, troppo spesso, ad accertare se di pena ci sia bisogno.

La riforma, invece, vuole che sia applicata la pena giusta e necessaria: quella, cioè, che non serve per infierire e per vendicarsi, ma per punire il colpevole e per tutelare la collettività, anche offrendo al condannato la possibilità – ove se ne dimostri meritevole – di farvi graduale, positivo rientro.

Quando la giustificazione della tutela della sicurezza vacilla, i misoneisti invocano, per opporsi alla riforma, il rispetto per le vittime. Difficile comprendere come la concezione della pena che anima la riforma possa offendere chi ha subito le conseguenze del reato, a meno di non voler condividere la barbara prassi seguita negli Stati Uniti di far assistere i parenti delle vittime alla esecuzione capitale del condannato, nella convinzione che il loro “risarcimento” sia direttamente proporzionato alle sofferenze inflitte al reo. Il problema va posto in termini diversi. Quanti hanno sofferto dolori strazianti per i crimini subiti da loro o dai loro cari portano ferite che nessuna pena inflitta ai colpevoli riuscirà mai a rimarginare, ma sulle quali, certo, l’impunità o il gratuito indulgenzialismo getterebbe liquido ustionante. Uno Stato civile deve saper accertare le responsabilità e irrogare ai colpevoli la pena giusta e necessaria, cioè un trattamento punitivo non insensibile all’evoluzione psicologica e comportamentale del condannato, ai suoi eventuali percorsi di revisione critica del proprio operato e di fattiva volontà di adoperarsi in favore della collettività e delle vittime. Quando si copre con la nobile intenzione di rispettare il dolore delle vittime l’istinto a segregarne senza remissione “i carnefici”, si dovrebbe responsabilmente pensare che forse non ci sarebbero state vittime, oggi, se ai carnefici di “ieri” fosse stata offerta la possibilità di una riabilitazione sociale e di un graduale, monitorato ritorno in libertà.

 

4. Una rivoluzione “reazionaria”. – Sulla riforma penitenziaria si sono addensate pretestuose preoccupazioni, quasi fossimo alla vigilia di un’azzardata rivoluzione del sistema dell’esecuzione penale. Si sono dovute ascoltare e leggere affermazioni che vi ravvisano un provvedimento di mera decongestione carceraria, una consacrazione legislativa dell’incertezza della pena, un ingiustificato indulgenzialismo, quando non addirittura un allentamento del regime del 41-bis ord. penit. o preoccupanti misure di favore alla mafia: affermazioni che possono essere dovute soltanto a ignoranza o a malafede. Ed è difficile dire quale delle due spiegazioni sia più preoccupante.

In realtà, la riforma intende soltanto attuare, con settant’anni di ritardo, la Costituzione, alla cui stregua – si è desolantemente costretti a ricordarlo – le pene non possono consistere in trattamenti inumani e degradanti e devono tendere alla riabilitazione sociale del condannato; alla cui stregua, cioè, lo Stato è legittimato a privare il reo della libertà, mai della dignità e della speranza.