16 novembre 2018 |
Riforma dell'ordinamento penitenziario: le novità in materia di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni
Decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121 (G.U. 26 ottobre 2018)
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1. Ad oltre quarant’anni di distanza dalla riforma penitenziaria del 1975 e da quella disposizione transitoria, l’art. 79, che estendeva la disciplina esecutiva prevista per gli adulti anche ai condannati minorenni, in attesa di un intervento legislativo ad hoc, il 2 ottobre scorso ha visto la luce il decreto legislativo per l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione dell’art. 1, comma 81, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103.
L’assenza di una normativa dedicata tradiva quella specificità connessa con lo status di minorenne (trattamento differenziato dagli adulti) che è il segno distintivo del nuovo modello di giurisdizione punitiva pensata per i minori (in questo senso, anche la Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo recante la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, pp. 2-3). In effetti, è sempre apparso paradossale che la tutela delle esigenze educative costituisse il leit motiv dell’intero processo minorile e ne forgiasse in modo peculiare la struttura (basti pensare ai provvedimenti di diversion o alla connotazione educativa assegnata alle misure cautelari extra carcerarie), ma venisse meno proprio nella fase di esecuzione della pena, il segmento processuale a vocazione prettamente pedagogica.
è la Corte Costituzionale, in questi anni, ad aver svolto un sapiente lavoro di adeguamento delle norme di ordinamento penitenziario contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354 alle esigenze educative dei condannati minorenni; in particolare, con una “sentenza-monito”, ha dato un chiaro segnale al legislatore statuendo che l’assenza di ogni diversificazione nel regime trattamentale tra adulti e minorenni comprometterebbe «quell’esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminente funzione educativa richiedono» (Corte cost., 25 marzo 1992, n. 125).
Si tratta di indicazioni che sono state recepite dalla legge delega 103/2017 (art. 1 comma 85, lett. p), insieme all’attuazione degli impegni che il nostro paese ha assunto con la sottoscrizione delle Carte internazionali che promuovono una giustizia penale “a misura di minore” (Regole di Pechino, Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori). La delega traccia le linee dell’intervento normativo seguendo tre direttrici: priorità assegnata ai bisogni del minorenne e alla promozione della sua persona, attraverso l’individualizzazione e la flessibilità dell’intervento educativo; preferenza accordata alle misure alternative alla detenzione che delineano un modello penitenziario incentrato sui bisogni di ogni singolo condannato e che, di conseguenza, cambiano l’attuale prospettiva punitiva incentrata sul carcere; riorganizzazione degli istituti per minorenni in modo da favorire la responsabilizzazione e il rafforzamento delle relazioni con il mondo esterno, in funzione di un proficuo inserimento sociale che riduca il più possibile il rischio di commissione di nuovi reati.
Non tutti gli otto punti della delega hanno trovato puntuale attuazione, in particolare i punti 5 e 6, a proposito dell’ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e dell’eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la concessione o la revoca dei benefici penitenziari. Probabilmente si tratta degli aspetti salienti di una riforma funzionale a ridurre il carcere per i minorenni ad extrema ratio e a realizzare il finalismo rieducativo della pena e il principio di individualizzazione del trattamento. Perciò, è amaro constatare che l’assetto complessivo del decreto sembra tradire le attese di un modello esecutivo “differenziato”, nella prospettiva avanzata dal Giudice delle leggi e che in più di un passaggio si presta a censure di costituzionalità. Va detto per inciso che il testo approvato riprende, nella sostanza, l’impianto dello schema licenziato dal precedente Governo, ma differisce radicalmente dalla bozza elaborata dalla Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile e di modelli di giustizia riparativa in ambito esecutivo presieduta da Francesco Cascini.
Prima di addentrarci nell’analisi del merito delle scelte operate, preme sottolineare un’ultima questione. Dal punto di vista formale, il decreto, di fattura assai modesta, si presta a più di una critica: refusi ripetuti, qualche seria dimenticanza e una tecnica normativa quantomai approssimativa, non rendono agevole il lavoro dell’interprete. Per contro, non vanno taciute talune scelte, sempre sul piano formale che, almeno sulla carta, risultano in consonanza con i desiderata del delegante. A titolo esemplificativo, si segnalano significative opzioni lessicali e d’impianto, a cominciare dall’identificazione delle misure extra moenia con la locuzione «misure penali di comunità», che evidenzia la prospettiva verso cui tendere. L’uso del termine “comunità” al posto di “alternativa”, oltre a coinvolgere direttamente la collettività nel progetto di recupero e inserimento del condannato (creazione di un sistema esecutivo aperto, inclusivo), fa una scelta chiara per le misure penali di comunità quale modalità principale per l’esecuzione della pena nei confronti dei minorenni. Sintomatica, perciò, appare la loro collocazione nel capo II, subito dopo le disposizioni generali; pure dal punto di vista sistematico, si ha la percezione della preferenza loro accordata e della marginalità che deve caratterizzare il ricorso al carcere. Peccato che, al di là dello sforzo definitorio, come vedremo tra breve, queste misure, nei presupposti e nei contenuti, non si discostano abbastanza dal modello penitenziario ordinario da determinare un’esecuzione della pena “a misura di minorenne”. Il delegato si mostra molto più attento a differenziare taluni aspetti della vita detentiva, rivelando così di prediligere il carcere quale fulcro del sistema anche per i minori.
Indicativo, infine, risulta l’uso delle locuzioni inserimento sociale (al posto di reinserimento) o anche percorso educativo (al posto di rieducativo), in sintonia con i princìpi costituzionali che, per il combinato disposto degli artt. 27 comma 3 e 31 comma 2 Cost., assegnano all’ordinamento penitenziario minorile il carattere pedagogico che impone un «mutamento di segno al principio rieducativo immanente alla pena, attribuendo a quest’ultima, proprio perché applicata nei confronti di un soggetto ancora in formazione e alla ricerca di una propria identità, una connotazione educativa più che rieducativa, in funzione di un inserimento maturo nel consorzio sociale» (Corte cost., 28 aprile 1994, n. 168).
Il decreto è strutturato in quattro capi, il primo contenente le disposizioni generali dell’esecuzione penitenziaria nei confronti dei minorenni (un unico articolo), il secondo all’esecuzione esterna e alle misure di comunità (artt. 2-8), il terzo alla disciplina dell’esecuzione (artt. 9-13), il quarto all’intervento educativo e all’organizzazione degli IPM (artt. 14-24), con due norme di chiusura destinate agli impegni finanziari per l’attuazione della riforma.
2. Il sistema penitenziario minorile esordisce all’art. 1 comma 1 fissando il principio di specialità (da considerare un infortunio lessicale l’utilizzo del termine “regole” nella rubrica della norma), secondo cui l’esecuzione della pena detentiva, delle misure penali di comunità e l’applicazione di queste ultime nei confronti dei condannati minorenni segue le norme del d. lgs. 121/2018 e, in via sussidiaria, quelle del codice di procedura penale, della legge di ordinamento penitenziario e relativo regolamento di esecuzione, nonché le norme del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 e quelle di attuazione, coordinamento e transitorie approvato con d. lgs. 28 luglio 1989, n. 272.
Senza dubbio non risulta felicissima la traduzione normativa del principio, poiché sembra circoscrivere l’intervento sussidiario delle leggi richiamate solo ad alcuni aspetti dell’esecuzione nei confronti dei minorenni. In particolare, per ciò che riguarda le misure penali di comunità, l’ordinamento penitenziario per adulti e le altre leggi possono intervenire a colmare dei vuoti normativi solo per ciò che riguarda la loro esecuzione e applicazione, non anche per consentire, ad esempio, il ricorso alle altre misure alternative previste dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 o da leggi speciali (vedi il testo unico in materia di stupefacenti). Possibilità da non escludere, laddove venissero introdotti meccanismi di favore per l’esecuzione extra moenia dei maggiorenni. La differenziazione tra sistemi si giustifica sulla base del principio del favor minoris che difende la particolare condizione di vulnerabilità di soggetti in età evolutiva e non può mai determinare una situazione deteriore per questi ultimi, per i quali il livello di garanzie e di tutela deve essere, se non superiore, almeno pari a quello assegnato agli adulti (sul punto, proprio in tema di libertà personale, cfr. Corte cost. 21 luglio 2000, n. 323).
Inoltre, l’interazione di norme tra sistemi è priva della formula di salvaguardia «in quanto compatibili» che terrebbe indenne il procedimento esecutivo minorile da quelle disposizioni che si porrebbero in contrasto con i suoi caratteri e i suoi obiettivi.
La poco accorta formulazione, comunque, non dovrebbe interessare l’operatività della disciplina della liberazione anticipata (art. 54 ord. pen.), poiché non siamo in presenza di una misura alternativa, ma di un meccanismo che incide sull’esecuzione della condanna: con la decurtazione di periodi di pena quale riconoscimento della partecipazione all’opera di rieducazione, si anticipa il fine-pena e, contestualmente, si maturano più rapidamente le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari.
Un’ultima chiosa sia consentita: con il rinvio generale al d.P.R. 448/1988 il principio di specialità dovrebbe ritenersi integrato attraverso quello di adeguatezza applicativa contenuto nell’art. 1 d.P.R. 448/1988, secondo cui le disposizioni riservate ai minorenni vanno applicate in modo adeguato alla loro personalità e alle esigenze educative. In sostanza, il primo consente di determinare le norme che operano per i minorenni, l’an, mentre il secondo ne definisce il quomodo.
2.1. Il comma 2 si preoccupa di fissare le finalità cui mira l’esecuzione penitenziaria minorile: promuovere percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato, nonché responsabilizzazione, educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne; preparare alla vita libera, favorire l’inclusione sociale e prevenire la commissione di ulteriori reati.
Gli strumenti privilegiati per il perseguimento degli obiettivi indicati sono individuati nei percorsi di istruzione, di formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile e nelle attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero (notare, nell’ultima parte del comma 2, l’insistito richiamo all’istruzione e alla formazione professionale, un evidente refuso che ritroviamo in molte altre norme del decreto).
3. Il capo dedicato all’esecuzione penale esterna definisce innanzitutto, all’art. 2 comma 1, le misure penali di comunità che si applicano ai minorenni: l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 4), l’affidamento in prova con detenzione domiciliare (art. 5), la detenzione domiciliare (art. 6), la semilibertà (art. 7) e l’affidamento in prova in casi particolari. Per quest’ultima misura, però, il delegato ha trascurato di prevederne la relativa disciplina, una pesante dimenticanza che espone la norma a censure di illegittimità costituzionale, ove non si riuscisse, per via esegetica, a colmare il vuoto, poiché risulterebbe inapplicabile ai condannati minorenni una misura di favore fruibile dagli adulti, oltretutto posta a tutela del diritto alla salute dei condannati. Che con la locuzione prescelta, il legislatore intendesse riferirsi all’affidamento in prova per tossicodipendenti di cui all’art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, lo si ricava dal comma 12 dell’art. 2, che estende alle misure previste per i minorenni la disciplina riservata alle omologhe misure per adulti, in quanto compatibili. Purtroppo, nel nostro caso, manca una disciplina dedicata da integrare con quella ordinaria e poiché, come abbiamo già visto all’art. 1, il principio di specialità, così come formulato, sembrerebbe destinare ai minorenni le sole misure penali di comunità disciplinate dal decreto in commento, ciò rende assai arduo ritenere l’operatività delle altre misure alternative, compreso l’affidamento in prova per tossicodipendenti. Peraltro, tentando un ulteriore sforzo esegetico, viene in soccorso l’art. 11, che, quantomeno nel procedimento per l’applicazione delle misure di comunità dalla libertà, sembrerebbe ammettere l’estensione ai minorenni della disciplina di cui all’art. 94 d.P.R. 309/1990 e, accolta questa lettura, sarebbe irragionevole non ritenerla operante ad esecuzione già iniziata.
Sia consentita un’ultima notazione a proposito della introduzione di misure penali di comunità mirate a far fronte alle specifiche esigenze dei minorenni: si constata, con rammarico, il mancato recepimento delle indicazioni provenienti dalla bozza elaborata dalla Commissione ministeriale con riguardo alla tutela del diritto alla salute e all’introduzione di un affidamento in prova terapeutico per patologie psichiatriche. Non di rado la reclusione in IPM determina l’insorgenza nei detenuti di malattie psichiatriche o di gravi e persistenti disturbi della personalità che richiedono specifici trattamenti sanitari, i quali difficilmente possono essere offerti in istituto (dove manca la presenza di personale sanitario specializzato), senza rischi di compromissione ulteriore della salute del condannato e degli altri reclusi.
3.1. Nei restanti undici commi dell’art. 2 sono state previste disposizioni che accomunano tutte le misure minorili: definizione dei presupposti, dell’ambito di applicazione, dei soggetti che intervengono nell’esecuzione e delle attività loro demandate.
Le misure penali di comunità possono essere applicate se risultano idonee a favorire l’evoluzione positiva della personalità, un proficuo percorso educativo e di recupero, e a condizione che non vi sia il pericolo che il condannato si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati.
Previsione qualificante è quella che impone l’elaborazione di un programma di intervento educativo per tutte le misure (comma 2); ciò mette in evidenza che lo scopo primo dell’esecuzione non è tanto la neutralizzazione della pericolosità del condannato attraverso la compressione della libertà personale, ma soprattutto favorire l’educazione e promuovere il recupero del minorenne. Il programma, inoltre, è costruito sulle esigenze del singolo, senza pregiudizio per i percorsi educativi in atto (principio di individualizzazione - comma 3) e mira ad assicurare un rapido e positivo inserimento sociale, con il minor sacrificio della libertà personale (comma 5).
Accolto anche il principio di territorialità dell’esecuzione penale esterna (comma 7), teso ad assicurare il mantenimento e il rafforzamento delle relazioni socio-familiari in essere del minorenne, indispensabili per garantire un più facile ritorno nel proprio contesto di vita. Tuttavia il principio è derogabile ove manchino o non siano educativamente adeguati i riferimenti socio-affettivi di cui si dispone (esemplificativamente, si pensi alla situazione dei minori stranieri o di quanti vivono il dramma della marginalità sociale, il cui ambiente vitale deve essere costruito ex novo per mancanza di ogni tipo di sostegno sul territorio; o, pure, alla condizione di minorenni che provengono da contesti criminali strutturati e tali da rendere necessario, dal punto di vista educativo, un loro allontanamento, nella prospettiva di un futuro e positivo inserimento sociale (Relazione di accompagnamento, p. 6). Non solo: per agevolare il più largo impiego di questi strumenti “di favore” anche in situazioni-limite, dove è carente un domicilio idoneo, il comma 8 dell’art. 2 ne consente l’applicazione con il collocamento del minorenne in una comunità pubblica o del privato sociale. Si tratta di una delle previsioni più importanti nella prospettiva di incentivare il ricorso alle misure penali di comunità (in particolare affidamento in prova in tutte le sue forme e detenzione domiciliare), soprattutto rispetto a quei minorenni che, privi di adeguati supporti personali, sociali ed economici, sarebbero destinati ad un’esecuzione intra-moenia. Positive, da questo punto di vista, anche le disposizioni finanziarie contenute nell’art. 26 che prevedono un importante investimento economico proprio sulle misure dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare.
Sulla struttura delle comunità, si prevede che, in deroga a quanto previsto dalla lett. a) dell’art. 10 d. lgs. 28 luglio 1989, n. 272, possono essere organizzate per ospitare solamente minorenni sottoposti a procedimento penale, ovvero in esecuzione di pena. Allo stato attuale, pur essendo significativa nell’ottica dell’educazione, una organizzazione che punti a far interagire minori devianti e non, in alcune situazioni proprio la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale potrebbe compromettere il ricorso al collocamento, laddove la pericolosità del condannato fosse tale da impedire (o comunque rendere complessa) una coabitazione, a tutela della sicurezza di tutti gli ospiti.
Fulcro dell’applicazione delle misure penali di comunità è l’ufficio di servizio sociale per minorenni, al quale sono affidati diversi compiti: innanzitutto predisporre la proposta di programma di intervento educativo (comma 4), effettuare altresì l’osservazione scientifica della personalità, con acquisizione di tutti i dati necessari su cui il tribunale per i minorenni fonderà la valutazione di meritevolezza del beneficio (comma 9), provvedere ai necessari interventi vòlti ad individuare un domicilio o altra situazione abitativa che consenta l’esecuzione extra moenia della pena (comma 11).
Unica nota stonata nei profili che accomunano l’adozione delle misure (e degli altri benefici) è l’operatività nel sistema minorile dell’art. 4-bis comma 1 e 1-bis ord. pen. (comma 3), con la sopravvivenza dei reati ostativi per la fruibilità dei provvedimenti di favore. Al di là del fatto che la previsione si pone in evidente conflitto con il punto 6 dell’art. 1, comma 85 della legge delega 103/2017, il quale prevede l’eliminazione di ogni «automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento», appaiono di difficile comprensione gli argomenti addotti dal legislatore delegato per giustificare l’estensione della disciplina anche ai minorenni. Si legge nella Relazione di accompagnamento (p. 4) che, per «mantenere indenne dalla riforma la disciplina di cui all’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, individuato dalla legge di delega quale criterio generale che deve orientare tutti gli interventi in materia di ordinamento penitenziario, ivi compreso quello minorile (comma 85 dell’art. 1 della legge n. 103 del 2017)», si rende necessario consentire l’applicabilità dell’art. 4-bis ord. pen. ai minorenni, norma cui il citato art. 41-bis ord. pen. rinvia.
Non esiste nessuna interdipendenza tra il divieto automatico di accesso ai benefici penitenziari e la sospensione delle regole trattamentali; tra i due regimi vi è solo la condivisione di gravi fattispecie di reato che li legittimano, ma la loro applicazione resta autonoma nei presupposti e nella disciplina (financo i destinatari sono diversi: condannati nel caso dell’art. 4-bis ord. pen., anche gli imputati per l’art. 41-bis ord. pen.). Pertanto, volendo mantenere indenne dalla riforma il regime del carcere duro anche per i minorenni, sarebbe bastato prevederne l’espressa applicazione (scelta, sia detto per inciso, che non si condivide) e ben si sarebbe potuto, nel segno delle indicazioni della legge delega, escludere la presunzione legale di pericolosità che osta alla concessione delle misure penitenziarie di favore. Il che non vorrebbe dire fruibilità automatica dei benefici anche per i gravi reati di cui al comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen., ma significherebbe consentire al tribunale di sorveglianza di valutare caso per caso la meritevolezza di tali misure, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo minorenne e nel rispetto di quel principio di flessibilità attraverso cui è possibile realizzare il recupero e l’inserimento sociale.
4. Previste all’art. 3 talune prescrizioni che qualificano dal punto di vista contenutistico tutte le misure extra moenia. Con il provvedimento applicativo, sono fissate le modalità con cui il nucleo familiare è coinvolto nel progetto educativo; se necessario, possono essere adottati anche i provvedimenti civili a protezione del minorenne di cui all’art. 32 comma 4 d.P.R. 448/1988 (ad esempio, il collocamento eterofamiliare). Il giudice, inoltre, prescrive al condannato lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito o di volontariato, da svolgere compatibilmente con i percorsi educativi in atto. Si tratta di contenuti che danno una valenza pedagogica a queste modalità esecutive “di favore” che, nell'ottica della responsabilizzazione del condannato, promuovono comportamenti attivi che cambiano la logica sanzionatoria tradizionale della passività connessa allo stato di reclusione (Relazione di accompagnamento, p. 7). Poiché l’intervento sanzionatorio è rivolto a soggetti in giovane età, la cui personalità è ancora in fase di strutturazione, le istanze di difesa sociale connesse alla punizione possono essere meglio attinte non ricorrendo alla mera neutralizzazione della pericolosità, ma per mezzo delle effettive possibilità di impegno e di recupero che il sistema è disposto a concedere.
5. Sul versante tipologico le misure penali di comunità differiscono assai poco dalle corrispondenti alternative per adulti, eccezion fatta, probabilmente, per l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 4) che si duplica e se ne prevede una modalità esecutiva con detenzione domiciliare in determinati giorni della settimana (art. 5).
La disciplina attua il punto 4 dell’art. 1 comma 85, lett. p) della legge delega 103/2017 che chiedeva l’introduzione di nuove misure penali di comunità ad impronta più marcatamente educativa e la scelta fatta potenzia quella che più di altre risponde a queste istanze pedagogiche; nella nuova fisionomia, se ne consente l’impiego in tutte quelle situazioni in cui il pericolo di commissione di nuovi reati non può essere evitato contando sulle sole prescrizioni di fare e sugli impegni positivi che il minorenne assume con l'affidamento. Con la disciplina introdotta all’art. 5, infatti, si permette al giudice di modulare i contenuti del programma di intervento educativo aggiungendo obblighi di stare (o divieti di allontanamento) che, associati alle prescrizioni positive, consentono di raggiungere il recupero del minorenne, senza rinunciare al contenimento della pericolosità.
La misura, così, risulta maggiormente afflittiva dell'affidamento in prova previsto all’art. 4 e per evitare che l'indeterminatezza degli obblighi di stare la rendano più gravosa della detenzione domiciliare, dalla quale mutua struttura e disciplina (comma 2), si prevedono limiti di durata computati in uno o più giorni determinati della settimana.
Resta fermo che, per le condizioni di accesso e per gli altri contenuti, si applica la disciplina dell'affidamento in prova ordinario.
5.1. Ai fini della concessione dell’affidamento in prova, la pena detentiva da eseguire non deve essere superiore ai quattro anni (erano sei nello schema di decreto presentato dal precedente Governo), un limite che, nei fatti, tradisce le attese della legge delega, la quale chiedeva un ampliamento dei criteri di accesso alle misure penali di comunità. Attualmente, con l’introduzione del comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen. l’affidamento in prova per gli adulti può essere concesso anche per pene residue da scontare che non superino i quattro anni di reclusione. Al contempo, un limite di pena così contenuto depotenzia la centralità riconosciuta a questa misura.
Anche nei contenuti l’art. 4 non si differenzia dall’art. 47 ord. pen., ad eccezione di alcune prescrizioni (obbligatorie le attività di istruzione, di formazione, di lavoro o comunque utili per l’educazione e l’inclusione sociale) e della possibilità, come già detto, di poterne disporre l’esecuzione presso una comunità pubblica o del privato sociale.
Il condannato è affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni che lo assiste nel percorso di reinserimento sociale, anche mettendosi in relazione con la famiglia e con gli altri ambienti di vita del condannato. I servizi relazionano al magistrato di sorveglianza incaricato dell’esecuzione e possono indicare anche modifiche alle prescrizioni che, nei casi di urgenza, possono essere adottate dal direttore dell’ufficio di servizio sociale per i minorenni, il quale riferisce immediatamente al magistrato (comma 5).
6. Pure per la detenzione domiciliare le condizioni d’accesso non differiscono di molto da quelle previste per gli adulti dall’art. 47-ter ord. pen. L’art. 6 esordisce recependo la disciplina riguardante le ipotesi speciali di detenzione domiciliare (artt. 47-quater e 47-quinquies ord. pen.), nonché quella ordinaria del comma 1 dell’art. 47-ter ord. pen. che prevede, con il limite di pena di quattro anni, la possibilità di fruire di questa misura alternativa per categorie soggettive le cui condizioni personali appaiono difficilmente compatibili con la detenzione intra moenia: le donne incinte e le madri di prole di età inferiore a dieci anni (e i padri che esercitano la responsabilità genitoriale quando la madre risulti assolutamente impossibilitata ad assistere la prole), le persone in condizioni di salute particolarmente gravi e che necessitano di cure all’esterno, le persone ultrasessantenni, se inabili anche parzialmente e gli infraventunenni per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro e famiglia.
A queste ipotesi (non tutte applicabili ai minorenni) il decreto aggiunge una sorta di detenzione domiciliare “generica” (disciplina speciale rispetto alla previsione dell’art. 47-ter comma 1-bis ord. pen.) che consente di eseguire la pena presso il domicilio, altro luogo pubblico o privato di cura assistenza e accoglienza o presso una comunità quando non è possibile ricorrere all’affidamento in prova al servizio sociale (in entrambe le forme di cui agli artt. 4 e 5) e la pena da eseguire non supera i tre anni.
Non viene richiamata, invece, la detenzione domiciliare ispirata a finalità assistenziali-umanitarie e prevista nei casi di rinvio obbligatorio o facoltativo di esecuzione della pena ai sensi del comma 1-ter dell’art. 47-ter ord. pen. Sfugge la ragione di questa omissione (più probabile si tratti di mera dimenticanza), ma può essere recuperata in via interpretativa ricorrendo al principio del favor minoris (Corte cost. 323/2000).
Differenze rilevanti si riscontrano invece nei contenuti della detenzione domiciliare per minorenni: il decreto potenzia gli aspetti trattamentali e impone l’elaborazione di un programma di intervento educativo da parte dell’ufficio di servizio sociale per i minorenni che tuteli e promuova i diritti del condannato (comma 2), affinché non sia costretto ad una totale passività determinata dalla condizione di reclusione domiciliare.
Inoltre, il successivo comma 3 fissa le prescrizioni cui deve attenersi il detenuto che favoriscano lo svolgimento di attività utili dal punto di vista pedagogico e funzionali al suo inserimento sociale.
7. L'art. 7 si occupa della semilibertà, che mantiene struttura e contenuti di quella prevista dalla legge di ordinamento penitenziario: si consente al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per la partecipazione ad attività di istruzione, di formazione professionale, di lavoro, di utilità sociale o comunque funzionali all'inclusione sociale.
Il programma di intervento educativo specifica le prescrizioni da osservarsi all’esterno (comma 2), con particolare riferimento ai rapporti con la famiglia, con i servizi sociali, nonché gli orari di rientro in istituto. E, come per gli adulti, si prevede una gestione flessibile dei minorenni semiliberi attraverso l’assegnazione ad appositi istituti o sezioni e con la possibilità di trasferimento se questo agevola l’organizzazione e lo svolgimento di attività esterne, nonché il consolidamento delle relazioni socio-familiari funzionali ad un proficuo ritorno nel consorzio civile (comma 3).
In attuazione dei criteri della delega, il decreto amplia le condizioni di accesso alla semilibertà rispetto alla corrispondente previsione per adulti, stabilendo che il minorenne può esservi ammesso quando abbia espiato un terzo della pena. Se, tuttavia, si tratta di una condanna per uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen., il giudice, nel concedere la misura, deve tener conto altresì «del significativo rapporto tra la pena espiata e la pena residua». Un criterio di valutazione aggiuntivo di cui è davvero difficile intendere il senso e che sembra contraddire quanto sopra affermato a proposito del limite “fisso” di pena per accedere alla semilibertà. È nella frazione di un terzo il «significativo rapporto» stabilito dal legislatore tra pena espiata e pena da espiare, anche per i più gravi delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. e non sembrano residuare su questo aspetto margini di apprezzamento per il giudice. Peraltro, un simile criterio assegnerebbe al tribunale di sorveglianza un potere discrezionale ai limiti dell’arbitrio (il «significativo rapporto» si muove entro una forbice quantitativa assai indeterminata), oltre a rischiare di compromettere la natura stessa della semilibertà, la misura dai marcati caratteri detentivi, ma che, più di altre, risponde al principio della progressione trattamentale, rispetto alla quale la concedibilità del beneficio va sempre valutata. Fissato il limite dell’espiazione di almeno un terzo della pena, da questo momento in poi il minorenne ha diritto a che il giudice verifichi se, nel percorso di recupero, secondo il progetto educativo stilato dai servizi minorili, abbia raggiunto traguardi tali da poter riguadagnare rilevanti spazi di libertà. E questo a prescindere dal quantum di pena ancora da espiare.
8. Passando ora ad analizzare i profili procedurali relativi all’adozione, sostituzione e revoca delle misure penali di comunità, il decreto opera una razionalizzazione, inserendo nell’art. 8 tutte le disposizioni comuni alle diverse misure, un corpo unico teso a superare quella frammentarietà che connota il sistema per adulti. Elemento qualificante la scelta legislativa è l'eliminazione di ogni automatismo che comporti modifiche nel regime esecutivo della pena sottratte alla valutazione discrezionale dell'organo giurisdizionale.
La competenza per l'adozione, la sostituzione e la revoca delle misure penali di comunità è affidata al tribunale di sorveglianza per i minorenni (comma 1), mentre l'applicazione in via provvisoria è demandata al magistrato di sorveglianza, secondo la disciplina dettata dall’art. 47 comma 4 ord. pen. per l’affidamento in prova al servizio sociale (comma 2).
Il procedimento per la concessione della misura può essere avviato da una richiesta dell’interessato, se maggiorenne, o del difensore e dell’esercente la responsabilità genitoriale se il condannato è minorenne, nonché da una proposta del pubblico ministero o dell’ufficio di servizio sociale per minorenni. Espressamene la norma esclude che la misura possa essere disposta d’ufficio, una scelta di cui è difficile cogliere la ratio e da ritenere costituzionalmente illegittima, in quanto crea una ingiustificata disparità di trattamento tra adulti e minorenni. L’art. 678 c.p.p., nel disciplinare il procedimento di sorveglianza (che si applica anche in ambito minorile), stabilisce la sua attivabilità d’ufficio nelle materie di competenza del tribunale di sorveglianza, dunque anche per la concessione delle misure alternative alla detenzione e per quelle penali di comunità. L’iniziativa ex officio è uno degli elementi che contraddistingue la giurisdizione di sorveglianza, poiché la preminente valenza accordata al finalismo rieducativo della pena impone all’organo giurisdizionale un ruolo attivo nel promuovere l’adozione di tutti gli strumenti funzionali allo scopo. Si tratta, a ben vedere, di una garanzia per il condannato e per il suo diritto alla rieducazione, in particolare, un presidio irrinunciabile in tutte quelle situazioni in cui si trovi in una condizione di minorità, privo del supporto, dei mezzi e delle conoscenze necessari per agire autonomamente. A maggior ragione il divieto appare incomprensibile nel contesto minorile, dove il giudice, fin dalla fase del processo, si fa carico di proteggere e promuovere una personalità fragile, di salvaguardarne il diritto all’educazione e, perciò, di orientare l’intervento repressivo verso soluzioni (adottate anche d’ufficio) che incoraggino la più rapida fuoriuscita dal circuito penale.
Anche per ciò che riguarda sostituzione e revoca delle misure penali di comunità, il comma 3 detta una disciplina unitaria e le consente nei casi espressamente previsti e qualora il comportamento del condannato risulti incompatibile con la prosecuzione delle misure. E pure in questo caso sono esclusi automatismi: lo si ricava dalla disgiuntiva «o» tra i termini «sostituite» e «revocate». Il tribunale, nei casi in cui la revoca sarebbe possibile, può sostituire la misura in atto con altra, che appaia maggiormente adeguata a soddisfare le esigenze del caso concreto e a garantire l’attuazione degli obiettivi perseguiti, evitando così il ritorno in carcere.
Assai approssimativa la disciplina relativa alla sospensione in via cautelare delle misure penali di comunità (nel testo si parla di sospensione in via provvisoria) che può creare una condizione deteriore per il minorenne rispetto all’adulto (comma 4). La disposizione speciale prevede che a disporre la sospensione sia il magistrato di sorveglianza, il quale può procedere altresì alla sostituzione della misura sospesa (da intendere come alternativa al ritorno del condannato in istituto). La norma, tuttavia non precisa a quali condizioni e in quali casi detta facoltà può essere esercitata, a differenza dell’omologo art. 51-ter ord. pen. che associa la sospensione alle condizioni che giustificherebbero la revoca. Questa dimenticanza rischia di esporre il minorenne a scelte arbitrarie del magistrato, non essendo individuabili dei limiti che perimetrino l’esercizio della discrezionalità. Il provvedimento di sospensione viene trasmesso al tribunale di sorveglianza immediatamente per le sue determinazioni e perde efficacia se la decisione del tribunale non interviene entro trenta giorni.
L’art. 8 chiude le questioni procedurali con una disposizione dedicata al computo del periodo trascorso in misura penale di comunità nel momento in cui viene revocata. Il problema non si pone per detenzione domiciliare e semilibertà, poiché a tutti gli effetti il condannato è considerato in stato di detenzione, per cui l’intero periodo viene scomputato nella pena ancora da espiare. Per l’affidamento in prova al servizio sociale e per l'affidamento in prova con detenzione domiciliare, invece, il tribunale di sorveglianza dovrà stabilire l’entità della decurtazione sul residuo di pena, considerata la durata della misura, le limitazioni imposte e il comportamento complessivamente tenuto dal condannato.
9. II capo III del decreto ha ad oggetto la disciplina dell'esecuzione, anche in questo caso una disciplina organica e unitaria per tutte le misure. Si apre con l'art. 9 che modifica l’art. 24 d. lgs. 272/1989, in materia di esecuzione dei provvedimenti limitativi della libertà personale nei confronti di minorenni e giovani adulti. Il tenore della riforma segue due direttrici: in primo luogo, si introducono le misure penali di comunità al fianco delle misure alternative alla detenzione, la cui esecuzione segue le regole del presente decreto anche per coloro che nel corso dell’esecuzione avessero compiuto il diciottesimo, ma non il venticinquesimo anno di età, una previsione che mira ad impedire che allo scoccare dei fatidici diciotto anni si determinino traumatiche interruzioni dei percorsi educativi già intrapresi durante la fase processuale con il repentino passaggio ad un regime penitenziario meno favorevole. Inoltre, il decreto ristruttura in peius l’ambito di operatività della disciplina minorile nei confronti dei giovani adulti eliminando ogni riferimento agli infraventunenni. La conseguenza è che le norme e le modalità esecutive minorili si applicano agli infraventicinquenni, sempreché il giudice non ravvisi particolari ragioni di sicurezza (uno spiccato profilo di pericolosità del condannato), nel qual caso, tenuto conto delle finalità rieducative, può disporre l’esecuzione nei confronti del giovane adulto secondo la disciplina prevista per i maggiorenni fin dal compimento del diciottesimo anno di età (anziché del ventunesimo com’era prima della modifica). E la stessa mutazione esecutiva può essere autorizzata, secondo una ulteriore interpolazione della norma, quando le finalità rieducative «non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto» (il giovane-adulto si dimostra “resistente” al progetto educativo pensato e attuato nei suoi confronti). Quest’ultima disposizione appare assai pericolosa, nell’ottica della prosecuzione di un progetto educativo che miri alla responsabilizzazione e al recupero del condannato, poiché scarica sulle sue spalle tutta la responsabilità di un intervento fallito, quando invece potrebbe essere non adeguata la stessa offerta trattamentale o mancare delle risorse e dei supporti necessari per la sua proficua realizzazione.
10. Previsione-fulcro per gli aspetti esecutivi è senza ombra di dubbio l'art. 10, rubricato «estensione dell'ambito di esecuzione delle pene secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni» e intende regolamentare il contesto in cui operano le regole penitenziarie minorili nell'ipotesi in cui siano in esecuzione pene concorrenti per fatti commessi da minorenne e da adulto (contestuale esecuzione di titoli eterogenei). Attualmente non esiste una specifica disciplina e si rinvia alle regole generali sulla competenza del giudice ai sensi dell’art. 665 comma 4 c.p.p., competenza individuata in base alla sentenza divenuta irrevocabile per ultima. E la questione non aveva fino ad oggi un grande rilievo, visto che ai condannati minorenni si applicavano le stesse norme previste per gli adulti, ma con l’introduzione di una disciplina speciale, che opta (o dovrebbe optare) per regole più favorevoli, specialmente in materia di accesso alle misure penali di comunità, diventa necessario prevedere criteri oggettivi, così da individuare la disciplina da applicare nel caso in cui un titolo esecutivo per fatti commessi da minorenne concorre con uno per fatti commessi da maggiorenne. Se così non fosse, si correrebbe il rischio dì affidare al caso (il momento nel quale le sentenze diventano irrevocabili) l’applicazione del regime più favorevole.
La scelta, condivisibile, è stata quella di radicare la competenza dinanzi al magistrato di sorveglianza minorile, al quale è affidato il compito di appurare se vi siano le «condizioni per la prosecuzione dell’esecuzione secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni, tenuto conto del percorso educativo in atto e della gravità dei fatti oggetto di cumulo». Perciò, quando deve essere eseguita una condanna per reati commessi da maggiorenne durante l’espiazione di una pena per reati commessi da minorenne, il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 656 c.p.p., sospende l’ordine di esecuzione e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza minorile per le valutazioni di competenza. Se questi ritiene che vi siano le condizioni per la prosecuzione dell’esecuzione secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni, ne dispone l’estensione al nuovo titolo, «tenuto conto del percorso educativo in atto e della gravità dei fatti oggetto di cumulo». In caso contrario, «dispone la cessazione della sospensione e restituisce gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso dell’esecuzione». Nella decisione del magistrato di sorveglianza, secondo l’ultima parte del comma 1 dell’art. 10, si deve tener conto anche di eventuali ragioni di sicurezza o dell’impossibilità di perseguire le finalità educative a causa della mancata adesione del giovane adulto al trattamento in atto (ex art. 24 d. lgs. 272/1989). La decisione del magistrato è soggetta a reclamo ex art. 68-bis ord. pen. Questa disciplina di favore non si applica nel caso in cui l’infraventicinquenne, per il reato commesso da maggiorenne, «abbia fatto ingresso in un istituto per adulti in custodia cautelare o in espiazione di pena».
Il comma 4 dell’art. 10 stabilisce che, se l’ordine di esecuzione per il reato commesso da maggiorenne non può essere sospeso, il magistrato di sorveglianza restituisce gli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso dell’esecuzione secondo la disciplina prevista per gli adulti. è da ritenere che il riferimento sia ai casi in cui la pena da eseguire, tenuto conto del computo della liberazione anticipata ex art. 656 comma 4-bis c.p.p., sia superiore al limite dei quattro anni di reclusione (sei anni nei casi di affidamento in prova terapeutico) o si versi in una delle condizioni ostative di cui al comma 9 dell’art. 656 c.p.p.
Infine, il comma 3 prevede che l’esecuzione della pena nei confronti di chi ha commesso il reato da minorenne è affidata ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, per proseguire quella presa in carico già avviata durante il procedimento penale.
11. Speciali sono altresì le disposizioni riservate all’esecuzione delle pene detentive nei confronti degli infraventicinquenni che commisero il reato da minorenni (art. 11). Il decreto riscrive l’art. 656 c.p.p., mutuandone alcuni precetti, ma tralasciandone altri; il che determina, per il principio di specialità, l’inapplicabilità della norma del codice di rito, stante l’assenza di ogni richiamo per quanto non previsto. E non sembra poter soccorrere l’art. 1, poiché la supplenza della disciplina codicistica è possibile per quanto non previsto dal presente decreto. L’unica operazione esegetica che possa consentire una integrazione dell’art. 11 riguarda eventuali previsioni tese ad assicurare un livello di garanzie quantomeno pari a quelle destinate agli adulti, pure questa volta sulla base del principio del favor minoris.
L’art. 11 prevede che il pubblico ministero, quando la pena, anche residua, non supera i quattro anni di reclusione, (sei anni in caso di affidamento in prova per tossicodipendenti), emette l'ordine di esecuzione e contestualmente ne dispone la sospensione, salvo che il condannato si trovi per il fatto oggetto della condanna in stato di custodia cautelare ovvero sia detenuto in carcere o in istituto penitenziario minorile per altro titolo definitivo (comma 1). Ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione, malgrado non vi siano richiami espressi, è da ritenere applicabile il comma 4-bis dell’art. 656 c.p.p., trattandosi di una prescrizione di favore che consente il computo della liberazione anticipata su eventuali periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile relativi al titolo cui dare esecuzione (le stesse argomentazioni valgono anche per i comma 4-ter e 4-quater della medesima norma).
Ai sensi del comma 2, l’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato, al difensore e, in caso di persona minore degli anni diciotto, agli esercenti la responsabilità genitoriale, con l'avviso che nel termine di trenta giorni può essere presentata richiesta, corredata di dichiarazione o elezione di domicilio, al tribunale di sorveglianza per l’applicazione di una misura di comunità, mediante deposito presso l’ufficio del pubblico ministero, al quale compete la trasmissione al tribunale di sorveglianza. Una precisazione ci sembra importante a proposito della notifica al difensore che deve essere fatta, in prima battuta, a quello nominato per la fase di esecuzione e, in assenza di nomina, a colui che ha assistito il minorenne nella fase del giudizio. La specificazione, apprezzabile, punta a dare continuità anche all’apporto tecnico-difensivo, ma la formulazione della norma rende difficile la sua attuazione, poiché più di un legale può essersi alternato al fianco del minorenne nella fase di cognizione e questo rischia di rendere difficile l’individuazione del professionista cui inviare la notificazione ai fini della richiesta di misura penale di comunità.
Il decreto di sospensione contiene l’invito al condannato a prendere contatto con l’ufficio di servizio sociale per i minorenni (il comma 3 utilizza la dicitura ufficio del servizio sociale minorile dell’amministrazione della giustizia), al fine di consentire la predisposizione di quel progetto di intervento educativo che rappresenta il contenuto imprescindibile di ogni misura penale di comunità. Una disposizione che vuole favorire la responsabilizzazione del minorenne rispetto all’applicazione di una modalità esecutiva della pena che comporta l‘imposizione di prescrizioni di facere che richiedono l’adesione di chi vi è sottoposto. La logica della responsabilizzazione, che sorregge sul punto le scelte del delegato, è uno degli argomenti che, secondo la Relazione di accompagnamento (p. 15), avrebbe strutturato l’art. 11 in modo da escludere meccanismi di attivazione ex officio del procedimento per la concessione dalla libertà delle misure penali di comunità, proposta pure avanzata nella bozza di decreto licenziata dalla Commissione ministeriale. L’opzione di sganciare l’avvio del procedimento concessorio da una richiesta dell’interessato era apparsa alla Commissione in perfetta consonanza con il favore con cui il legislatore delegante si orienta verso modelli esecutivi aperti, che consentirebbero un intervento immediato dell’organo giurisdizionale, al passaggio in giudicato della sentenza, teso ad appurare, per tutti i condannati minorenni liberi, quali siano le più adeguate modalità esecutive, evitando così, se del caso, il transito in carcere per coloro che, privi delle capacità e delle risorse necessarie, non hanno presentato nei termini e con le forme dovute l’istanza di misura penale di comunità. In definitiva, l’obiettivo ultimo sarebbe quello di correggere la disfunzione del sistema attuale, secondo cui un minorenne non adeguatamente assistito o che non abbia i mezzi personali o le capacità di formulare una richiesta di misura alternativa ai sensi dell’art. 656 c.p.p., deve fare a meno di una valutazione del giudice prima del transito in istituto.
Tornando alla disciplina dell’art. 11, si prevede che, nel caso in cui nel termine di trenta giorni non vengono presentate richieste, il pubblico ministero revoca il decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione (comma 4).
Il tribunale di sorveglianza, competente per la concessione della misura, fissa l’udienza a norma dell’art. 666 comma 3 c.p.p. entro quarantacinque giorni dalla ricezione dell’istanza e ne fa dare avviso agli interessati (condannato e esercenti la responsabilità genitoriale per gli infradiciottenni, difensore, pubblico ministero, servizi minorili dell’amministrazione della giustizia), i quali con l’avviso sono altresì invitati a depositare, almeno cinque giorni prima della data fissata per l’udienza, memorie e documenti utili per l’applicazione della misura. I servizi minorili, in particolare, debbono presentare (anche in udienza), la relazione personologica e sociale svolta sul minorenne, nonché il progetto di intervento redatto sulla base delle specifiche esigenze del condannato. Al tribunale resta in ogni modo la facoltà di procedere anche d’ufficio all’acquisizione di documenti o di informazioni, o all’assunzione di prove ex art. 666 comma 5 c.p.p.
12. L’art. 12 fissa le regole generali per l'esecuzione delle le misure penali di comunità, senza grandi differenziazioni con quanto già previsto dalla legge 254/1975. L’esecuzione delle misure penali di comunità è affidata al magistrato di sorveglianza del luogo dove la misura deve essere eseguita. Se ne ravvisa l’opportunità, in presenza di elementi sopravvenuti, provvede alla modifica delle prescrizioni con decreto motivato, dandone notizia all’ufficio di servizio sociale per i minorenni (commi 1 e 2). Il condannato sottoposto a misura penale di comunità è affidato all’ufficio di servizio sociale per i minorenni, il quale, in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali, svolge attività di controllo, assistenza e sostegno (comma 3). Il servizio sociale non esaurisce la presa in carico con la fine dell’esecuzione della misura, ma con l’obiettivo di assicurare la continuità dell’intervento educativo e l’inserimento sociale, prosegue le attività di assistenza e sostegno anche curando, ove necessario, i contatti con i familiari e con le altre figure di riferimento (comma 4; si veda anche la disciplina della dimissione al § 21).
Disposizione di raccordo è quella contenuta nel comma 5, la quale prescrive che al compimento del venticinquesimo anno di età, se è in corso l’esecuzione di una misura penale di comunità, il magistrato di sorveglianza per i minorenni trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza ordinario per la prosecuzione della misura, ove ne ricorrano le condizioni, con le modalità previste dalla legge 354/1975. Il passaggio al sistema per adulti consente di mantenere la misura in esecuzione, laddove, secondo la legge di ordinamento penitenziario, vi siano le condizioni. Stante la limitatissima differenziazione, dal punto di vista dei presupposti, tra misure penali di comunità e misure alternative alla detenzione (in particolare per quanto riguarda l’affidamento in prova), il passaggio può considerarsi indolore nella maggior parte dei casi. Questa disposizione, mutuata dalla bozza licenziata dalla Commissione ministeriale, avrebbe senso in un modello di ordinamento penitenziario minorile che optasse per l’eliminazione di ogni condizione di accesso alle misure penali di comunità (o ricorresse a condizioni ampiamente divergenti), lasciando all’apprezzamento discrezionale del giudice se, nel caso concreto, sulla base del progetto educativo predisposto, ricorrono le condizioni per un’esecuzione extra moenia.
13. Ultima norma del capo III è quella riguardante la sopravvenienza di titoli esecutivi per fatti commessi da minorenne (dunque in caso di concorrenza di titoli esecutivi omogenei). Il delegato mutua la disciplina dall’art. 51-bis ord. pen. stabilendo che quando, durante l’esecuzione di una misura penale di comunità, sopravviene un titolo esecutivo di altra pena detentiva per fatti commessi da minorenne, il pubblico ministero, se ricorrono le condizioni, sospende l’ordine di esecuzione e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza, il quale, se ritiene che permangono le condizioni per la prosecuzione della misura, la dispone con ordinanza. In caso contrario ne dispone la cessazione. Avverso l’ordinanza è ammesso reclamo ai sensi dell’art. 69-bis ord. pen.
14. Il capo IV inaugura la parte del decreto dedicata al trattamento intra moenia con l’art. 14 che definisce il progetto di intervento educativo sul quale si struttura la permanenza dei condannati negli IPM. Per i minorenni, infatti, appare imprescindibile «incidere sul percorso evolutivo e sulla formazione della personalità, individuando gli strumenti migliori per garantire un modulo educativo che conduca, con consapevolezza e maturità, verso l’età adulta contenendo al massimo il rischio di una ricaduta nel reato». Per questo, ai commi 3 e 4, viene «prevista la necessità di una progressione del programma che consenta, compatibilmente con il livello di adesione, una progressiva uscita dal circuito detentivo e una graduale conquista di spazi controllati di libertà» (Relazione di accompagnamento, p. 17). Il progetto deve essere elaborato entro tre mesi, previo ascolto del condannato, sulla base dei principi di personalizzazione delle prescrizioni e di flessibilità dell’esecuzione e tenendo conto delle attitudini, delle caratteristiche e della personalità del minorenne. Il progetto contiene indicazioni sulle modalità con cui coltivare le relazioni con il mondo esterno e attuare la vita di gruppo e la cittadinanza responsabile, anche nel rispetto della diversità di genere; offre altresì indicazioni sulla personalizzazione delle attività di istruzione, di formazione professionale, nonché sulle attività di lavoro, di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero utili al recupero sociale e alla prevenzione del rischio di commissione di ulteriori reati (comma 1). Alla predisposizione del progetto partecipa il personale specializzato che fornisce supporto psicologico al condannato fin dal momento dell’ingresso in carcere, supporto utile a prevenire il rischio di atti di autolesionismo e di suicidio.
15. Gli artt. 15, 16 e 21 si preoccupano di definire l’assegnazione dei detenuti negli istituti, l’organizzazione delle camere di pernottamento e delle sezioni a custodia attenuata: l’assegnazione avviene assicurando la separazione dei minorenni dai giovani al di sotto dei venticinque anni e degli imputati dai condannati, precisando che le donne sono ospitate in istituti o sezione apposite. La norma segue le indicazioni della legge 354/1975 e risponde alla necessità della separazione dei ristretti in carcere, per sesso e per età; tanto più necessaria in ambito minorile, atteso che gli IPM possono ospitare soggetti fino a venticinque anni. Le camere di pernottamento devono essere adattate alle esigenze di vita individuale dei minorenni (per questo il comma 2 dell’art. 16 autorizza una spesa di 80.000 euro ciascuno per gli anni 2018 e 2019) e viene fissato in quattro il numero massimo di ospiti, un passo avanti rispetto all’art. 6 ord. pen. che non prevede limiti massimi di capienza per camera. Possono essere organizzate sezioni a custodia attenuata per ospitare detenuti che non presentano rilevanti profili di pericolosità o che sono prossimi al fine pena e sono stati ammessi allo svolgimento di attività all’esterno. L’organizzazione di tali strutture deve prevedere spazi di autonomia dei detenuti nella gestione della vita personale e comunitaria, funzionale ad avviare il percorso di dimissione e preparare il ritorno alla vita libera.
15.1. L’assegnazione agli istituti avviene secondo il principio di territorialità (art. 22) che assicura, salvo specifici motivi, la prossimità del condannato al luogo di residenza o di abituale dimora della famiglia, così da mantenere e rafforzare le relazioni personali e familiari educativamente e socialmente significative. L’autorità giudiziaria procedente vigila sull’assegnazione (della quale riceve comunicazione) e rilascia il nulla-osta nel caso in cui questa debba essere disposta, con provvedimento motivato, in deroga al principio di territorialità. Identico nulla-osta deve essere acquisito dall’amministrazione penitenziaria quando decide, sempre con provvedimento motivato, sui trasferimenti; si può derogare a questa regola nelle situazioni di urgenza, nel qual caso i trasferimenti debbono essere comunicati all’autorità giudiziaria.
16. Apprezzabili differenze contraddistinguono la permanenza all’aperto rispetto alla disciplina dell’art. 10 ord. pen.: ai sensi dell’art. 17, le ore d’aria vengono aumentate a quattro al giorno (salvo possibili riduzioni per specifici motivi: peccato non sia stato fissato un limite minimo, ma anche in questo caso può essere mutuato dalla disciplina per adulti) e la permanenza all’aperto avviene in modo organizzato in spazi attrezzati per lo svolgimento di attività ludico-sportive e alla presenza di operatori penitenziari e di volontari. Così, si supera l’idea dell’apatico passeggio e anche i momenti all’aperto diventano occasione per favorire la socialità e proseguire l’intervento educativo. Per le finalità individuate dalla norma, il legislatore ha autorizzato la spesa di 100.000 euro per l’anno 2018 (comma 3).
17. Il trattamento intra moenia consente ai detenuti minorenni (dunque non solo ai condannati, ma anche agli imputati) di essere ammessi, con le regole di cui all’art. 21 ord. pen., alla frequenza all’esterno di corsi finalizzati all’istruzione, alla formazione professionale, quando si ritiene che possano facilitare il percorso educativo e contribuire alla valorizzazione delle potenzialità individuali e l’inclusione sociale attraverso l’acquisizione di competenze certificate. Lo svolgimento di tali attività richiede la stipula di intese con istituzioni, imprese, cooperative o associazioni, dunque un’ampia fetta di soggetti che accresce le possibilità di instaurare utili relazioni in vista del ritorno del condannato nel consorzio civile.
18. Novità di sicuro rilievo è la regolamentazione dei colloqui e la tutela dell’affettività affidata all’art. 19, che allarga di molto la possibilità di contatto con il mondo esterno e in particolare con le figure che rappresentano un saldo e positivo riferimento per il minorenne, sia dal punto di vista affettivo, sia educativo. Si prevede innanzitutto che il detenuto ha diritto a otto colloqui mensili con congiunti e con coloro con cui sussiste un significativo legame d’affetto e che ogni colloquio ha una durata non inferiore a sessanta e non superiore a novanta minuti (il riferimento al limite massimo probabilmente serve per governare l’organizzazione dei colloqui all’interno dell’IPM).
La verifica della sussistenza della relazione affettiva che legittima il colloquio è affidata al direttore dell’istituto, il quale acquisisce le informazioni necessarie tramite l’ufficio di servizio sociale per i minorenni e i servizi socio-sanitari territoriali. è altresì responsabilità del direttore verificare la sussistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscono i contatti con le persone che avrebbero diritto al colloquio (comma 5).
Favoriti pure i colloqui telefonici (almeno due a settimana, ma non più di tre) che hanno una durata massima di venti minuti e possono avvenire anche mediante dispositivi mobili in dotazione dell'istituto. Con una certa “approssimazione lessicale” l’ultima parte del comma 1 stabilisce (senza precisarne i limiti, a garanzia della libertà e segretezza delle comunicazioni e conversazioni ex art. 15 Cost.) il potere dell’autorità giudiziaria di ascoltare e registrare le conversazioni telefoniche per mezzo di idonee apparecchiature. La registrazione è sempre disposta per le conversazioni telefoniche autorizzate su richiesta di detenuti o internati per i reati indicati nell’art. 4-bis ord. pen. Anche in questo caso, l’introduzione di una disciplina che “abbassa” il livello di garanzie per i diritti del ristretto minorenne rispetto all’adulto, ci consente di integrarla con quanto stabilito dall’art. 39 d.P.R. 230/2000.
18.1. Una tutela rafforzata del diritto all’affettività dei detenuti minorenni si ricava dal comma 3 dell’art. 19 che disciplina l’istituto delle visite prolungate, una nuova forma di colloquio peraltro già positivamente sperimentata nella prassi degli IPM. Si tratta di incontri che il minorenne può intrattenere per un tempo prolungato con familiari o con altre persone con le quali abbia un significativo legame affettivo all’interno di unità abitative appositamente attrezzate negli istituti, che consentono la preparazione e la consumazione di pasti e riproducono, per quanto possibile, un ambiente di vita domestico (comma 4). Uno squarcio di quotidianità familiare in un ambito dove le relazioni personali faticano a ritagliarsi spazi di normalità. Le visite sono concesse in un numero di quattro al mese e hanno una durata non inferiore a quattro e non superiore a sei ore. Alla visita può partecipare più di una delle persone autorizzate al colloquio e per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio le visite prolungate sono incentivate (comma 6).
19. La vita in istituto prevede un coinvolgimento del minorenne che viene valutato anche ai fini della verifica dell’adesione al progetto di intervento educativo. Presupposto di tale coinvolgimento è che, fin dall’ingresso, gli venga data una precisa illustrazione delle regole interne, delle opportunità che vengono offerte, ma anche dei doveri e degli obblighi ai quali deve attenersi. A tal fine vengono indicate le regole di comportamento che il detenuto deve rispettare, ferme restando le condotte considerate infrazioni disciplinari (vedi sub § 20). L’art. 20, in sintesi, tende a favorire la responsabilizzazione del minorenne ed a prevenire il rischio di passività durante il periodo di detenzione. Le regole di comportamento cui il recluso deve attenersi sono: osservare gli orari di istituto, curare l’igiene personale, pulire e tenere in ordine la camera di pernottamento, partecipare alle attività trattamentali proposte, consumare i pasti nelle aree a ciò deputate e non nelle camere di pernottamento, salvo indicazione contraria del sanitario e relazionarsi con operatori e con gli altri detenuti nel reciproco rispetto. Nel corso della partecipazione alle attività trattamentali è fatto divieto di trattenersi nelle camere di pernottamento, salvo casi eccezionali o per motivi di salute accertati dal sanitario.
20. Per quello che riguarda la disciplina in istituto, ferme le infrazioni previste dall’art. 77 d.P.R. 230/2000, le sanzioni disciplinari che possono essere inflitte al minorenne vengono in gran parte mutuate dall’art. 39 ord. pen.: rimprovero verbale e scritto del direttore, attività dirette a rimediare al danno cagionato, esclusione dalle attività ricreative per non più di dieci giorni ed esclusione dalle attività in comune per non più di dieci giorni. A parte la prima che viene inflitta dal direttore, per le altre è competente il consiglio di disciplina, composto dal direttore, da uno dei magistrati onorari addetti al tribunale per i minorenni designato dal presidente e da un educatore (art. 23 comma 2). Il consiglio è integrato con una figura esterna al carcere, in sostituzione del medico la cui partecipazione al consiglio viene esclusa dalla legge delega (si veda il comma 85 lett. m) dell’art.1 legge 103/2017).
Tra le sanzioni, quella che indubbiamente ha una particolare valenza per i minorenni è lo svolgimento di attività dirette a rimediare al danno, con l’obiettivo di stimolare forme di riparazione. L’intervento sanzionatorio, infatti, non va concepito esclusivamente in chiave punitiva; molto più efficace, in prospettiva pedagogica, proporre un modello disciplinare che orienti l’azione del minorenne nella direzione di ricucire la frattura determinata dal reato, poiché maggiormente in grado di incoraggiare la responsabilizzazione e un positivo e più rapido inserimento sociale.
Nessuna prescrizione indica le modalità esecutive delle sanzioni disciplinari, per le quali è da ritenere applicabile l’art. 39 ord. pen.
21. L’ultima delle disposizioni riguardanti l’esecuzione della pena nei confronti dei minorenni (art. 24) cura la fase della dimissione, momento di indubbia centralità al fine di impedire che, dopo la scarcerazione, il condannato resti privo di un adeguato sostegno o di opportunità che potrebbero condurlo alla commissione di nuovi reati. Si tratta di una norma collegata all’esigenza di assicurare una condivisione tra l’azione dei servizi minorili e quella dei servizi socio-sanitari del territorio, per dare continuità all’intervento educativo e di sostegno (cfr. la Relazione di accompagnamento, p. 20).
Nei sei mesi precedenti, l’ufficio di servizio sociale per i minorenni, in collaborazione con l'area trattamentale, prepara e cura la dimissione: elabora, per i condannati cui non siano state applicate misure penali di comunità, programmi educativi, di formazione professionale, di lavoro e di sostegno all’esterno, nonché cura i contatti con i familiari di riferimento e con i servizi socio-sanitari territoriali; potenzia, in assenza di riferimenti familiari, i rapporti con i servizi socio-sanitari territoriali e con le organizzazioni di volontariato per la presa in carico del soggetto; attiva sul territorio le risorse educative, di formazione, di lavoro e di sostegno, in particolare per i condannati privi di legami familiari sul territorio nazionale, ovvero la cui famiglia sia irreperibile o inadeguata, e individua le figure educative o la comunità di riferimento proposte dai servizi sociali per i minorenni o dai servizi socio-sanitari territoriali.
22. Delle disposizioni finanziarie abbiamo già detto; non resta che ricordare, ai sensi dell’art. 25, l’onere per il Ministro della giustizia di predisporre una relazione annuale per il triennio 2019-2021 con cui presentare lo stato si attuazione del decreto, evidenziando eventuali criticità, nonché le iniziative, anche a carattere finanziario, volte al loro superamento.