19 dicembre 2018 |
Costituzionalmente illegittima la menzione dei provvedimenti sulla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti dall’interessato
Corte cost., sent. 7 novembre 2018 (dep. 7 dicembre 2018), n. 231, Pres. Lattanzi, Red. Viganò
Per leggere il testo della sentenza, clicca qui.
1. Con la sentenza in commento, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 del testo unico in materia di casellario giudiziale (d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313, d’ora in avanti: t.u.c.g.), nella parte in cui prevedono che nel certificato “generale” e nel certificato “penale” del casellario richiesti dall’interessato siano riportate le iscrizioni dell’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 464-quater c.p.p.) e della sentenza con cui il giudice, in caso di esito positivo della prova stessa, dichiara l’estinzione del reato (art. 464-septies c.p.p.).
La coerenza di un siffatto assetto normativo con taluni fondamentali principi del nostro ordinamento era stata messa in discussione da più parti: ben quattro le ordinanze[1] con cui – prospettando la violazione degli artt. 3 e 27, co. III, Cost.[2] – erano state sollevate altrettante questioni di legittimità costituzionale.
Ciò, peraltro, non aveva lasciato indifferente il legislatore, il quale lo scorso ottobre è intervenuto in materia al dichiarato fine di «superare i prospettati dubbi di incostituzionalità»[3]. Con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122 – che ha apportato significative novità nel tessuto del t.u.c.g. – è stato infatti previsto che nel certificato del casellario giudiziale richiesto dall’interessato[4] non dovranno essere riportate le iscrizioni relative ai provvedimenti che dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova[5] e alle sentenze che, in caso di esito positivo, dichiarano estinto il reato[6].
Tuttavia, al fine di «accordare un congruo lasso temporale per la progettazione e realizzazione degli adeguamenti tecnici» richiesti dalla riforma[7], il legislatore ha previsto che le disposizioni del suddetto decreto acquisteranno efficacia a partire dall’ottobre del 2019[8]. Proprio per questo motivo, la sopravvenuta modifica è risultata ininfluente rispetto alle questioni di legittimità costituzionale già sottoposte al vaglio del giudice delle leggi, le quali – salvo una, ritenuta irrilevante[9] – sono state dichiarate fondate[10]. Insomma: il legislatore ha centrato sia la diagnosi, sia la terapia, ma ha sbagliato le tempistiche, rendendo così necessario il soccorso del giudice delle leggi.
2. Come si è accennato, due sono i parametri costituzionali che sono stati richiamati all’attenzione della Corte al fine di mettere in luce l’illegittimità della mancata inclusione, fra i provvedimenti che non devono essere menzionati nei certificati richiesti dall’interessato, dell’ordinanza di sospensione del processo ex art. 464-quater c.p.p. e della sentenza che dichiara estinto il reato ex art. 464-septies c.p.p.
Si tratta del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), da un lato, e del «finalismo rieducativo»[11] che deve impregnare tutto il sistema sanzionatorio penale (art. 27, co. III, Cost.), dall’altro, ed è con riferimento ad entrambi che le censure formulate dai giudici a quibus sono state ritenute fondate.
Peraltro, prima di soffermarsi sui profili di illegittimità costituzionale della normativa impugnata, la Consulta chiarisce come essi non potessero essere superati per il tramite di un’interpretazione conforme a Costituzione, e in particolare attraverso l’applicazione analogica delle disposizioni che impongono di non menzionare determinati provvedimenti nei certificati richiesti dall’interessato. La Corte osserva infatti come tali disposizioni rappresentino «puntuali deroghe» a quella «regola generale» secondo cui tutti i provvedimenti iscritti nel casellario vanno menzionati nei certificati[12]. E trattandosi, dunque, di norme “eccezionali”, esse, ai sensi dell’art. 14 delle “disposizioni sulla legge in generale”, sono insuscettibili di applicazione analogica.
3. Venendo al merito della decisione, i giudici sono pervenuti a ravvisare forti attriti tra gli artt. 24 e 25 t.u.c.g. e il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) prendendo anzitutto in considerazione il trattamento riservato all’imputato in altri due procedimenti speciali, ossia il “patteggiamento” (artt. 444 ss. c.p.p.), da una parte, e il procedimento per decreto (artt. 459 ss. c.p.p.), dall’altra.
Il t.u.c.g. prevede, infatti, che nei certificati del casellario richiesti dall’interessato non debbano essere menzionati né la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, né i «decreti penali»[13].
Si tratta – come in passato la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di osservare a proposito del “patteggiamento” – di un incentivo diretto a indurre «l’imputato a pervenire sollecitamente alla definizione del processo»[14]. E poiché anche la sospensione del procedimento con messa alla prova mira ad assicurare all’imputato un «trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario»[15], non può che ritenersi irragionevole il mancato riconoscimento, anche in questa sede, del medesimo beneficio, atteso peraltro che qui l’imputato non si limita a concordare una pena con il pubblico ministero, ma intraprende «un percorso che comporta l’adempimento di una serie di obblighi risarcitori e riparatori in favore della persona offesa e della collettività»[16].
In secondo luogo, e da un punto di vista più generale, la Consulta mette in luce come la normativa censurata comporti addirittura una disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per tutte le sentenze di condanna. Il condannato, del resto, nella generalità dei casi può beneficiare della non menzione della condanna nei certificati richiesti dall’interessato laddove ottenga la riabilitazione[17]. Istituto, questo, che per definizione non può operare in caso di sentenza che dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova (art. 464-septies c.p.p.), non trattandosi di una sentenza di condanna[18].
4. Quanto, invece, alle censure sollevate in relazione all’art. 27, co. III, Cost., la Consulta premette che la sospensione del procedimento con messa alla prova, per le caratteristiche e le finalità di cui è intrisa, deve essere considerata «parte integrante del sistema sanzionatorio penale»[19]. Riprendendo le parole delle Sezioni Unite della Cassazione[20], i giudici affermano infatti che tale istituto – cui viene riconosciuta una duplice dimensione, processuale e sostanziale[21] – «persegue scopi specialpreventivi», in funzione del «raggiungimento della risocializzazione del soggetto»[22]. Alla luce di ciò, la messa alla prova non può sottrarsi a quel «finalismo rieducativo» che l’art. 27 Cost. impone non solo per le pene “in senso stretto”, bensì, più in generale, per l’«intero sistema sanzionatorio penale».
Chiarita la pertinenza del richiamo a questo secondo parametro costituzionale, la Corte prosegue osservando che la menzione della sentenza che dichiara estinto il reato ex art. 464-septies c.p.p. nei certificati richiesti dall’interessato si risolve in un «ostacolo al reinserimento sociale» del soggetto che abbia concluso con successo la messa alla prova, contrastando col suddetto obiettivo di “risocializzazione”. In particolare, tale disciplina finisce per creare «più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative»[23], senza, peraltro, che ciò sia giustificato da alcun «controinteress[e] costituzionalmente rilevant[e]»[24]. Del resto, l’esigenza di assicurarsi che la sospensione del procedimento con messa alla prova non sia concessa più di una volta (come vuole l’art. 168-bis, co. IV, c.p.p.) risulta già pienamente soddisfatta dall’obbligo di iscrizione nel «certificato “ad uso del giudice”»[25].
Parimenti ingiustificata viene infine ritenuta l’iscrizione dell’ordinanza che dispone la sospensione del processo: essa da un lato provoca gli stessi effetti pregiudizievoli sopra richiamati «a carico di un soggetto che la Costituzione pur vuole sia presunto innocente sino alla condanna definitiva»[26]; dall’altro concerne «un provvedimento interinale», destinato ad essere travolto da uno successivo (sentenza che dichiara l’estinzione del reato ovvero ordinanza che dispone la prosecuzione del processo).
* * *
5. La linearità e la persuasività degli snodi motivazionali sopra richiamati ci sembra testimonino come le questioni affrontate lasciassero ben pochi spazi a soluzioni differenti da quella cui è pervenuta la Corte costituzionale.
Difficile, dunque, tentare di aggiungere qualche ulteriore considerazione; piuttosto, nelle righe che seguono si cercherà di mettere in luce alcune interessanti sfumature della pronuncia.
6. Con riferimento alle censure formulate in relazione al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), occorre segnalare che una delle ordinanze di rimessione[27] indicava, quale tertium comparationis rivelatore dell’irragionevolezza della disciplina impugnata, anche il trattamento riservato ai provvedimenti con cui si dichiara la non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).
Il t.u.c.g. prevede, infatti, che anche tali provvedimenti – pur venendo iscritti nel casellario giudiziale[28] – non debbano essere menzionati nei certificati richiesti dall’interessato[29].
Come si è visto (§3), la Corte costituzionale, nell’argomentare il contrasto tra gli artt. 24 e 25 t.u.c.g. e l’art. 3 Cost., non ha in alcun modo richiamato questa disciplina, soffermandosi esclusivamente su quella dedicata all’applicazione della pena su richiesta delle parti e al procedimento per decreto.
La scelta argomentativa seguita dalla Consulta ci sembra pienamente condivisibile, in quanto non sarebbe stato affatto semplice individuare un fil rouge in grado di imporre il medesimo trattamento per provvedimenti connotati da rationes ispiratrici così sensibilmente differenti. Mentre per il patteggiamento e il procedimento per decreto (e, da oggi, anche per la messa alla prova) la non menzione nei certificati del casellario richiesti dall’interessato rappresenta un incentivo per l’imputato ad optare per questi percorsi procedimentali “deflattivi”, lo stesso – evidentemente – non può dirsi con riguardo alla non punibilità ex art. 131-bis c.p., la cui operatività prescinde da qualsiasi iniziativa dell’imputato. L’applicazione di tale ultimo istituto, inoltre, non implica l’inflizione di alcuna pena, né – più in generale – di alcun trattamento “sanzionatorio”, e la non menzione nel certificato del casellario sembra affondare le proprie radici – come, peraltro, tutta la fisionomia dell’art. 131-bis c.p. – in esigenze di proporzione tra la tenuità dell’offesa di una determinata condotta e le conseguenze da addossarsi in capo al suo autore.
7. Ma i più interessanti spunti di riflessione che la sentenza offre provengono senza dubbio dall’accoglimento delle censure sollevate in relazione all’art. 27, co. III, Cost.
Invero, già il solo fatto che gli artt. 24 e 25 t.u.c.g. siano stati dichiarati illegittimi anche in relazione a tale parametro costituzionale costituisce elemento degno di nota. E ciò in quanto, una volta dichiarate fondate le questioni sollevate in relazione all’art. 3 Cost., la Consulta ben avrebbe potuto non pronunciarsi sulle restanti, dichiarandole “assorbite”.
La scelta di percorrere il sentiero più lungo, peraltro, non sembra affatto casuale, giacché la stessa non può dirsi priva di ricadute.
A tal proposito, occorre tenere presente che le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost. presentavano una struttura “ternaria”[30]: il trattamento riservato ai provvedimenti adottati nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova era stato infatti censurato come irragionevole assumendo, quale tertium comparationis, la disciplina prevista per altri provvedimenti (sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e decreto penale di condanna). Ciò significa che, se la Corte si fosse fermata ad esaminare le questioni sollevate relativamente all’art. 3 Cost., al legislatore non sarebbe stato sin d’ora precluso di eliminare il beneficio della non menzione con riferimento a tutti i procedimenti speciali (non producendosi, in tal modo, alcuna disparità di trattamento).
Al contrario, l’aver ancorato l’illegittimità costituzionale degli artt. 24 e 25 t.u.c.g. (anche) all’art. 27, co. III, Cost. fa sì che la decisione della Corte prescinda dal trattamento riservato ad altri provvedimenti “assimilabili” a quelli adottati nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova. In definitiva, ci sembra di poter affermare che la soluzione cui oggi è pervenuta la Consulta non potrà più essere messa in discussione dal legislatore, neanche laddove, in ipotesi, egli decidesse di ridimensionare gli aspetti di “premialità” connessi al patteggiamento e al procedimento per decreto, eliminando il beneficio della “non menzione”.
8. In secondo luogo, occorre mettere in luce come il “finalismo rieducativo” di cui all’art. 27, co. III, Cost. sia entrato in gioco in questa decisione armonizzandosi in un delicato “bilanciamento”.
Con ciò si intende far notare che, se si estremizzasse il valore da attribuire a tale principio, si dovrebbe giungere ad affermare che la menzione della condanna nel certificato richiesto dall’interessato sia sempre incostituzionale, in quanto – è evidente – essa è sempre di ostacolo alla “risocializzazione”, e questa rappresenta un obiettivo cui devono tendere tutte le sanzioni penali.
Eppure, non ci sembra affatto essere questo l’insegnamento che si può trarre dalla sentenza in commento. Piuttosto, il contrasto tra gli artt. 24 e 25 t.u.c.g. e l’art. 27, co. III, Cost. sembra essere stato ravvisato prendendo in considerazione le peculiarità della sospensione del procedimento con messa alla prova. In altre parole, tenuto conto dell’ambito di applicazione oggettivo di tale procedimento speciale, nonché del percorso rieducativo intrapreso dall’imputato, la Consulta ha ritenuto che l’esigenza di agevolare la risocializzazione del soggetto debba ritenersi prevalente rispetto all’interesse dei privati a conoscere i suoi “precedenti giudiziari”.
9. Pochi, ma densi, sono infine i passaggi motivazionali riservati, in generale, alla “morfologia” della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Se la natura “ibrida” (sia sostanziale, sia processuale[31]) dell’istituto in sé viene ribadita[32] con fermezza, più sfumata risulta invece la qualificazione del “trattamento” che ne costituisce il contenuto.
In una recente pronuncia, il giudice delle leggi aveva affermato che «il trattamento programmato non è […] una sanzione penale», non essendo «eseguibile coattivamente»[33].
Oggi, però, la Corte riconosce che, comunque, la “prova” cui l’imputato è sottoposto non può non essere ricondotta nell’ambito del «sistema sanzionatorio penale»[34]. Per questa via, è stato possibile affermare che anche questo “percorso” – che scaturisce da un’adesione volontaria del soggetto e che si compie in assenza di una sentenza di condanna – deve essere illuminato da quel “finalismo rieducativo” che l’art. 27, co. III, Cost. impone per “le pene”.
Si fa, dunque, quanto mai tangibile la sfuggevolezza a facili definizioni di un istituto che, del resto, come recentemente è stato osservato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ha segnato «un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio»[35].
[1] Si tratta di: ordinanza del 18 novembre 2016 del g.i.p. del Tribunale di Firenze, pubblicata in G.U. I serie speciale – Corte costituzionale n. 14 del 5 aprile 2017, r.o. n. 47 del 2017; ordinanza del 19 marzo 2018 del Tribunale di Palermo, pubblicata in G.U. I serie speciale – Corte costituzionale n. 25 del 20 giugno 2018, r.o. n. 91 del 2018; ordinanza del 20 marzo 2018 del Tribunale di Genova, pubblicata in G.U. I serie speciale – Corte costituzionale n. 37 del 19 settembre 2018, r.o. n. 117 del 2018; ordinanza del 27 marzo 2018 del Tribunale di Genova, pubblicata in G.U. I serie speciale – Corte costituzionale n. 37 del 19 settembre 2018, r.o. n. 118 del 2018.
[2] A differenza delle altre, l’ordinanza del g.i.p. del Tribunale d Firenze denunciava esclusivamente la violazione dell’art. 3 Cost.
[3] Così si legge nella relazione illustrativa al d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122, in particolare sub art. 4. Alcuni passaggi della relazione illustrativa vengono richiamati al §4 del “considerato in diritto” della sentenza in commento.
[4] È opportuno ricordare che, mediante l’abrogazione degli artt. 23, 25, 26 e la riformulazione dell’art. 24 t.u.c.g., il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122 ha superato la distinzione tra certificato “generale”, “civile” e “penale”, prevedendo un’unica tipologia di certificato rilasciabile a richiesta dell’interessato. Tale certificato contiene tutte le iscrizioni esistenti nel casellario giudiziale a carico di un determinato soggetto, ad eccezione di quelle espressamente individuate nel novellato art. 24 t.u.c.g.
[5] Cfr. art. 24, co. 1, lett. m-bis, t.u.c.g.
[6] Cfr. art. 24, co. 1, lett. m-ter, t.u.c.g.
[7] Così la relazione illustrativa al d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122, sub art. 4.
[8] In particolare, l’art. 7 del d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 122, prevede che le disposizioni in esso contenute acquisteranno efficacia decorso un anno dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, che è avvenuta il 26 ottobre 2018 (G.U. n. 250 – suppl. ord. n. 50).
[9] La questione di legittimità costituzionale sollevata dal g.i.p. del Tribunale di Firenze è stata dichiarata irrilevante attraverso il richiamo di un’impostazione, già sposata dalla Consulta in altre occasioni (cfr. ordinanza n. 414 del 2000), secondo la quale nel giudizio di cognizione il giudice «non può in nessun caso ritenersi investito della applicazione di una disciplina […] come quella relativa alle iscrizioni nel casellario giudiziale», le cui questioni «potranno […] venire in discorso e assumere correlativa rilevanza soltanto in executivis» (cfr. §3 del “considerato in diritto”).
[10] Per completezza, merita precisare che il Tribunale ordinario di Genova aveva altresì sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 5 t.u.c.g., nella parte in cui non prevede l’eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione dell’ordinanza che dichiara la sospensione del processo a seguito dell’esito positivo della messa alla prova (cfr.
§3 del “ritenuto in fatto”). Tale questione è stata dichiarata inammissibile «per totale carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza» (cfr. §3 del “considerato in diritto”).
[11] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[12] Cfr. §5.1 del “considerato in diritto”.
[13] Cfr. art. 24, co. 1, lett. e) t.u.c.g. per quanto riguarda il certificato “generale” e art. 25, co. 1, lett. e) in relazione al certificato “penale”. Per come riformulato dal d.lgs. 122/2018, il nuovo art. 24 t.u.c.g. – che, come si è detto sub nota 4, ha introdotto un unico “certificato” da rilasciarsi a richiesta dell’interessato – prevede, alla lett. e) del co. 1, che delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti non debba farsi menzione soltanto allorquando risulti irrogata una pena detentiva non superiore a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria.
[14] Cfr. Corte cost., sent. 8 giugno 1994, n. 223, richiamata sub §5.2 del “considerato in diritto”.
[15] Cfr. §5.2 del “considerato in diritto”, che richiama Corte cost. 21 febbraii 2018, n. 91, pubblicata in questa Rivista, 7 maggio 2018, con nota di G. Leo, La Corte costituzionale ricostruisce ed “accredita”, in punto di compatibilità costituzionale, l’istituto della messa alla prova.
[16] Cfr. §5.2 del “considerato in diritto”.
[17] Cfr. art. 24, co. 1, lett. d) t.u.c.g. per quanto riguarda il certificato “generale” e art. 25, co. 1, lett. e) con riguardo al certificato “penale”.
[18] Cfr. §5.2 del “considerato in diritto”.
[19] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[20] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, Sorcinelli, pubblicata in questa Rivista.
[21] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[22] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[23] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[24] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[25] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[26] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[27] Si tratta dell’ordinanza del Tribunale di Palermo (cfr. nota 1 per gli estremi), la cui motivazione viene ripercorsa al §2 del “ritenuto in fatto”.
[28] Cfr. art. 3, co. I, lett. f), t.u.c.g.
[29] Cfr. le lettere f-bis) degli artt. 24 e 25 t.u.c.g. per quanto riguarda, rispettivamente, il certificato “generale” e il certificato “penale”.
[30] In generale, occorre ricordare che il controllo della Corte costituzionale sul rispetto dell’art. 3 Cost. può anche prescindere dall’individuazione di un tertium comparationis, e declinarsi in un controllo sulla “ragionevolezza” e “non arbitrarietà” delle scelte del legislatore.
[31] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[32] Tale duplice dimensione era già stata messa in luce da Corte cost., sent. 21 febbraio 2018, n. 91, cit., §7 del "considerato in diritto".
[33] Cfr. Corte cost., sent. 21 febbraio 2018, n. 91, cit., §7 del “considerato in diritto”: «Il trattamento programmato non è infatti una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso».
[34] Cfr. §5.3 del “considerato in diritto”.
[35] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 36272, cit., §6 del “considerato in diritto”.