ISSN 2039-1676


7 maggio 2018 |

La Corte costituzionale ricostruisce ed ‘accredita’, in punto di compatibilità costituzionale, l’istituto della messa alla prova

Corte cost., 21 febbraio 2018 (dep. 27 aprile 2018), n. 91, Pres. e Red. Lattanzi

Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2018

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1.  Non è la prima volta che la Corte costituzionale interviene sul pur giovane istituto della messa alla prova. Tra l’altro, in passato, la Consulta era stata sollecitata, dallo stesso giudice rimettente, anche con specifico riguardo alle questioni definite con la sentenza qui in commento, le quali però, all’epoca, erano state dichiarate inammissibili, mancando una dimostrazione adeguata della loro rilevanza nel procedimento principale (ord. n. 237 del 2016)[1].

Non erano mancate, ad ogni modo, decisioni di merito su alcuni aspetti della disciplina introdotta con la legge n. 67 del 2014, tanto sul versante processuale (ove si segnala soprattutto la dichiarazione di parziale illegittimità dell’art. 460 cod. proc. pen., nella parte in cui non imponeva che il decreto penale contenga l’avviso della possibilità, in sede di opposizione, di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova)[2], tanto sul versante sostanziale, ove era stata valutata, nel senso della non fondatezza, anche una parte delle questioni riprese con l’odierna sentenza.

Va ricordata, a tale ultimo proposito, l’ord. n. 54 del 2017[3], per le considerazioni espresse intorno all’art. 168-bis cod. pen. ed al presunto suo contrasto con l’art. 3 Cost., in ragione del fatto che istituirebbe un trattamento uniforme per una massa di fattispecie criminose invece assai diverse tra loro, «per tipo e per trattamento sanzionatorio». La Corte aveva osservato, in proposito, che la previsione di un determinato modulo procedimentale è fisiologicamente mirata a governare un ampio novero di situazioni concrete, alla cui varietà, d’altra parte, l’ordinamento reagisce garantendo margini cospicui di individualizzazione del trattamento. Era stato poi rilevato l’errore, compiuto da più parti, di coloro che ritenevano indeterminate sia la durata della misura del lavoro di pubblica utilità, sia la disciplina di riferimento per il giudice chiamato a stabilirla. In realtà – aveva notato la Consulta – il tempo della misura si ricava indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la quale non può essere superiore a due anni (reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria) o ad un anno (reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria): è infatti dopo la fine della sospensione, e dunque della misura, che il giudice valuta l’esito della messa alla prova. Quanto poi ai criteri per la determinazione in concreto del tempo del lavoro (guidata anche da parametri atti a limitarne l’interferenza con la vita privata dell’interessato), si tratta evidentemente di quelli indicati all’art. 133 cod. pen.

 

2. Non v’è dubbio, comunque, che l’odierna sentenza esprima al momento la disamina più compiuta, da parte della Corte costituzionale, circa l’istituto della messa alla prova. La Corte com’è ovvio si è dedicata al raffronto tra la normativa censurata ed i parametri costituzionali indicati dal rimettente. E tuttavia, come accade assai spesso, il raffronto ha presupposto una ricostruzione della disciplina effettivamente dettata dal legislatore, in buona misura diversa da quella sottesa ai rilievi del rimettente. Dunque, un nuovo caso di decisione “su base” interpretativa della questione di legittimità, con la possibilità per i giuristi, e per la giurisdizione, di valersi di un contributo ermeneutico della massima autorevolezza.

 

3.  Vediamo allora, in termini sintetici e secondo uno schema logicamente ordinato, quali questioni erano state poste dal Tribunale di Grosseto (questa volta attraverso una puntigliosa documentazione sullo stato del procedimento e sui presupposti di rilevanza delle medesime questioni).

a) Secondo il rimettente, il giudice dibattimentale chiamato a valutare la richiesta di sospensione con messa alla prova, in esordio del procedimento, dovrebbe assumere la propria decisione in base al (necessariamente scarno) fascicolo del dibattimento, non prevedendo la legge, ed in particolare il comma 1 dell’art. 464-quater, una possibilità di accesso al fascicolo delle indagini preliminari e degli eventuali atti successivi in esso contenuti. Su questo presupposto, si è prospettata una violazione degli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.

b) Una ulteriore questione richiama temi e polemiche già sperimentate sul terreno limitrofo dell’applicazione di pena su richiesta. Secondo il rimettente, gli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen. contrasterebbero con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto «prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva». In particolare, le misure connesse alla messa alla prova consisterebbero di «[…] una pena criminale, quantunque morfologicamente strutturata in forma alternativa e sostitutiva rispetto alle ordinarie sanzioni [pecuniarie e/o detentive] previste dal codice penale». D’altra parte, sempre secondo il giudice a quo, l’irrogazione di qualsiasi sanzione penale «postula l’indefettibile presupposto del convincimento del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato in relazione» al reato contestato. Tale convincimento, nell’economia della disciplina censurata, sarebbe simulato, data anche l’inaccessibilità degli atti di prova sottesi all’imputazione. Insomma, una sanzione penale senza accertamento.

c) Terza questione: la sanzione di cui si tratta – come regolata dai commi secondo e terzo dell’art. 168-bis cod. pen.  – sarebbe indeterminata, cioè non sufficientemente descritta dalla legge, in violazione del principio di legalità penale (art. 25, comma 2, Cost.).

d) Infine è stato censurato il comma 4 dell’art. 464-ter cod. proc. pen. – «nella parte in cui prevede il consenso dell’imputato quale condizione meramente potestativa di efficacia del provvedimento giurisdizionale recante modificazione o integrazione del programma di trattamento» – perché contrasterebbe con il principio di soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.), con le direttive del giusto processo (comma 2 dell’art. 111 Cost.), finanche con il principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.).

Conviene anticipare come la Corte abbia dichiarato inammissibile la questione sub a), e non fondate le ulteriori questioni. La dichiarazione di inammissibilità è interessante quanto, se non più, delle altre, perché motivata sulla omessa sperimentazione di una soluzione interpretativa del problema denunciato, o comunque sull’insufficiente ricostruzione della disciplina applicabile al caso di specie.

 

4. A proposito della questione sub a), e dunque dell’accesso al fascicolo per il dibattimento, va subito chiarito che il rimettente si è interrogato sulla possibilità di una soluzione interpretativa utile a consentire l’integrazione della base cognitiva necessaria per la decisione, valutando la possibilità d’un ricorso ad attività istruttorie mirate nella sede dibattimentale, e subito pervenendo, tuttavia, alla conclusione che l’attuale disciplina non le consente. Lo stesso giudice rimettente, invece, non ha “visto” la soluzione che la Corte ha voluto accreditare con la massima decisione, e cioè che – sull’impronta di quanto accade per le richieste di patteggiamento – il giudice dibattimentale, già secondo la legislazione vigente, deve acquisire il fascicolo del pubblico ministero, e decidere sulla base degli atti relativi, ovviamente restituendoli nel caso in cui, per una qualunque ragione, il procedimento debba riprendere il suo corso ordinario.

La soluzione è stata basata dalla Corte sull’applicazione “analogica” dell’art. 135 disp. att. cod. proc. pen. (d.lgs. n. 271 del 1989), il quale stabilisce che «[il] giudice, per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ordina l’esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Se la richiesta è accolta, gli atti esibiti vengono inseriti nel fascicolo per il dibattimento; altrimenti gli atti sono immediatamente restituiti al pubblico ministero». Non si tratta del primo esperimento di estensione della norma, poiché analoga operazione si è fatta per il caso della domanda di giudizio abbreviato[4], e del resto – nota la Corte in termini non innovativi ma certo significativi[5] – la stessa sospensione con messa alla prova è, a sua volta, un rito speciale, o comunque alternativo al rito ordinario.

 

5. Veniamo allora alla prima delle questioni non fondate (nell’ordine logico stabilito dalla Corte), quella sopra enunciata sub b), costruita sulla ritenuta intollerabilità – nell’ottica della presunzione di non colpevolezza - dell’applicazione di pene senza sentenza, e comunque senza condanna.

In realtà, osserva la Consulta, è proprio la mancanza di una condanna a legittimare l’applicazione della misura pur nell’assenza di un accertamento pieno della responsabilità. L’ordinamento già conosce, in rapporto all’art. 444 cod. proc. pen., un istituto ove la richiesta dell’accusato comporta, senza accertamento di responsabilità, l’applicazione di una pena. Negli anni successivi alla sua introduzione, non a caso, il cd. patteggiamento era stato contestato anche nella prospettiva dell’odierno rimettente, superando un severo e ripetuto vaglio di legittimità costituzionale (sent. n. 313 del 1990 e ord. n. 399 del 1997): la soglia minima di verifica giudiziale è assicurata dalla prospettiva del proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., garantito anche nella messa alla prova, e d’altra parte la rinuncia a far valere la presunzione costituzionale, con gli oneri probatori che ne derivano per la pubblica accusa, è liberamente assunta dall’imputato, evidentemente più interessato ai benefici derivanti dal ricorso al rito.

Di più. Anche riconoscendo i limiti del parallelo tra il nuovo istituto e l’applicazione della pena su richiesta, le censure del rimettente dovrebbero comunque essere disattese.

La Corte in effetti, richiamando la giurisprudenza di legittimità[6], osserva che la messa alla prova, pur regolata nell’applicazione da norme procedurali che la sottraggono al rito ordinario, presenta soprattutto natura sostanziale, invertendo l’ordinaria sequenza tra cognizione ed esecuzione allo scopo essenziale di procurare la risocializzazione del presunto reo senza pervenire all’applicazione di una pena, per quanto concordata (ciò che avviene invece, ed appunto, nel patteggiamento). D’altro canto, il «trattamento programmato non è […] una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso». Al tempo stesso, la volontà dell’accusato non è fattore da solo sufficiente ad attivare la misura di prova, perché il controllo giudiziale è comunque preposto ad evitarla quando risulti che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso, e può essere esercitato cognita causa, data la possibilità di accesso al fascicolo del pubblico ministero (supra), la facoltà di convocare l’imputato (comma 2 dell’art. 464-quater cod. proc. pen.) e finanche la possibilità dell’acquisizione di informazioni a norma dell’art. 464-bis, comma 5, del codice di rito.

Insomma, la presunzione di non colpevolezza trova protezione nei doveri di verifica comunque imposti al giudice, fino ad una soglia oltre la quale l’applicazione della misura di prova trova piena legittimazione, secondo la Corte, nella libera volontà dell’imputato, che può impedire od interrompere l’esperimento quando vuole, al solo “prezzo” della ripresa di un processo che continua a vederlo “presumibilmente” non colpevole.

 

6.  Infondata, come annunciato, anche la questione sopra indicata sub c), cioè quella relativa alla presunta indeterminatezza delle norme che regolano la qualità e la durata della misura applicabile in caso di sospensione del procedimento: fattori che sarebbero rimessi alla piena valutazione discrezionale dell’Ufficio di esecuzione esterna e poi del giudice.

 Si è ricordato sopra (§ 1) come la Corte avesse già risolto la questione concernente la durata del lavoro di pubblica utilità (ord. n. 54 del 2017), notando come la stessa debba essere contenuta entro il termine di durata fissato per la sospensione del procedimento, la cui conclusione segna inevitabilmente e logicamente quella della misura di prova. La stessa soluzione – rileva la Consulta – si attaglia alla durata massima dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Riguardo poi alla qualità delle prescrizioni, è proprio la funzione risocializzante dall’istituto ad imporre una previsione solo generale della relativa tipologia, consentendo in fase di applicazione il massimo grado di adattamento alle caratteristiche ed alle necessità del caso concreto: «la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di “un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva».

 

7. Resta da considerare la critica più radicale e generale del rimettente alla nuova disciplina (questione indicata sopra sub d), non immune da carica polemica verso un legislatore che istituisce procedure e prevede attività istituzionali senza preoccuparsi delle risorse necessarie al loro effettivo funzionamento.

Con la sua sola manifestazione di volontà – dice in sostanza il rimettente – l’imputato è posto in grado di governare la «condizione meramente potestativa» utile ad avviare la procedura, il cui svolgimento resta interamente rimesso, di nuovo, alla «capacità sovrana» dell’interessato. A questi sarebbe infatti consentita in ogni momento, e senza conseguenze, la scelta se finalizzare o non la complessa attività richiesta dalla sospensione con messa alla prova. Ciò (sembra di comprendere) comporterebbe una menomazione dei poteri riconosciuti al giudice dalla legge (art. 101 Cost.), determinando inoltre il rischio dello spreco di risorse pubbliche (art. 97 Cost.) ed un vulnus per i principi di economicità e ragionevole durata del processo penale (art. 111, secondo comma, Cost.).

Si tratta, per la Corte, di rilievi non condivisibili. L’intera procedura non potrebbe legittimamente aver luogo senza il consenso dell’imputato, il quale d’altra parte, se vuole accedere al rito, deve accettare le condizioni valutate e stabilite dal giudice secondo i parametri legali. Pare ovvio, in effetti, che l’intera disciplina dei negozi processuali penali si fonda sull’interazione tra provvedimento giudiziale assunto in base alla legge e volontà di adesione dell’interessato, senza che questo si trasformi in una menomazione dei poteri giudiziali (ciò che la Corte ha tante volte già stabilito, ad esempio, riguardo al patteggiamento).

Anche riguardo agli altri parametri invocati dal rimettente la Corte ha potuto facilmente richiamare profili “granitici” della sua pregressa giurisprudenza. È notorio anzitutto come l’art. 97 Cost. sia costantemente ritenuto privo di pertinenza all’attività giudiziaria (ex multis, sent. n. 65 del 2014 e n. 272 del 2008). Quanto alla ragionevole durata del processo, si dovrà ben metabolizzare, alla fine, che ragionevole non vuol dire semplicemente breve, e che l’espressione evoca piuttosto la necessità di un corretto bilanciamento tra i costi (in termini di durata) di un determinato adempimento e l’utilità dell’adempimento medesimo per la garanzia dei diritti fondamentali coinvolti nel processo. Solo una citazione interna alla stessa sentenza in commento, tratta dalla sent. n. 12 del 2016: «alla luce dello stesso richiamo al connotato di “ragionevolezza”, che compare nella formula costituzionale – possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme “che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza” (ex plurimis, sentenze n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del 2005)».

Del resto, conclude la Corte, i pretesi atteggiamenti “potestativi” dell’imputato – per ciò che concerne l’istituzione, la durata e l’oggetto della sospensione con messa alla prova – si esercitano in apertura del giudizio, e dunque non determinano per sé una dilazione della procedura ordinaria, dilazione semmai connessa all’accoglimento della richiesta di sospensione, che ovviamente si giustifica per la sua potenziale efficacia definitoria. La messa alla prova, in altre parole, è strutturalmente mirata alla estinzione del reato senza processo (sul merito della contestazione), ed è dunque normalmente funzionale ad una semplificazione e ad una abbreviazione del procedimento innescato dall’esercizio dell’azione penale.

 


[1] Per una parziale rassegna dei provvedimenti di rimessione successivi all’introduzione dell’istituto, che comprende anche le precidenti ordinanze del Tribunale di Grosseto, può vedersi la nota di J. Della Torre, I dubbi sulla legittimità  costituzionale del probation processuale: molteplici le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, in questa Rivista, 11 febbraio 2016. Tra i provvedimenti di rimessione più recenti, Cass., sez. I, 5 dicembre 2017, n.16358/18, in Dir. e giust. 2018, con nota di L. Piras, Messa alla prova del maggiorenne e del minorenne alla prova della Corte Costituzionale.

[2] Corte cost., sent. 21 luglio 2016, n. 201, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi, in questa Rivista, 24 luglio 2016, con nota redazionale Decreto penale di condanna: la Corte cost. parifica la sospensione del procedimento con messa alla prova ai riti speciali, ai fini dell'avviso ex art. 460, co. 2, lett. e) c.p.p. Questioni di legittimità in parte analoghe sono state sollevate anche con riguardo al provvedimento di giudizio immediato e con riguardo al decreto di citazione diretta a giudizio, ma con due recenti provvedimenti la Corte ha dovuto dichiararle inammissibili per gravi vizi della motivazione in punto di rilevanza: ord. 7 febbraio 2018, n. 85, Pres. e Rel. Lattanzi (per il rito immediato) e ord. 18 gennaio 2018, n. 7, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi (per la citazione diretta). La Consulta ha dichiarato inammissibile, sempre per ragioni procedurali, anche una questione mirata ad introdurre una condizione di incompatibilità per il giudice dibattimentale che abbia, in apertura del giudizio, rigettato una richiesta di sospensione con messa alla prova: Corte cost., ord. 24 gennaio 2017, n. 19, Pres. Grossi, Rel. Modugno, con nota di E. Andolfatto, Profili di incompatibilità del giudice al vaglio della Consulta: questioni in tema di udienza preliminare e di messa alla prova, in questa Rivista, fasc. 3/2017, p. 289 ss. Solo un cenno è infine possibile, in questa sede, al tema della efficacia nel tempo delle norme concernenti la sospensione con messa alla prova, inapplicabili ai giudizi già progrediti oltre la soglia indicata dalle relative norme procedurali. La Corte costituzionale ha dichiarato infondate le censure mosse ad un siffatto regime di “irretroattività”, con la sent. 26 novembre 2015, n. 240, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi, in questa Rivista, 27 novembre 2015, con nota redazionale, La Corte costituzionale esclude l’applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all’epoca della sua introduzione (e nega l’illegittimità della relativa disciplina intertemporale). In seguito, nello stesso senso, ord. 15 giugno 2016, n. 207, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi.

[3] Corte cost., ord. 10 marzo 2017, n. 54, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi, in questa Rivista con nota di E. Andolfatto,  Nuovo giudizio di legittimità costituzionale sulla sospensione del procedimento con messa alla prova: la Consulta respinge tre questioni sollevate dal Tribunale di Prato, fasc. 3/2017, p. 292 ss.

[4] Cass., Sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, in Corriere mer. 2005, 95, con nota di G. Leo, Giudizio abbreviato e poteri del giudice del dibattimento, o in Cass. pen. 2005, 358, con nota di P. Spagnolo, Note minime in tema di giudizio abbreviato condizionato: prova necessaria, legalità della pena, oneri dell'imputato.

[5] Si veda in particolare Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240, in questa Rivista, 27 novembre 2015, con nota redazionale La Corte costituzionale esclude l'applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all'epoca della sua introduzione (e nega l'illegittimità  della relativa disciplina intertemporale).

[6] Cass., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 36272, Sorcinelli, in Cass. pen.  2016, 4340, con nota di M.C. Amoroso, La disciplina della messa alla prova al vaglio delle Sezioni Unite, e in Riv. it. dir. proc. pen. 2017, 829, con nota di L. Pellegrini, Sospensione del procedimento con messa alla prova: le circostanze non rilevano nella determinazione della pena edittale. La sentenza è disponibile anche in questa Rivista, 15 novembre 2016, con nota di I. Guerini, In claris (non) fit interpretatio? Le Sezioni Unite in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova.