ISSN 2039-1676


14 gennaio 2013 |

Una sentenza controcorrente della Cassazione in materia di bancarotta fraudolenta: necessaria la prova del nesso causale e del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento

Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502, Pres. Zecca, Est. Demarchi Albengo, Imp. Corvetta e a.

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1. "Nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente, e deve altresì essere soggetto dall'elemento soggettivo del dolo": questo il principio di diritto enucleato dalla quinta sezione della Cassazione nel § 44 della sentenza qui pubblicata, che si pone in consapevole contrasto con l'orientamento ampiamente consolidato della S.C., che all'opposto nega la necessità della prova del nesso causale e del dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento, la quale costituirebbe sì un elemento costitutivo del delitto di bancarotta, ma non un "evento" in senso tecnico.

 

2. Il caso di specie oggetto di questa pronuncia della Cassazione concerne varie condotte asseritamente distrattive compiute dagli imputati sul patrimonio della società calcistica U.S. Ravenna Calcio s.r.l., dichiarata fallita nell'aprile 2001. Più in particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che tre componenti della famiglia Corvetta - nella loro qualità di amministratori di fatto o di diritto - avessero distratto, dal 1996 sino al marzo 1999, rilevanti somme di denaro dal patrimonio della società a favore della società di famiglia controllante Misano s.p.a., che si trovava in una situazione di grave difficoltà finanziaria. La Ravenna Calcio era stata quindi sottoposta, tra il marzo e il novembre 1999, ad amministrazione giudiziale, ed era stata quindi alienata ad altra società, per essere poi dichiarata fallita nel 2001.

La Corte d'Appello aveva motivato la condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta societaria ex art. 223 co. 1 in relazione all'art. 216 co. 1 n. 1 l. fall. affermando, in conformità al consolidato indirizzo della Cassazione, la non necessarietà di un'indagine sul nesso causale tra le condotte distrattive compiute dagli imputati e la successiva dichiarazione di fallimento, intervenuta a più di due anni di distanza dalla cessazione di ogni incarico sociale degli imputati.

Ad evitare il rischio di un regresso all'infinito della responsabilità penale rispetto al fallimento, la Corte territoriale aveva peraltro sottolineato come la concreta messa in pericolo dell'interesse tutelato dalla norma penale (la garanzia dei creditori rappresentata dal patrimonio del debitore) rappresenti un requisito implicito del delitto di bancarotta, e come - pertanto - la condotta penalmente rilevante a) debba causare un obiettivo e ingiustificato depauperamento del patrimonio  dell'impresa, e b) debba essere compiuta in un cotesto di difficoltà economica della stessa, sì da far prefigurare come sbocco possibile il suo dissesto: elementi, l'uno e l'altro, che la Corte aveva ritenuto di ravvisare nelle condotte compiute dagli imputati.

Quanto poi ai profili soggettivi, la Corte territoriale aveva coerentemente affermato che il dolo della bancarotta - pur non estendendosi alla dichiarazione di fallimento in quanto tale - deve tuttavia comprendere la consapevolezza del danno, o almeno del possibile danno della condotta alle ragioni dei creditori: requisito anch'esso ritenuto sussistente nel caso di specie.

 

3. Avverso tale sentenza gli imputati avevano proposto ricorso in cassazione, riproponendo - tra l'altro - le eccezioni di illegittimità costituzionale dell'art. 216 l. fall. (in quanto richiamato dal primo comma dell'art. 223) per violazione degli artt. 3, 25 co. 2 e 27 co. 1 e 3 Cost. già ritenute irrilevanti o infondate dai giudici di merito, e denunciando su questa base l'errore di diritto da questi ultimi compiuto - in conformità peraltro con la giurisprudenza consolidata della Cassazione - nella misura in cui essi avevano ritenuto irrilevante, ai fini del delitto contestato, la prova del nesso causale tra condotta e dichiarazione di fallimento, così come la prova del dolo rispetto a tale dichiarazione. Ad avviso delle difese, in effetti, tali requisiti facevano difetto nel caso di specie, non solo perché gli imputati non avrebbero avuto consapevolezza del potenziale danno arrecato alle ragioni creditorie dai finanziamenti della capogruppo dagli stessi disposti, ma soprattutto perché il nesso causale tra tali condotte - compiute tutte prima che la società fosse sottoposta ad amministrazione giudiziale, nel 1999 - e il successivo fallimento della U.S. Ravenna Calcio, dichiarato nel 2001 dopo che la società era stata nuovamente venduta a privati, sarebbe stato interrotto ai sensi dell'art. 41 co. 2 c.p. nella fase intermedia dell'amministrazione giudiziale, durante la quale non era stato rilevato alcun dissesto e al termine della quale la società sportiva - lungi dall'essere dichiarata fallita - era stata alienata dietro sostanzioso corrispettivo ad altra società, alle condotte distrattive dei cui amministratori unicamente sarebbe stato imputabile il successivo fallimento.

 

4. Dopo avere riaffermato la natura distrattiva dei finanziamenti compiuti dagli imputati a favore della capogruppo, la Cassazione affronta di petto la censura dei ricorrenti relativa al nodo del nesso causale tra detta condotta e la successiva dichiarazione di fallimento, ricostruendo anzitutto i termini della vexata quaestio relativa alla funzione di tale elemento nell'economia della fattispecie di bancarotta fraudolenta.

Contrariamente a una tesi largamente diffusa in dottrina, che individua in tale elemento una mera condizione obiettiva di punibilità, il collegio ribadisce anzitutto la propria adesione all'orientamento - costantemente ribadito dalla giurisprudenza della S.C. a partire almeno da una remota sentenza delle Sezioni Unite del 1958 - che considera il fallimento come elemento costitutivo del delitto di bancarotta.

Tuttavia la giurisprudenza consolidata esclude, al tempo stesso, che il fallimento sia inquadrabile quale "evento" del delitto de quo, e debba pertanto porsi in rapporto di derivazione causale rispetto alla condotta, ovvero debba essere coperto dal dolo. Tali affermazioni, tralatiziamente ribadite a partire dalle Sezioni Unite del 1958, meritano oggi, ad avviso del collegio, di essere sottoposte a revisione critica, nel contesto di un'interpretazione dell'art. 216 l. fall. conforme ai principi costituzionali di personalità della responsabilità penale e di colpevolezza, siccome declinati dal giudice delle leggi a partire dalla storica sentenza n 364/1998.

E il caso di specie si presta in special misura, afferma la S.C., a una tale revisione, essendo riferito a condotte poste in essere anni prima della dichiarazione di fallimento della società, intervenuta per di più quando la gestione della stessa era da oltre due anni affidata a soggetti - pubblici e privati - diversi dagli imputati.

 

5. Il punto di partenza della revisione critica intrapresa del collegio è, dunque, che la disposizione di cui all'art. 44 c.p. - il cui effetto pratico è quello di sottrarre le "condizioni" dalle quali la legge fa dipendere la punibilità del reato alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva di cui ai precedenti artt. 40-43 c.p. - costituisce una norma eccezionale rispetto al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, il cui ambito di operatività deve essere confinato a quegli accadimenti che non hanno alcuna relazione con l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, e che esprimono piuttosto l'opportunità della pena o del processo in relazione a fatti già compiutamente offensivi di tale interesse. Ciò non potrebbe dirsi in relazione al fallimento, che è invece l'accadimento con il quale quale il disvalore di condotte in sé neutre - ed anzi lecite, in quanto espressive della libertà dell'imprenditore di gestire i propri beni - si cristallizza a danno dei creditori rimasti insoddisfatti.

Anche la dichiarazione di fallimento dovrà, allora, ritenersi soggetta alle regole generali di cui agli artt. 40-43 c.p., proprio in quanto elemento costitutivo del reato - e non mera condizione obiettiva di punibilità ai sensi dell'art. 44 c.p. -.

 

6. Dal punto di vista soggettivo, occorrerà allora - giusta il disposto degli artt. 42 e 43 c.p. - che "il fallimento - o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza [debba] essere dall'agente preveduto e voluto, quanto meno a titolo di dolo eventuale. Il soggetto, cioè, [dovrà] prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di credito, che costituisce l'interesse principale protetto dalla norma penale) ed accettare tale rischio" (§ 18). Accertamento, questo, al quale del resto già alludono numerose pronunce di legittimità, nella misura in cui, nella bancarotta per distrazione, non si accontentano della volontà del compimento della condotta, ma richiedono altresì la consapevolezza di sottrarre mediante la medesima il bene alla esecuzione concorsuale, ciò che a sua volta presuppone almeno una consapevolezza del possibile instaurarsi della procedura stessa; ovvero comunque richiedono la consapevolezza, in capo all'imprenditore, dell'effetto di depauperamento del patrimonio sociale a danno della compagine dei creditori prodotto dalla condotta distrattiva (§ 19).

A questo orientamento si è in effetti allineata anche la sentenza di merito impugnata, che sotto questo profilo si sottrae alle censure dei ricorrenti, dal momento che - pur muovendo da premesse in diritto errate - in definitiva ha egualmente fornito adeguata motivazione della sussistenza di un dolo almeno eventuale degli imputati rispetto al possibile verificarsi di un dissesto (e del conseguente fallimento) della società.

 

7. Diverso, invece, il discorso sul nesso causale, che ai sensi dell'art. 40 dovrà necessariamente sussistere tra la condotta distrattiva e il fallimento, posto che - come sottolinea il collegio - tale norma esprime un principio generale che non soffre di alcuna eccezione nel nostro ordinamento. Una volta escluso insomma - come fa la giurisprudenza di legittimità da oltre cinquant'anni - che il fallimento sia condizione obiettiva di punibilità, e una volta affermato che tale accadimento sia all'opposto elemento costitutivo del delitto di bancarotta, non si vede come esso possa sottrarsi alla regola secondo cui esso può essere imputato all'agente soltanto in quanto da lui cagionato mediante la condotta descritta dalla norma incriminatrice.

La S.C. conclude allora che "la bancarotta è un reato di evento, e tale evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento" (§ 25 sub c); e come tale esso evento dovrà porsi in concreto quale conseguenza della condotta rimproverata all'agente ai sensi dell'art. 40 c.p.

La Corte d'Appello ha, allora, errato nel non compiere alcun accertamento sul nesso causale tra le condotte ascritte agli imputati e il successivo dissesto che condusse in concreto, anni più tardi, alla dichiarazione di fallimento, e in particolare a non compiere una attenta verifica sulla possibile interruzione del nesso causale determinato, in ipotesi, dall'amministrazione giudiziale della società e dalla sua successiva gestione privata nel periodo immediatamente antecedente il fallimento, pure caratterizzato da atti chiaramente depauperativi.

Di qui l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente a tale profilo.

 

8. Una rondine non fa primavera, come dicevano i vecchi saggi: solo l'esame della giurisprudenza successiva potrà dirci se il clamoroso revirement qui compiuto rispetto a cinquant'anni anni e più di tradizione giurisprudenziale sarà destinato a consolidarsi.

Molti, del resto, i profili problematici aperti dalla soluzione ora adottata dalla quinta sezione, che la sentenza affronta con argomentazioni che le dimensioni di questa scheda non consentono neppure di ripercorrere, e che dovranno invece essere oggetto di più meditati commenti, che speriamo presto di poter ospitare sulla nostra Rivista: a cominciare dalle difficoltà di trasferire la logica dei principi di diritto qui enucleati alla fattispecie contigua di bancarotta documentale di cui all'art. 216 co. 1 n. 2 l. fall., sino al nodo di fondo dell'esatta individuazione dell'evento del reato (la dichiarazione di fallimento ovvero l'evento implicito del dissesto dell'impresa, che ne costituisce il presupposto?), con tutte le delicate implicazioni pratiche di tale quesito

Un dato è, però, certo: questa sentenza ha il merito di rimettere in discussione un orientamento granitico ma del tutto incoerente sul piano sistematico, nella misura in cui, da un lato, nega alla dichiarazione di fallimento natura di condizione obiettiva di punibilità - già sostenuta da Delitala e, sulla sua scia, da molta autorevole parte della dottrina contemporanea - riconoscendone la funzione di elemento costitutivo del reato; e, dall'altro, la sottrae alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva di cui agli artt. 40-43 c.p., senza giustificare in maniera plausibile il fondamento normativo di questa deroga.

Auctoritas non facit legem, verrebbe da dire ribaltando il noto adagio hobbesiano: in un ordinamento costituzionale, la legge la fa il legislatore, non l'autorità dei precedenti. E in ciò ha perfettamente ragione questa magari discutibile ma coraggiosa sentenza: se, come prevedibile e forse auspicabile, la Cassazione vorrà in futuro riaffermare l'irrilevanza dell'accertamento del nesso causale e del dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento - in quanto accadimento spesso determinato da fattori non dominati è dominabili dall'imprenditore -, lo dovrà fare ora con argomenti più solidi di quelli tralatizi, e soprattutto più attenti alla compatibilità con la logica del sistema e con i dati normativi (a cominciare da quelli del codice penale, applicabili anche alla materia speciale del diritto penale fallimentare). Dati normativi ai quali il giudice - anche quello supremo - è pur sempre soggetto ai sensi dell'art. 101 Cost.