ISSN 2039-1676


14 luglio 2015 |

La particolare tenuità dell'offesa: questioni di diritto penale sostanziale

1. La storica riforma che ha portato all'introduzione della non punibilità per particolare tenuità dell'offesa ha sollevato una molteplicità di questioni giuridiche che gli interpreti saranno chiamati a risolvere nel corso della prima applicazione dell'istituto. Senza alcuna pretesa di esaustività, si cercherà dunque di approfondire in questa sede i temi che, finora, hanno suscitato maggiore attenzione.

Un primo interrogativo riguarda la natura sostanziale o processuale della norma, anche se l'opinione dominante sembra convergere con una certa sicurezza verso la prima ipotesi. In questo senso militano sia la lettera della disposizione di cui all'art. 131 bis c.p. ("causa di esclusione della punibilità"), sia la collocazione sistematica della stessa (titolo V, libro I del codice penale), sia la genesi normativa (l'art. 131 bis c.p. è stato introdotto in attuazione dell'art. 1 della legge delega n. 67 del 28.04.2014, rubricato: "delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie"). Tale ricostruzione, inoltre, non incontra alcun tipo di ostacolo nella formula di proscioglimento prevista, dall'art. 469 c. 1 bis c.p.p., per il caso di sentenza pre-dibattimentale. Il dispositivo del "non doversi procedere" dimostra, invero, non già con la connotazione processuale della riforma, ma la diversa efficacia giuridica tra sentenze ex art. 131 bis c.p. emesse in fase pre-dibattimentale e sentenze pronunciate a seguito del dibattimento o del giudizio abbreviato. Solo queste ultime, infatti, sono munite, secondo l'art. 651 bis c.p.p., dell'efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi[1]. La natura sostanziale, infine, è stata affermata anche dalla Suprema Corte in due diverse occasioni, con il supporto della Relazione dell'Ufficio del Massimario[2].

Da tale qualificazione giuridica consegue inevitabilmente l'applicazione dell'art. 131 bis c.p. anche ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, secondo i principi generali di cui all'art. 2 c.p.  (retroattività della lex mitior).

Partendo da tale premessa, si può osservare che l'istituto si colloca a pieno titolo nel solco della concezione realistica del reato, secondo la quale l'illecito penale deve essere inteso come fatto offensivo tipico, ossia come fatto, previsto dalla legge come reato, che leda o metta in pericolo il bene giuridico tutelato. Se dunque il principio di offensività, più volte invocato in giurisprudenza, ha fin qui garantito contro l'incriminazione di fatti materiali non offensivi, la particolare tenuità dell'offesa svolge ora l'ulteriore funzione di delimitare l'area di punibilità, escludendo tutto ciò che abbia determinato un'offesa al bene giuridico particolarmente lieve. Da queste prime considerazioni si evince che la particolare tenuità dell'offesa è qualcosa di diverso rispetto alla inoffensività sostanziale, già nota al diritto penale: in quest'ultimo caso, invero, il fatto è praticamente privo di alcun significato offensivo e quindi l'esistenza del reato va radicalmente esclusa; nel caso della particolare tenuità, invece, l'offesa al bene giuridico è ravvisabile, ma la stessa, in base ai parametri normativi, deve essere considerata particolarmente lieve. Il reato quindi sussiste, ma, per questioni di opportunità, il Legislatore ha ritenuto che lo stesso non debba essere punibile. In quest'ottica appare condivisibile la rubrica dell'art. 131 bis c.p., che inquadra dogmaticamente il nuovo istituto non già come causa di esclusione dell'illiceità penale, ma come causa di non punibilità, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di disciplina. In particolare, trattandosi non di elemento costituto del reato che accentra in sé l'offensività, ma di filtro selettivo che contrassegna il limite a partire dal quale l'intervento punitivo è ritenuto opportuno, l'istituto sarà soggetto a disciplina analoga a quella prevista dall'art. 44 c.p., quasi fosse una sorta di generale condizione obiettiva di punibilità. Più nel dettaglio, dovrà ritenersi al riguardo irrilevante la sussistenza dell'elemento soggettivo, in quanto il dolo non deve coprire necessariamente tutti gli elementi indicati dalle disposizioni incriminatrici, ma solo quelli che accentrano in sé l'offensività. Se dunque è ininfluente l'elemento soggettivo sui dati fenomenici che radicano la particolare tenuità del fatto, specularmente deve ritenersi inapplicabile all'istituto anche l'art. 59 c. 4 c.p. sull'erronea supposizione di tale causa di esclusione della punibilità. Come chiarito da autorevole dottrina, infatti, malgrado l'ambiguo testo di legge, l'art. 59 c. 4 c.p. si riferisce alle sole scriminanti e non anche alle cause di esclusione della sola pena, poiché la loro assenza non costituisce elemento negativo del fatto di reato e la loro erronea supposizione non esclude dunque il dolo[3]. Da quanto esposto discende che chi, ad es., commette un furto non potrà invocare a sua difesa l'erronea supposizione che il bene sottratto fosse di valore economico scarso. Potrà invece sostenere (ove venga ritenuto attendibile) di aver ritenuto per errore che il bene asportato non avesse alcun valore economico (ad es. il furto di un chiodo arrugginito) perché in quest'ultimo caso farebbe valere non già la non punibilità del reato per particolare tenuità, ma l'inoffensività del fatto e dunque l'insussistenza del reato.

Allo stesso modo, la particolare tenuità dell'offesa dovrà ritenersi inestensibile al concorrente nel reato, attenendo a dati che non escludono la sussistenza dell'illecito penale, ma che riguardano esclusivamente la punibilità, con connotati marcatamente soggettivi, attesi i presupposti di applicazione della norma. E' dunque ben possibile che, in caso di concorso di persone nello stesso fatto, solo alcuni dei correi possano beneficiare della non punibilità per particolare tenuità dell'offesa, mentre altri possano essere considerati punibili, ad es., alla luce delle pregresse condanne riportate (cfr. art. 131 bis c. 3 c.p.). A diverse conclusioni si sarebbe invece dovuti pervenire qualora la disposizione fosse stata intesa quale causa di esclusione dell'illiceità penale, in quanto le conseguenze sarebbero state l'insussistenza del fatto e, quindi, l'impossibilità per tutti gli agenti di concorrervi.       

Analogamente, l'interpretazione come causa di esclusione della punibilità lascia fermi gli obblighi civilistici di restituzione e di risarcimento del danno (anche ai sensi dell'art. 2059 c.c.) avendo come presupposto la consumazione di un reato che, per ragioni di opportunità, il Legislatore ha ritenuto non punibile.

Da quanto esposto consegue altresì che potrà astrattamente configurarsi la ricettazione del bene provento di un furto non punibile ai sensi dell'art. 131 bis c.p. e potrà inoltre applicarsi la sanzione penale al ricettatore ove lo stesso non soddisfi i requisiti soggettivi di cui al terzo comma della stessa disposizione.

Infine, sarà ipotizzabile la legittima difesa contro il fatto tenue non punibile, trattandosi comunque di condotta antigiuridica che legittima una reazione immediata volta a tutelare il bene aggredito, purché ovviamente sussistano i requisiti di cui all'art. 52 c.p., non ultimo quello della proporzione tra difesa e offesa.

 

2. Tanto premesso, si deve rilevare che, in materia di particolare tenuità del fatto, la questione di diritto sostanziale che più sta animando il dibattito dottrinale e giurisprudenziale è la possibilità di applicazione dell'istituto in caso di reati che prevedono soglie di punibilità specifiche (si pensi, a titolo esemplificativo, ai delitti tributari o all'art. 316 ter c.p.).

Sul punto l'opinione, allo stato, prevalente è nel senso di applicare l'art. 131 bis c.p. anche in caso di (lieve) superamento della soglia quantitativa espressamente prevista dal Legislatore nelle singole figure di reato (ad es. indebita percezione di erogazioni pubbliche per euro 4.100). Al riguardo si osserva che l'art. 131 bis c.p. presuppone la consumazione di un reato e che, al di sotto della soglia di punibilità, non vi è illecito penale, sicché l'art. 131 bis c.p., per avere pratica utilità anche in questi ambiti, deve trovare applicazione necessariamente sopra la soglia di rilievo penale. Altrimenti opinando, si aggiunge, si correrebbe il rischio di disparità di trattamento tra casi sostanzialmente analoghi che differiscono solo per poche decine di euro (si pensi, ad es., ad una indebita erogazione per euro 3.980, che costituisce mero illecito amministrativo, e ad una stessa ipotesi concernente euro 4.100, punibile ai sensi dell'art. 316 ter c.p.). Infine, i sostenitori della tesi ritengono che l'evidente ratio deflattiva dell'istituto di cui all'art. 131 bis c.p. dovrebbe indurre ad interpretazioni estensive che consentano di escludere il più possibile la punibilità e, quindi di ridurre il carico giudiziario, per fatti sostanzialmente bagatellari.

Tale interpretazione, sostenuta di recente anche dalla Suprema Corte[4], per quanto appaia suggestiva, si espone, tuttavia, a dei rilievi di natura teorica. Sul fronte opposto si può infatti rilevare che l'art. 131 bis c.p. non fa riferimento alla particolare tenuità "del reato", ma alla particolare tenuità "dell'offesa", sicché non risulta in realtà dirimente l'argomento in base al quale sotto soglia non vi sarebbe reato e quindi non sarebbe astrattamente configurabile la particolare tenuità. Si è visto, infatti, che l'istituto deve essere inquadrato dogmaticamente come causa di non punibilità in senso stretto, ossia come scelta politica del Legislatore di non punire penalmente fatti comunque illeciti ed offensivi. L'art. 131 bis c.p. prevede, dunque, una generale soglia di offensività che segna il limite al di sotto del quale l'intervento penale si reputa non opportuno. In quest'ottica le soglie quantitative e qualitative di punibilità previste dal Legislatore di volta in volta per le singole ipotesi di reato non sono altro che una concretizzazione della norma generale di cui all'art. 131 bis c.p. In altri termini, la riforma troverebbe applicazione solo nei casi in cui il Legislatore non sia già intervenuto con una disciplina di settore ad individuare il limite al di sotto del quale non è opportuno applicare sanzioni penali. Altrimenti opinando, del resto, l'interprete sarebbe abilitato a sostituirsi alle scelte di politica criminale del Legislatore, ritenendo non punibili condotte che comunque superano la soglia di rilievo penale dettata con norma ad hoc. Né pare che si possa invocare in senso contrario il "rischio di disparità di trattamento per poche decine di euro" perché tale pericolo consegue necessariamente all'individuazione di limiti numerici che, da un lato, eliminano le incertezze applicative, ma, dall'altro, portano all'applicazione della sanzione penale anche per superamenti del limite di scarso importo. Ciò, del resto, trova una giustificazione nell'inquadramento della soglia quantitativa quale limite massimo al di sotto del quale il principio di extrema ratio induce a non applicare sanzioni penali. Superato tale limite, invece, l'offesa assume una consistenza tale da richiedere l'intervento delle sanzioni penali. Tale interpretazione, inoltre, reca il vantaggio di limitare la discrezionalità degli interpreti, evitando l'applicazione di concetti indeterminati quantomeno nei casi in cui il Legislatore è intervenuto espressamente con norme puntuali. E', infatti, l'estrema ampiezza dei presupposti per la non punibilità (e non la previsione di soglie puntuali) a creare il pericolo di incertezze applicative e di disparità di trattamento. Sembra quindi doveroso seguire linee esegetiche costituzionalmente orientate che riducano, nei limiti del possibile, la portata della nuova clausola generale, rimettendo le valutazioni deflattive ad una più dettagliata (ed auspicata) scelta del Legislatore di depenalizzazione delle singole ipotesi di reato ormai obsolete o non rispondenti al canone dell'extrema ratio.

Infine si deve rilevare che la tesi dell'applicazione dell'art. 131 bis c.p. "sopra soglia" sembra dar luogo ad inevitabili paradossi interpretativi. Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla guida in stato di ebbrezza. Al riguardo è noto che il Legislatore ha graduato la risposta sanzionatoria a seconda del tasso alcolemico riscontrato, prevedendo tre autonome ipotesi di illecito, la prima di rilievo amministrativo (lett. a) e le altre due di natura penale (lett. b e c). Orbene, ove si ritenga di applicare l'art. 131 bis c.p. anche "sopra soglia", si arriverebbe al paradosso di punire i casi di consistente superamento del tasso previsto dalla lettera b) (ad es. 1.3 grammi per litro), che siano pur sempre inferiori al limite ex art. 186 lett. c), e di dichiarare la non punibilità per le più gravi ipotesi di cui alla lettera c), ove il superamento della soglia sia particolarmente lieve (ad es. 1,6 grammi per litro). Aderendo invece all'opposta ricostruzione, si dovrebbe ritenere che, in materia di guida in stato di ebbrezza, il Legislatore è già intervenuto indicando in modo espresso la soglia di particolare tenuità dell'offesa (ipotesi di cui alla lett. a), in relazione alla quale l'applicazione di sanzioni penali, pur astrattamente possibile, si reputa non opportuna, con la conseguenza che l'art. 131 bis c.p., inteso quale norma residuale, non dovrebbe trovare applicazione nei casi in esame. Del resto, una diversa soluzione finirebbe col consentire all'interprete di superare le valutazioni di politica criminale del Legislatore e di considerare non punibili fatti che invece, per legge, superano la soglia di rilevanza penale.      

 

3. Per quanto riguarda i rapporti tra la particolare tenuità dell'offesa ed il concorso di persone nel reato, si è già visto che la sussistenza di presupposti di natura soggettiva e la qualificazione dell'istituto come causa di non punibilità in senso stretto hanno come precipitato l'inestensibilità del beneficio al concorrente. Si può dunque profilare la eventualità che, per uno stesso fatto di reato, solo alcuni dei concorrenti risultino non punibili ai sensi dell'art. 131 bis c.p.

Ciò posto, appare ora opportuno approfondire i rapporti tra la particolare tenuità dell'offesa e la circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p. Al riguardo si deve rilevare che le due norme sembrano muoversi su piani logici diversi, in quanto altro è il contributo di minima importanza ad un reato che può essere anche di per sé molto offensivo, altro è la consumazione di un'ipotesi di reato che arrechi un'offesa lieve al bene giuridico. Risulta dunque perfettamente coerente la scelta legislativa di prevedere, in un caso, una mera attenuazione sanzionatoria e, nell'altro, la totale assenza di una reazione punitiva.

 

4. Per quanto concerne i riflessi della riforma sui singoli delitti, al di là delle specificità relative ad ogni singolo settore, riveste senza dubbio carattere generale il tema dell'applicazione della norma ai reati plurioffensivi, quale, ad es., il delitto di abuso d'ufficio. Al riguardo, appare pregiudiziale l'individuazione del bene giuridico tutelato da tale fattispecie, in quanto passaggio logico indispensabile per poter valutare la particolare tenuità dell'offesa.

Sul punto in giurisprudenza si ravvisano tre diversi orientamenti. Secondo una prima tesi, si tratterebbe di reato che tutela esclusivamente l'imparzialità e il buon andamento della P.A.[5], con la conseguenza che il privato andrebbe inteso esclusivamente come soggetto civilmente danneggiato. La giurisprudenza prevalente opta invece per la natura plurioffensiva del delitto, individuando come oggetto di tutela anche l'interesse del privato a non essere turbato nei propri diritti[6]. La tesi preferibile, infine, distingue tra abuso di danno, avente natura plurioffensiva[7] e abuso di vantaggio, avente carattere monoffensivo[8].

Ciò posto ci si deve domandare se, muovendo da una prospettiva di plurioffensività, ai fini della sussistenza del reato in esame sia necessaria l'offesa cumulativa ad entrambi i beni giuridici tutelati o se sia sufficiente la lesione anche di uno solo di essi. Qualora infatti si opti per una "plurioffensività cumulativa" si dovrà concludere che il reato non sia punibile nei casi in cui anche uno solo dei beni abbia subito un'offesa particolarmente tenue. Se invece si segue la tesi giurisprudenziale[9] della "plurioffensività alternativa" si potrà sostenere, ad esempio, che, pur in presenza di un danno del privato di scarsa entità, l'abuso d'ufficio sarà comunque punibile ove l'offesa all'imparzialità della Pubblica Amministrazione assuma caratteri apprezzabili. Tali considerazioni appaiono decisive in quanto se è possibile immaginare casi di danni lievi ai privati, ben più arduo è ipotizzare abusi d'ufficio in cui l'offesa all'imparzialità della PA si riveli particolarmente tenue. La natura stessa del reato fa sì infatti che la lesione al canone dell'imparzialità assuma quasi sempre caratteri significativi.

 

5. Questi, dunque, i principali temi di dibattito emersi finora con riguardo ad una disciplina la cui indeterminatezza non può che dar luogo ad oscillazioni valutative senz'altro incoerenti con un ordinamento giuridico ispirato al principio di legalità.

 

 


[1] Rel. Massimario n. III/02/2015 del 23.04.2015.

[2] Cass., sez. III, 8 aprile 2015 n. 15449, Mazzarotto in www.cortedicassazione - Recentissime dalla Corte. Novità in evidenza. Giurisprudenza penale; Sez. III, ord. N. 21014 del 20.05.2015, non massimata; Rel. Massimario n. III/02/2015 del 23.04.2015.

[3] Mantovani, Diritto penale. Parte generale. Padova, 2007, p. 361.

[4] Sez. III, ord. n. 21014 del 20.05.2015, non massimata.

[5] Ad es. Cass., sez. III, 14.4.2010, n. 18811.

[6] Ad es. Cass., Sez. VI, 18.1.2011, n. 1231.

[7] Cass., Sez. VI, 10.4.2008, n. 17642.

[8] Cass., 23.9.2003, n. 39751.

[9] Cass., Sez. VI, 15.4.2008, n. 20326, in materia di peculato.