ISSN 2039-1676


25 ottobre 2016 |

Applicabilità delle misure di prevenzione ai soggetti detenuti e condannati a pene "di lunga durata": un provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere

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1. Col provvedimento del 13 aprile 2016, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (seconda sezione penale) ha affrontato a breve distanza dalla sentenza della Corte costituzionale n. 291/2013 il delicato problema della applicabilità delle misure di prevenzione a soggetti detenuti e condannati a pene di «lunga durata», dando concreta applicazione al principio delineato dalla Consulta ed evidenziando alcune questioni rimaste inevase e riscontrabili sul piano concreto.

Dubbi di compatibilità fra l’istituto e la condizione dei detenuti di lungo periodo si erano posti infatti al Tribunale campano che aveva sollevato la questione alla Corte, dubbi che riguardavano soprattutto l’ipotesi del condannato alla pena dell’ergastolo o ad altra pena detentiva temporanea di  «lunga durata» per il quale fosse richiesta, prima dell’espiazione della pena, l’applicazione di una misura che ha come presupposto la valutazione della sua pericolosità. Da qui il problema se tale pericolosità deve essere accertata prima che la pena sia scontata (e cioè quando ne è fatta richiesta) o dopo.

 

2. Nel caso di specie, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si era occupato della richiesta di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale e di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza avanzata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ai sensi dell’art. 2, l. 575/1965. A tal proposito, il collegio aveva preventivamente vagliato la possibilità di inquadrare il soggetto proposto dalla Procura all’applicazione della misura in una delle categorie di cui all’art. 1 della medesima legge. Come è noto, infatti, l’art. 1 della legge n. 1 del 1965 stabilisce che l’organo proponendo possa richiedere l’applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza «agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». La legge individua pertanto come presupposto applicativo della misura di prevenzione in questione una specifica pericolosità del soggetto proposto che può ricostruirsi anche in via indiziaria e che si estrinseca appunto nella sua contiguità (o inserimento) con l’associazione di tipo mafioso. Nella fattispecie, il Tribunale non aveva avuto dubbi circa la stabile collocazione del soggetto de quo nel clan camorristico dei Casalesi, ricavando, in particolare, da diversi provvedimenti giudiziali l’esistenza e l’operatività dell’associazione, ma anche la posizione del proposto al suo interno, giungendo così a un suo inquadramento nei termini di cui all’art. 1, l. n. 575 del 1965 ed evidenziandone la pericolosità sociale.

Ma al giudice del provvedimento in esame non era sfuggito che l’accertamento della pericolosità qualificata al momento della richiesta della D.D.A., pur integrando una condizione necessaria per l’applicabilità della misura, non è al contempo condizione sufficiente. In particolare, il Tribunale si era domandato se la richiesta di applicazione di tale misura potesse considerarsi compatibile con la condizione del detenuto (in particolare del detenuto di lungo periodo) e, poiché la questione risultava rilevante ai fini del procedimento e i profili di incostituzionalità non manifestamente infondati, ne aveva investito il giudice delle leggi.

 

4. La questione sollevata dal giudice a quo aveva come punto centrale una precisa circostanza. Quando uno stesso soggetto si trovi a essere contemporaneamente condannato a una pena detentiva e sottoposto a misura di prevenzione, l’esecuzione della seconda è sospesa fintantoché non sia stata espiata la pena. Solo a seguito dell’espiazione, la misura già disposta nei confronti dell’ormai ex detenuto e rimasta sospesa sino ad allora dovrebbe essere eseguita. Questo era fino al 2008 l’orientamento della Corte di Cassazione, che prevedeva la possibilità di applicare sempre, al momento della richiesta della procura, la misura di prevenzione nei confronti del detenuto indiziato, anche se condannato all’ergastolo (Cass. SS.UU., sentt. n. 6/1993 e 10281/2008, richiamata nel provvedimento in esame). La Suprema Corte riteneva infatti che l’espiazione della pena non garantisca ipso facto il venir meno della pericolosità sociale dell’ex detenuto, dal momento che il trattamento sanzionatorio potrebbe non sortire l’effetto rieducativo sperato e che, comunque, il carcere potrebbe non aver interrotto il rapporto con l’associazione mafiosa. Nell’interesse collettivo della prevenzione, aveva pertanto ammesso l’applicabilità ai detenuti di lungo periodo della misura di sorveglianza speciale, anche laddove l’accertamento di pericolosità era avvenuto a distanza di lungo tempo rispetto all’esecuzione della misura, sostenendo che il presupposto non poteva dirsi superato dall’espiazione della pena. A tal proposito, la giurisprudenza – come ricorda il Tribunale di S. M. Capua Vetere – ammetteva unicamente la rivalutazione della pericolosità, in sede di applicazione della misura, su istanza di parte.

 

5. Con la sentenza n. 291/2013 (pubblicata in questa Rivista, 9 dicembre 2013, con nota di T. Trinchera, Misure personali di prevenzione: nel caso di sospensione dell'esecuzione per lo stato di detenzione dell'interessato, la pericolosità va riverificata a sospensione esaurita), la Corte costituzionale ha però risolto la questione in termini diversi, dichiarando illegittime le norme che consentono l’applicazione delle misure di prevenzione ai «detenuti di lungo periodo» nella parte in cui non prevedono la rivalutazione ex officio della pericolosità del soggetto indiziato al momento dell’esecuzione della misura.

La questione è – per l’appunto – la stessa: se l’imputato è stato condannato a una pena detentiva di «lunga durata», come è possibile applicargli una misura di sorveglianza speciale, fondata su un provvedimento che ne accerta la pericolosità disposto anche vent’anni prima?

Nell’affrontare la questione, la Corte costituzionale ha dapprima ammesso la compatibilità in astratto fra pena detentiva di lunga durata e applicabilità delle misure di prevenzione. Ma, ragionando sul dato di fatto che, in caso di detenzione di lunga durata, il momento dichiarativo della pericolosità dell’indiziato e applicativo della misura precede di diversi anni quello della concreta esecuzione, ha stabilito il potere-dovere «dell’organo procedente» di rivalutare proprio in questo secondo momento la persistenza del presupposto per l’applicazione della misura. Da un lato, la valutazione della pericolosità sociale del sottoposto alla misura – evidenzia il Tribunale di S. M. Capua Vetere sulla scorta della decisione del Giudice costituzionale – non può che riferirsi al momento in cui la misura stessa è richiesta (e disposta). Dall’altro, il requisito, stante il lungo lasso di tempo, deve essere necessariamente riverificato al termine della pena e prima dell’esecuzione della misura: il ragionamento della Corte si fonda quindi su una necessaria distinzione fra momento applicativo, precedente all’espiazione della pena di lunga durata, e momento esecutivo, di gran lunga successivo e che richiede pertanto una nuova verifica.

 

6. A tal proposito, il Tribunale campano richiama l’ordinanza di rimessione e la decisione della Corte costituzionale che, nel pervenire alla conclusione anzidetta, muove da un confronto fra misure di prevenzione e misure di sicurezza. Pur trattandosi di istituti strutturalmente diversi, la Consulta – su impulso del giudice a quo – sottolinea come la loro comune finalità, consistente nella prevenzione di reati attraverso la limitazione della libertà personale e il reinserimento di soggetti socialmente pericolosi, imponga di applicare alle misure di prevenzione un modello analogo a quello previsto per le misure di sicurezza, «l’unico rispondente ai canoni dell’eguaglianza e della ragionevolezza». Per le misure di sicurezza, l’art. 679 c.p.p. prevede infatti una doppia valutazione della pericolosità del sottoposto, prima da parte del giudice della cognizione, poi del magistrato di sorveglianza, in modo tale da garantire l’attualità della pericolosità del soggetto. È proprio questo, a ben vedere, l’effetto sortito dalla pronuncia della Corte costituzionale del 2013, quello cioè di «avvicinare» i due istituti, garantendo a entrambi il doppio momento valutativo della pericolosità, pur con le dovute differenze proprie delle due fattispecie (ad esempio, per le misure di prevenzione la legge non prevede l’intervento della magistratura di sorveglianza).

 

7. Fin qui l’ordinanza del Tribunale di S. M. Capua Vetere ribadisce quanto stabilito dal giudice delle leggi. Ma il provvedimento in esame solleva anche una serie di problemi nuovi derivanti dalla concreta applicazione del principio (astratto) delineato dalla sent. n. 291/2013 della Corte costituzionale. Un primo dubbio applicativo riguarda proprio la doppia valutazione sulla pericolosità attuale del soggetto indiziato a cui il giudice della prevenzione è chiamato dopo la pronuncia della Consulta. Il principio della revisionabilità d’ufficio della pericolosità sociale introdotto dal giudice delle leggi impone infatti ai giudici comuni di pronunciarsi due volte sul requisito – al momento della proposta e all’esito dell’espiazione di una pena di lunga durata. Tutto questo, a discapito dell’economia processuale. Ma soprattutto – si legge nel provvedimento in esame – pare inutile e illogico applicare la misura di prevenzione richiesta dalla Procura valutando la sussistenza della pericolosità al momento della proposta, atteso che necessariamente se ne dovrà valutare la persistenza in un secondo momento e che, quindi, la prima pronuncia è sempre inutiliter data. Questo appare tanto più illogico per i casi di detenuti di lunga durata, quando cioè fra la valutazione fatta a seguito della proposta della procura e quella da fare ex officio prima dell’esecuzione della misura restino da scontare diversi anni di reclusione. Più logico, oltreché conforme al principio di economia processuale, sarebbe invece un unico giudizio sulla pericolosità del soggetto da emettere all’esito o in prossimità del fine pena. Una valutazione resa quando l’ammontare della pena residua è ancora considerevole (o addirittura il fine pena è del tutto eventuale e incerto: è il caso dell’ergastolo) risulterebbe inoltre totalmente astratta e diventerebbe sempre inattuale rispetto al momento, di gran lunga successivo, dell’esecuzione.

 

8. Un secondo problema applicativo del principio stabilito dalla Corte costituzionale riguarda la trasposizione nelle misure di prevenzione dei principii applicabili alle misure di sicurezza.

Introducendo il principio della revisionabilità d’ufficio, la pronuncia della Corte costituzionale ha creato inevitabilmente alcune lacune in merito alle concrete modalità attuative di quel principio – essendo peraltro compito del legislatore colmarle. In particolare, la Consulta si è limitata a individuare nello stesso giudice che ha applicato la misura al tempo della richiesta della procura l’autorità competente a rivalutare d’ufficio la persistenza dei presupposti. Ne deriva un primo problema circa gli strumenti di cui il giudice della prevenzione dovrebbe essere (ma non è) dotato per far fronte al «riesame». Anzitutto, il giudice dovrebbe poter esercitare un controllo sulla durata e le eventuali modifiche della pena in esecuzione nei confronti del soggetto sottoponendo alla misura richiesta. Ma, come è noto, il giudice della prevenzione non può conoscere dell’esecuzione della pena: come può pertanto esprimere una valutazione sulla persistente pericolosità del soggetto a ridosso del fine pena se, innanzitutto, non può conoscere il momento effettivo della scarcerazione del detenuto?

La lacuna sembrerebbe superabile, prima facie, richiamando per analogia la disciplina delle misure di sicurezza. Tuttavia, in quel caso il procedimento di rivalutazione della pericolosità in fase esecutiva ha caratteristiche particolari modellate sulla natura dell’istituto (per esempio, l’impulso per la rivalutazione dei presupposti in fase esecutiva è affidato al p.m.). È perciò difficile ravvisare elementi di fattispecie comuni, tali da estendere una disciplina di settore (e quindi speciale) all’istituto (anch’esso specifico) delle misure di prevenzione. Si pensi al procedimento di esecuzione delle misure di sicurezza: organo competente a sovraintendere l’intera fase esecutiva è la magistratura di sorveglianza, la quale si occupa contemporaneamente dell’esecuzione della pena. In sostanza si tratta di uno stesso organo che conosce direttamente ogni vicenda relativa l’esecuzione, comprese le modalità di svolgimento, la durata e le eventuali modifiche del trattamento sanzionatorio, ma anche l’evoluzione della persona del detenuto, e che, perciò, dispone di tutti gli strumenti e gli elementi necessari per pronunciarsi sulla pericolosità del detenuto e sull’applicabilità della misura di sicurezza (che, come è noto, è posposta all’espiazione della pena). Per quanto concerne le misure di prevenzione, invece, l’organo competente per la loro esecuzione non è lo stesso tribunale che le ha disposte e che, ora, ha il potere-dovere di revisionarne i presupposti, ma è l’autorità di pubblica sicurezza: solo questa, assieme ai direttori delle carceri, conosce il momento di scarcerazione del detenuto. Dovrebbe gravare su questi soggetti, allora, l’onere (o l’obbligo) di informare il tribunale competente per la rivalutazione sull’avvicinarsi del fine pena, garantendo così effettivamente il diritto dell’indiziato alla rivalutazione. Tuttavia, questa interpretazione finirebbe per riconoscere all’autorità di p.s. potere e obblighi in assenza di norme legislative attributive.

 

9. A questi problemi si aggiunge che la sentenza della Corte costituzionale nulla dispone circa il momento in cui la seconda valutazione di pericolosità del soggetto debba avvenire: in particolare, se a seguito della scarcerazione o a ridosso della completa espiazione della pena.

In sintesi, conclude il Tribunale, la sentenza additiva del 2013 avrebbe introdotto un principio che di fatto non può trovare concreta applicazione. In particolare, il Collegio denuncia un «evidente paradosso» derivante dalla sent. n. 291/2013: «se oggi si applica la misura di prevenzione di sorveglianza speciale ad un detenuto cui resta da scontare una pena residua elevata o ad un ergastolano, si rischia di andare contro gli stessi principi che la Corte costituzionale vuole salvaguardare in quanto la misura, allo stato, in assenza di norme attuative, sarebbe automaticamente posta in esecuzione al momento della scarcerazione». Quei principii a cui il Tribunale si riferisce sono infatti gli elementi garantistici dei diritti dell’indiziato che la Corte, con l’introduzione della doppia valutazione d’ufficio, vuole assicurare al detenuto ma che, in assenza di organi designati ad azionare la procedura e di norme che stabiliscano il momento esatto in cui la rivalutazione deve effettuarsi, verrebbero vanificati. Più che di «paradosso» – a mio avviso – può dunque parlarsi di scarsa efficacia di una pronuncia che individua un principio astratto allo stato dei fatti difficilmente applicabile.

10. Ma il provvedimento del Tribunale di S. M. Capuavetere si distingue anche per il suo dispositivo. Alla luce dell’argomentazione svolta, il Collegio non si limita ad auspicare una evoluzione della normativa, adeguandosi alla pronuncia della Consulta. Al contrario, il Giudice della prevenzione ritiene di dovere dichiarare l’inammissibilità della proposta di applicazione avanzata dalla D.D.A. proprio perché «una pronuncia applicativa (...) contrasterebbe, oggi, anche con i principi espressi dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo», in particolare con gli artt. 5 e 6, ma anche con l’art. 111 Cost. che garantisce il diritto a un giusto processo. Tali diritti sarebbero, secondo il Tribunale, sacrificati dall’assenza di garanzie per il detenuto di ottenere una rivalutazione rapida ed effettiva, a causa delle lacune normativa.

Pare evidente, a questo punto, che la Corte costituzionale – più che emettere una decisione «paradossale» – ha enunciato un principio, la cui attuazione spetta ora al legislatore, secondo la sua discrezionalità politica. Ma altrettanto evidente appare come, in tema di diritti fondamentali, l’azione delle giurisdizioni comuni diventi sempre più fondamentale in una prospettiva di comunicazione e integrazione, finalizzate a garantire l’effettività dei diritti stessi.