ISSN 2039-1676


08 dicembre 2010 |

Guida in stato di ebbrezza e divieto di applicazione retroattiva della confisca del veicolo (Corte cost. n. 196/2010)

Nota a Corte cost., sent. 4 giugno 2010, n. 196 (dichiarazione di illegittimità  costituzionale dell'art. 186, co. 2, lett. c) c. strad., nella versione antecedente alla l. n. 120/2010)

Prima di una recente riforma, attuata con l. 29 luglio 2010, n. 120, l’art. 186, co. 2 lett. c) c. strad. stabiliva che, in caso di condanna o di patteggiamento per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, dovesse essere sempre disposta la confisca del veicolo “ai sensi dell’art. 240, comma, del codice penale”, anche laddove fosse stata concessa la sospensione condizionale della pena, fatta salva l’ipotesi di appartenenza a persona estranea al reato.
 
Con la sentenza qui annotata, di poco precedente alla suddetta riforma, accogliendo una questione sollevata dal g.i.p. di Lecce la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta disposizione, per contrasto con l’art. 117, co. 1 Cost., limitatamente alla parte in cui si riferiva all’art. 240, co. 2 c.p.
 
Quel riferimento – oggi non più presente nel testo della richiamata disposizione, come riformulato dalla l. n. 120/2010 – consentiva secondo la Corte di applicare la confisca del veicolo a fatti che al tempo della loro commissione costituivano reato, ma per i quali la legge non prevedeva quella misura, introdotta con il ‘pacchetto sicurezza’ del 2008. In tal senso, d’altra parte, era l’orientamento consolidato della giurisprudenza, anche di legittimità (cfr. da ultimo Cass. Sez. IV, 19 gennaio 2010, Raggiunti, Ced Cassazione, m. 246801).
 
Espungendo dalla disposizione in discorso il richiamo all’art. 240, co. 2 c.p., la Corte costituzionale ha inteso “recidere il legame” tra la confisca del veicolo ex art. 186, co. 2, lett. c c. strad. “e la disciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali contenuta nel codice penale” e, in particolare, l’art. 200 c.p. – richiamato per le misure di sicurezza patrimoniali dall’art. 236, co. 2 c.p. – che, secondo un’interpretazione indirettamente confermata dalla sentenza annotata, consentirebbe l’applicazione retroattiva di tali ultime misure.
 
La ragione della pronuncia è da individuare nella ricostruita natura punitiva, e non preventiva, della confisca del veicolo, che alla luce di un’interpretazione conforme al principio di irretroattività di cui all’art. 7 CEDU e, quindi, all’art. 117, co. 1 Cost., comporta la sottoposizione di quella misura al regime di efficacia temporale proprio delle pene, e non già delle misure di sicurezza: il veicolo del conducente in stato di ebbrezza – osserva infatti la sentenza annotata –  può essere confiscato anche quando risulti incidentato e inutilizzabile e, dunque, privo di attuale “pericolosità oggettiva”; in ogni caso, poi, l’operatività della confisca non impedisce l’utilizzo di altri mezzi da parte del condannato e non neutralizza, dunque, il rischio di ‘recidiva’.
 
La Corte è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità recuperando la propria precedente giurisprudenza sulla diversa natura giuridica con cui può presentarsi nell’ordinamento la confisca: natura di pena, di misura di sicurezza, di misura amministrativa. Su questa giurisprudenza la Corte ha innestato l’elaborazione della Corte europea dei diritti dell’uomo con riferimento al concetto sostanziale e allargato di pena, per cui come tale è da intendersi non soltanto la sanzione formalmente penale, ma ogni misura a carattere punitivo (ogni “pena”). È stato quindi proprio l’art. 117 Cost., integrato dall’art. 7 Cedu, a fungere come si è detto da parametro di costituzionalità, secondo le coordinate tracciate per la prima volta dalle note sentenze n. 348 e 349 del 2007.
 
 
La polimorfia che caratterizza l’istituto della confisca – misura che, quando si connota in senso meramente afflittivo, deve classificarsi tra le “pene” ed essere regolata dal relativo regime – spiega l’utilizzo, da parte della Consulta, della tecnica dell’accoglimento parziale, che ha riguardato  una disposizione (l’art. 186, co. 2 lett. c) c. strad.) diversa da quelle indicate dal giudice remittente (gli artt. 200 e 236 c.p.).
 
Le disposizioni da ultimo richiamate, come è noto, riguardano misure di sicurezza in senso proprio, nello specifico le misure di sicurezza patrimoniali, che comprendono la confisca ex art. 240 c.p. Esse, dunque, non rilevano con riferimento alla confisca dell’autoveicolo prevista dall’art. 186, d. lgs. n. 285/1992, che configura una “pena” la cui applicazione retroattiva dipendeva proprio e unicamente dall’illegittimo riferimento dell’art. 186 all’art. 240 c.p.
 
La sentenza, oltre che per il dispositivo e la ratio decidendi, è interessante per almeno tre motivi.
 
1. In primo luogo, la Corte costituzionale si sofferma su quanto aveva semplicemente accennato in una precedente ordinanza in materia di confisca “urbanistica” (ord. n. 239/2009), e cioè sull’obbligo per il giudice remittente, che intenda verificare la possibilità di interpretare la disposizione interna da applicare in conformità alla Cedu, di procedere in tale verifica tenendo conto del diritto vivente eventualmente formatosi, che nel caso specifico aveva ritenuto il richiamo dell’art. 186 del Codice della strada all’art. 240 c.p. funzionale ad estendere alla confisca dell’autoveicolo la regola dettata dall’art. 200 c.p.
 
Come noto, stando alle già ricordate sentenze n. 348 e 349 del 2007, il giudice al quale si profili il contrasto della disposizione interna da applicare con l’art. 117 Cost., integrato da una o più norme della Cedu, deve prima di tutto cercare di risolvere il problema in via interpretativa, entro i limiti in cui ciò sia permesso dal testo della disposizione interna. Soltanto quando ciò non sia possibile egli deve rimettersi alla Corte costituzionale, pena il rigetto della questione di legittimità proposta. Nella sentenza in commento, la Corte precisa che il giudice deve vagliare i margini di interpretazione conforme considerando il diritto vivente formatosi sulla disposizione da applicare: infatti, soltanto quando l’adeguamento interpretativo risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione interna, la Corte può essere chiamata a pronunciarsi sulla asserita incostituzionalità di tale disposizione. Nel caso di specie, l’ostacolo ad un’intepretazione conforme da parte del giudice a quo era costituito, per l’appunto, non solo dal richiamo testuale all’art. 240 c.p., ma anche dal diritto vivente che – come siu è detto – si era consolidato in una direzione incompatibile con gli obblighi discendenti dall’art. 7 CEDU.
 
2. La Corte, poi, distinguendo tra “pene” e misure di sicurezza, conferma indirettamente per le seconde la validità del principio del tempus regit actum. Nel farlo, la Corte sembra accogliere il principio nella sua versione forte, che consente la retroattività non solo delle modalità esecutive della misura di sicurezza, ma anche della nuova misura di sicurezza, cioè l’applicabilità di una misura di sicurezza non prevista dalla legge del tempo in cui il soggetto ha agito. In tale prospettiva, infatti, la funzione propria delle misure di sicurezza di neutralizzare la pericolosità sociale del reo consentirebbe l’applicazione di una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti che al momento della loro commissione erano sanzionati con la sola pena o con misure di sicurezza di minore gravità. La Corte dunque sembra smentire l’autorevole orientamento dottrinale, secondo il quale l’art. 200 c.p. consentirebbe un’applicazione retroattiva, in malam partem, delle sole modalità esecutive di una misura di sicurezza già prevista al momento della commissione del fatto.
 
3. Infine, la Corte mostra di fare propria la nozione “sostanziale” di pena elaborata dalla Corte europea, quando afferma che nell’art. 25, co. 2, Cost. si può leggere il divieto di retroattività della misura comunque punitiva, non della sola sanzione formalmente penale. Pare opportuno notare che la Corte europea, per riconoscere nella misura nazionale una pena così definita, richiede che la misura abbia uno scopo punitivo e dissuasivo. Questo scopo è ravvisato sulla base non tanto dei contenuti della misura nazionale, quanto del legame intercorrente tra la misura nazionale e la condanna per un’infrazione, ciò che ha portato a considerare come sanzione punitiva la misura di sicurezza personale inflitta al soggetto imputabile.