ISSN 2039-1676


18 marzo 2013 |

La sentenza del Tribunale di Roma nella vicenda degli appalti per il G8 e le "grandi opere": una ipotesi ante litteram di corruzione per l'esercizio della funzione?

Trib. di Roma, 31 ottobre 2012, Pres. ed Est. De Crescenzo, Imp. Balducci e altri

 

1. Con la sentenza qui pubblicata, la Prima Sezione del Tribunale di Roma ha riconosciuto - nel quadro normativo anteriore alla legge n. 190/2012 - la penale responsabilità e condannato per il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) i funzionari del Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, A. Balducci e F. De Santis, nonché gli imprenditori, R. Fusi e F. M. De Vito Piscicelli, in relazione alla nota vicenda della c.d. "cricca" del G8 e alle presunte irregolarità nella gestione dell'appalto della scuola Marescialli di Firenze.

 

2. L'accusa ha ipotizzato l'esistenza di un articolato meccanismo corruttivo che sarebbe stato finalizzato, non già al mercimonio di singoli atti d'ufficio, ma al persistente e costante asservimento della funzione pubblica a vantaggio dell'interesse dei privati. Le condotte descritte nel capo d'imputazione - vale a dire: (1) l'impegno ad agevolare l'affidamento di appalti nell'ambito dei cosiddetti "grandi eventi" 150° Anniversario dell'Unità d'Italia e Vertice G8 La Maddalena e (2) l'impegno a far "rientrare" la società B.T.P., impresa riferibile ad uno degli imprenditori imputati, nel cantiere della Scuola dei Marescialli dei Carabinieri di Firenze - costituirebbero, infatti, solo una manifestazione della complessiva "messa a disposizione", a vantaggio dei privati corruttori, dell'insieme delle funzioni pubbliche di cui disponevano i funzionari corrotti.

L'accusa colloca le diverse condotte tenute dagli imputati in un contesto corruttivo unitario, che assumerebbe rilevanza penale per sé stesso e a prescindere dall'illiceità della singola condotta-tassello. In punto di diritto, aver assunto l'esistenza di una correlazione diretta tra patto corruttivo e asservimento della funzione pubblica, impone al Tribunale di definire quale sia l'oggetto del reato di corruzione propria; precisando, in particolare, se la condotta del pubblico ufficiale, considerata nel suo complesso, ove si traduca in un sistematico favoritismo verso il privato corruttore e ancorché manchi l'individuazione di un singolo atto o comportamento contrario ai doveri d'ufficio, possa concretare il reato previsto dall'art. 319 c.p.

 

3. L'impostazione dell'accusa - la cui astratta configurabilità, peraltro, è stata già vagliata dalla S.C. nell'ambito del giudizio cautelare - viene ritenuta fondata, sia in diritto che in fatto, anche dal Tribunale romano.

 

3.1. La sentenza prende le mosse dalla ricostruzione dell'oggetto giuridico del reato di corruzione propria, che viene individuato, secondo un'interpretazione orientata al canone costituzione sancito dall'art. 97 Cost., nel buon andamento e nell'imparzialità dell'amministrazione.

L'imparzialità della P.A. viene compromessa - osserva il Tribunale - ogniqualvolta il pubblico ufficiale, in forza dell'accordo corruttivo, rinunci ad esercitare quel potere di libero scrutinio dei contrapposi interessi che è proprio dell'azione amministrativa. In sostanza, la libertà da inopportuni condizionamenti che possono incidere sul processo valutativo del pubblico ufficiale, è condizione senza la quale il suo agire risulterà comunque contrario ai doveri d'ufficio anche quando, come sembra essersi verificato nel caso concreto, «gli esiti dell'azione amministrativa si conformino a quelli che sarebbero dovuti essere in assenza dell'utilità ricevuta o accettata in promessa ovvero non sia dato apprezzare la formale irritualità degli atti o persino manchi l'individuazione di specifici atti».

Ispirandosi a un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il Tribunale chiarisce che l'espressione atto d'ufficio, nel contesto dei reati contro la P.A., non è sinonimo di atto amministrativo ma designa un'attività ossia un comportamento del pubblico ufficiale posto in essere nello svolgimento del suo incarico e contrario ai doveri dell'ufficio ricoperto. Sicché, ai fini della sussistenza del reato di corruzione propria, occorre aver riguardo non ai singoli atti, ma alla complessiva condotta tenuta dal pubblico ufficiale in spregio ai doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà. Anche se ogni atto separatamente considerato corrisponde ai requisiti di legge, la condotta del pubblico ufficiale che, per denaro, mette costantemente a disposizione del privato la funzione pubblica, integra il reato di corruzione previsto dall'art. 319 c.p.

 

3.2. In punto di prova, osserva poi il Tribunale, avendo assunto l'asservimento - più o meno sistematico - della funzione pubblica quale posta in gioco del rapporto tra corrotto e corruttore, è superfluo individuare (e, di conseguenza, provare) l'esistenza di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità.

Non solo: ad avviso del giudicante, è anche superfluo fornire la prova delle coordinate esatte del pactum sceleris, dovendosi ritenere che, in un tale contesto, verosimilmente, le intese tra corrotto e corruttore non vengono perfezionate in un puntuale regolamento di interessi, in un'esplicita pattuizione, ma si modulano a seconda dello svolgersi e degli esiti del rapporto corruttivo. «Benché - conclude il Tribunale - nel caso per cui è processo, non sia dato dimostrare, puntualmente, giorno ed ora della stipula del patto, ciò non preclude la dimostrazione della sua esistenza alla luce dell'accertata ricezione di utilità e dei correlati comportamenti dei pubblici ufficiali, comportamenti non altrimenti spiegabili».

 

3.3. Quanto alla nozione di utilità oggetto della dazione o della promessa al pubblico ufficiale, la sentenza si riporta ad una soluzione interpretativa che attribuisce a tale termine un contenuto ampio, comprensivo, non soltanto dei vantaggi di ordine patrimoniale o materiale, ma di qualsiasi prestazione che possa rappresentare un vantaggio per il pubblico funzionario. In questa prospettiva, si è affermato che possono integrare la nozione di utilità anche tutti quei vantaggi sociali che abbiano ricadute patrimoniali in via mediata o indiretta. Stante l'ampia latitudine di tale concetto, è anche possibile che l'utilità consista in un beneficio capace di avvantaggiare sia il corrotto che il corruttore (come nel caso di sponsorizzazioni, promesse di interessamento o mediazioni politiche).

Nel caso di specie, osserva il Tribunale, il mercimonio della funzione pubblica non si è esaurito in una singola e puntuale elargizione di denaro, ma si è consumato in una sequenza di attività, tra loro correlate, consistite ora in un dare (come è accaduto nel caso della dazione di un orologio di valore), ora in un fare (come è accaduto nel caso dell'interessamento per far ottenere la carica di Provveditore alle opere pubbliche della Toscana a uno degli imputati e nel caso del conferimento dell'incarico di assistenza legale a un professionista "gradito" dai pubblici funzionari).

 

4. La sentenza qui pubblicata è stata pronunciata il 30 ottobre 2012, dunque prima che entrasse in vigore la legge 6 novembre 2012, n. 190 recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, che ha riformato, come noto, i delitti in materia di corruzione contenuti nel codice penale.

Nelle motivazioni della sentenza, il Tribunale prende comunque in considerazione anche gli «eventuali profili di diritto intertemporale, sorti a partire da norme ... non in vigore né al momento del fatto né al momento della presente decisione», concludendo nel senso che tali profili «non potrebbero che risolversi all'insegna della continuità normativa tra la fattispecie contestata e quella della "corruzione per l'esercizio della funzione", dando luogo a una successione di norme modificative con le conseguenze di cui all'art. 2 del codice penale».