ISSN 2039-1676


21 settembre 2015 |

Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell'UE: la Corte d'appello di Milano sollecita la Corte costituzionale ad azionare i 'controlimiti'

Corte d'appello di Milano, II sez. pen., ord. 18 settembre 2015, Pres. Maiga, Est. Locurto

1. Come era prevedibile, la sentenza Taricco dell'8 settembre scorso (clicca qui per scaricare la sentenza e la relativa nota a firma del sottoscritto) - con la quale la Corte di giustizia ha affermato l'obbligo per il giudice italiano di disapplicare le disposizioni di cui agli artt. 160 e 161 c.p. nella parte in cui fissano un termine assoluto di prescrizione pur in presenza di atti interruttivi, in relazione a reati gravi che offendono gli interessi finanziari dell'Unione europea - ha immediatamente suscitato reazioni contrastanti presso la giurisprudenza italiana.

Il giorno successivo alla decisione con la quale la terza sezione penale della Cassazione ha per la prima volta dato esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia (clicca qui per accedere alla relativa informazione provvisoria), la Corte d'appello di Milano con l'ordinanza qui pubblicata rimette gli atti alla Corte costituzionale, invitandola espressamente ad opporre - per la prima volta nella storia della nostra giurisprudenza costituzionale - l'arma dei 'controlimiti' alle limitazioni di sovranità nei confronti dell'ordinamento europeo.

Più in particolare, la Corte milanese ha ritenuto di percorrere la strada (che chi scrive aveva parimenti prospettato nella nota poc'anzi citata) di sollevare questione di legittimità costituzionale sull'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 con cui viene ordinata l'esecuzione nell'ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona, "nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all'art. 325 §§ 1 e 2 TFUE, dalla quale - nell'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C-105/14, Taricco - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l'art. 25, secondo comma, Cost.".

 

2. Il possibile 'controlimite' rispetto al generale obbligo, per il giudice italiano, di dare applicazione ad una norma di diritto primario dell'Unione (l'art. 325 TFUE) così come interpretata dalla Corte di giustizia, viene dunque identificato dalla Corte milanese nel principio di legalità in materia penale di cui all'art. 25 co. 2 Cost., nell'estensione individuatane dalla giurisprudenza costituzionale italiana; principio evidentemente considerato dal giudice a quo quale 'fondamentale' nell'ordinamento giuridico italiano, e come tale prevalente - in base a quanto costantemente affermato dalla Corte costituzionale già da epoca precedente alla storica sentenza Granital (n. 170/1984) - rispetto ai vincoli assunti dall'Italia nei confronti dell'ordinamento dell'Unione europea all'atto della sua adesione al medesimo.

La Corte milanese, invero, dà conto puntualmente dei passaggi della sentenza Taricco nei quali i giudici europei escludono qualsiasi contrasto della loro decisione con il principio di legalità in materia penale così come riconosciuto dall'art. 49 della Carta europea dei diritti fondamentali (CDFUE), a sua volta da leggersi alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 7 CEDU. Tale giurisprudenza, come è noto, ritiene la materia della prescrizione del reato estranea a tale principio, e attinente piuttosto alle concrete condizioni di procedibilità del reato; con la conseguenza che non violerebbe il principio di legalità dei reati e delle pene l'allungamento con effetto retroattivo dei termini di prescrizione rispetto a quelli previsti dalla legge al momento della commissione del fatto.

Altrettanto puntualmente i giudici milanesi ricordano, peraltro, come la costante giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia orientata in senso opposto, affermando che la disciplina della prescrizione del reato sia soggetta al principio di legalità di cui all'art. 25 co. 2 in tutti i suoi corollari - in particolare, riserva di legge e irretroattività dei mutamenti sfavorevoli della relativa disciplina -. Proprio da tale premessa la nostra Corte costituzionale deduce l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale miranti a modificare in peius la disciplina della prescrizione, dal momento che il loro eventuale accoglimento determinerebbe da un lato un'ingerenza della Corte in una materia riservata esclusivamente al legislatore democratico, e dall'altro l'applicazione retroattiva della disciplina modificata dalla Corte a chi aveva commesso il fatto nel vigore della più favorevole disciplina dichiarata illegittima.

L'ordinanza qui pubblicata dichiara espressamente di condividere questa giurisprudenza costituzionale - sulla quale chi scrive ha invece già avuto modo di esprimere le proprie riserve (F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in materia di IVA? Primato del diritto UE e nullum crimen sine lege in una importante sentenza della Corte di giustizia, in questa Rivista, 14 settembre 2015, p. 10) - e conclude nel senso che la disapplicazione nel caso concreto sottoposto al suo esame delle norme sulla prescrizione imposta dalla Corte di giustizia condurrebbe a una violazione del principio di legalità di cui all'art. 25 co. 2 Cost., nella misura in cui una tale pronuncia "produrrebbe la retroattività in malam partem della normativa nazionale risultante da tale disapplicazione, implicante l'allungamento dei termini prescrizionali".

L'ordinanza in esame rimette dunque la soluzione dell'antinomia alla Corte costituzionale, ritenendo - correttamente - che la valutazione circa la sussistenza di 'controlimiti' agli obblighi discendenti dall'Unione europea sia nel nostro ordinamento riservata al giudice delle leggi, e sia invece preclusa al giudice comune; e ciò anche alla luce degli univoci pronunciamenti della Corte costituzionale in questo senso (cfr., ex aliis, ord. n. 454/2006 e sent. n. 284/2007).

L'opposizione dei 'controlimiti' in questa materia dovrebbe allora essere effettuata, secondo la strada indicata già dalla sentenza n. 170/1984, mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di esecuzione nell'ordinamento interno del Trattato di Lisbona, nella misura in cui attribuisce forza cogente all'art. 325 TFUE, dal quale la Corte di giustizia deduce l'obbligo di disapplicare le norme in questione in materia di prescrizione.

 

3. La palla passa così - come è giusto che sia - alla Corte costituzionale, che si troverà oradi fronte allo scomodo dilemma se avallare la decisione dei giudici europei, i cui effetti appaiono però contrastanti con la propria consolidata giurisprudenza, o se ribellarsi apertamente all'ordinamento eurounitario, sfidando il principio di primazia del diritto UE così come declinato - in particolare - nella sentenza Melloni, in cui la stessa Corte di giustizia aveva negato che lo Stato membro possa opporre alle esigenze di adeguamento al diritto UE i diritti fondamentali riconosciuti dalla propria Costituzione.

Difficile, e senz'altro incauto, sarebbe avventurarsi in previsioni sull'esito di questa valutazione. Piuttosto, potrebbe non essere inutile interrogarsi - naturalmente 'a caldo', e con riserva di future più approfondite riflessioni - sulla possibilità che la Corte costituzionale pervenga ad una pronuncia di inammissibilità della questione, pur così scrupolosamente e intelligentemente motivata.

Per ciò che attiene in particolare alla rilevanza della questione, la questione appare almeno prima facie inammissibile rispetto ai reati addebitati agli imputati per i quali non sia ancora decorso il relativo termine di prescrizione.  Rispetto ad essi, infatti, la Corte milanese non è oggi chiamata a fare applicazione della norma impugnata (l'art. 325 TFUE, nell'estensione ora individuatane dalla Corte di giustizia) disapplicando contestualmente gli artt. 160 e 161 c.p.; la questione è qui solo prospettica, e si porrà concretamente soltanto quando scadranno i relativi termini.

Quanto invece ai reati già oggi prescritti, l'ordinanza motiva in maniera puntuale sul presupposto centrale della rilevanza della questione. Sottolineano i giudici milanesi come i reati addebitati agli imputati siano senz'altro 'gravi' (avendo determinato un'evasione dell'IVA - una quota della quale deve essere girata automaticamente al bilancio europeo - per svariati milioni di euro), e come le norme de quibus in materia di prescrizione determinino l'impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive "in un numero considerevole di casi di frodi gravi che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea".

Per inciso: anche nel mondo del diritto, la realtà supera spesso l'immaginazione. In sede di primissimo commento alla sentenza della Corte di giustizia, mi ero sforzato di ipotizzare sulla base di quali conoscenze un giudice italiano possa pervenire alla conclusione che l'attuale disciplina della prescrizione determina l'impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive "in un numero considerevole di casi gravi"; e ciò sulla base del presupposto - che mi sembrava ovvio - che una simile conclusione presupponga un patrimonio di informazioni ulteriore rispetto a quello acquisito con l'istruzione probatoria riferito ai fatti concreti attribuiti agli imputati, e concernente in particolare le statistiche giudiziarie relative alla percentuale di reati in materia di frodi IVA che si concludono con una declaratoria di prescrizione. La Corte milanese si trova invece a statuire su fatti concreti che di per sé consistono in un "numero esorbitante di operazioni fraudolente [...] eseguite tramite l'interposizione strumentale di numerose società nazionali ed estere, ripetute nell'arco di circa tre anni, con il coinvolgimento di mezzi, uomini, strutture e organizzazione di elevata efficienza e comportanti l'evasione dell'IVA [...] per svariati milioni di euro tra il 2005 e il 2007"; sicché comprensibile appare qui la valutazione dei giudici a quibus, secondo cui l'applicazione della vigente disciplina della prescrizione comporterebbe quanto meno l'impunità di tutte queste frodi gravi, con un risultato di per sé incompatibile con gli obblighi eurounitari. Indipendentemente, dunque, da ogni prova circa l'impunità di altre frodi analoghe.

D'altra parte,  la Corte milanese rileva che i reati oggetto di imputazione sono soggetti a termini di prescrizioni più brevi di quelli previsti dall'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi, lesivo dei soli interessi erariali nazionali; il che appare di per sé sufficiente a fondare una violazione degli obblighi, discendenti dall'art. 325 § 2 TFUE, di equiparazione del trattamento sanzionatorio tra frodi che offendono il bilancio nazionale e quelle che offendono il bilancio dell'Unione.

I giudici a quibus concludono allora nel senso della ricorrenza di tutte le condizioni di operatività della sentenza Taricco, e conseguentemente della necessità di applicare al caso di specie gli obblighi (derivati dall'art. 325 TFUE) da essa discendenti, a meno che - per l'appunto - tali obblighi non vengano ritenuti dalla Corte costituzionale contrastanti con i "principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale italiano" e con i "diritti inviolabili della persona", e in particolare con il principio di legalità in materia penale di cui all'art. 25 co. 2 Cost.

Improbabile, a questo punto, che la Corte costituzionale possa sotto questo profilo affermare l'irrilevanza nel caso di specie della questione così formulata.

 

5. Un distinto profilo di inammissibilità della questione potrebbe tuttavia sorgere laddove la Corte ritenesse di circoscrivere la portata degli obblighi statuiti dalla sentenza Taricco ai soli casi in cui la prescrizione non sia in concreto ancora maturata al momento della pubblicazione della sentenza: ossia, alla data dell'8 settembre 2015.

Questa prospettiva non sarebbe, a ben guardare, implausibile. Dopo tutto, nel caso di specie esaminato dal giudice del rinvio nel caso Taricco, i termini di prescrizione non erano ancora decorsi per gli imputati; tanto che l'Avvocato generale Kokott, nel motivare la compatibilità con il principio di legalità di cui all'art. 49 CDFUE dell'applicazione retroattiva agli imputati dei nuovi termini di prescrizione risultanti dalla disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p., aveva avuto cura di sottolineare che "l'intervallo di tempo all'interno del quale può essere perseguito un reato può mutare anche successivamente alla commissione di quest'ultimo, fintantoché non sia intervenuta la prescrizione [...]. In definitiva, accade nella specie lo stesso che nel caso dell'applicazione di norme processuali nuove a situazioni che, pur createsi nel passato, non si sono ancora concluse" (§ 120); e aveva subito dopo ribadito che "ciò apre, in tutti i casi in cui non è ancora intervenuta la prescrizione [come invece nel caso di uno degli imputati nel procedimento a quo, nomitativamente menzionato in nota dallo stesso Avvocato generale] un margine discrezionale ai fini della considerazione di valutazioni di diritto dell'Unione che i giudici degli Stati membri devono sfruttare completamente in sede di applicazione del rispettivo diritto nazionale, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività" (§ 121: clicca qui per scaricare le conclusioni dell'Avvocato generale).

Come a dire: rispetto a reati in concreto non ancora prescritti, non sussisterà alcun ostacolo all'allungamento dei termini prescrizionali, sia che tale allungamento costituisca l'effetto di una modifica legislativa (come nel caso oggetto della nota sentenza Coëme c. Belgio), sia che, come nel nostro caso, esso derivi da una sentenza della Corte di giustizia che esplicita gli obblighi implicitamente già contenuti in una norma del diritto dell'Unione. Dovranno, per contro, restare salvi gli effetti della prescrizione laddove i relativi termini siano già maturati, in omaggio - parrebbe di comprendere - non tanto al principio di legalità in materia penale, quanto a un principio di tutela della certezza dei rapporti giuridici in presenza di situazioni ormai 'concluse', e del relativo affidamento creatosi in capo al singolo. Una volta che l'imputato abbia raggiunto la soglia della prescrizione, insomma, egli avrà il diritto di tirare un sospiro di sollievo; e modifiche legislative o giurisprudenziali successive non potrebbero esporlo nuovamente alla spada di Damocle del processo penale, riaprendo un termine di prescrizione già consumatosi (e la cui decorrenza ha ormai determinato - si noti - l'estinzione del reato).

La portata pratica della sentenza della Corte di giustizia dell'8 settembre scorso dovrebbe, in quest'ottica, apprezzarsi unicamente rispetto al futuro: e dunque rispetto a reati per cui non sia ancora scaduto il termine di prescrizione, e rispetto ai quali dunque l'imputato non abbia ancora potuto tirare alcun (definitivo) sospiro di sollievo.

Se questa distinzione dell'Avvocato generale, tutto sommato ragionevole, dovesse essere ritenuta implicita nella trama della sentenza Taricco, ne deriverebbe immediatamente l'inammissibilità della questione: gli atti dovrebbero essere restituiti dalla Corte costituzionale al giudice a quo per erroneità del presupposto interpretativo (e conseguentemente per difetto di rilevanza nel caso concreto), l'art. 325 TFUE non imponendo la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. nel caso di specie.

 

5. Il problema si riproporrebbe per la Corte, naturalmente, nell'immediato futuro, in relazioni a prescrizioni maturate dopo l'8 settembre 2015, e dunque in un momento in cui all'imputato di frodi gravi in materia di IVA non converrebbe affatto tirare alcun sospiro di sollievo, stante la situazione di incertezza circa la disciplina della prescrizione in concreto applicabile.

E a quel punto la Corte non potrebbe esimersi dal prendere posizione sulla questione se davvero la prescrizione appartenga a pieno titolo alla materia coperta dalla materia coperta dal principio di legalità in materia penale di cui all'art. 25 co. 2 Cost. in tutti i suoi corollari, oppure se non sia il caso di rimeditare la propria consolidata giurisprudenza in proposito, allineandosi allo standard prevalente in sede europea che considera la prescrizione come istituto essenzialmente processuale, in quanto attinente alle concrete condizioni di procedibilità del reato, e come tale soggetto al criterio del tempus regit actum.

La questione ha, in realtà, due diversi profili che occorrerà in tale valutazione tenere ben separati, e che attengono a due distinti corollari del principio di legalità in materia penale: da un lato, la riserva di legge; dall'altro il divieto di applicazione retroattiva della norma penale.

Due sono, dunque, le domande essenziali cui la Corte costituzionale dovrà, prima o poi, fornire una risposta:

a) è legittimo, nel nostro ordinamento costituzionale, che una fonte diversa dalla legge statale - e segnatamente una norma di diritto primario dell'Unione dotata di effetto diretto, così come interpretata da una sentenza della Corte di giustizia UE - possa incidere in malam partem sulla definizione dei presupposti che determinano l'applicazione della pena nel caso concreto, in particolare estendendo l'area della punibilità rispetto a quanto risulterebbe in base alla legge statale?

b) è legittimo, nel nostro ordinamento costituzionale, che il novum normativo rappresentato da un allungamento dei termini di prescrizione (per effetto di una modifica legislativa o, come nel caso che qui ci occupa, di una sentenza della Corte di giustizia che abbia interpretato una norma di diritto primario dell'Unione) venga applicato anche a reati non ancora giudicati in via definitiva, ma commessi prima di tale novum, e dunque allorché vigevano termini più brevi?

 

6. Non può essere questa la sede per un'analisi approfondita di entrambe queste domande, alle quali pure ritengo - con riserva di articolare meglio in futuro le motivazioni - possa essere data senza troppi patemi d'animo risposta positiva.

Ciò che mi preme sin da subito rilevare è, però, che la risposta non necessariamente dovrà essere la medesima per entrambe le domande. La Corte potrebbe, in ipotesi, rispondere affermativamente alla domanda sub a), e negativamente a quella sub b); e dunque ammettere che la normativa UE possa legittimamente incidere anche in malam partem sulla definizione dei presupposti che disciplinano l'applicazione della pena nel caso concreto, e al tempo stesso negare - in nome della tutela di un 'diritto inviolabile della persona' prevalente rispetto alle limitazioni di sovranità cui l'ordinamento italiano si è sottoposto - che il novum normativo risultante dall'impatto del diritto UE sulla legislazione italiana in materia sia applicabile anche ai fatti commessi prima di tale novum normativo. Se così accadesse, la Corte ratificherebbe in effetti il riassetto di disciplina discendente dalla sentenza Taricco, circoscrivendone però l'applicazione concreta ai soli fatti commessi posteriormente all'8 settembre 2015, e dunque alla data di pubblicazione della medesima sentenza.

Ma su tutto ciò si dovrà, come dicevo, approfonditamente riflettere in futuro, nelle more di questa delicatissima decisione della Corte costituzionale. Per ora, come si diceva una volta, de hoc satis.