ISSN 2039-1676


26 luglio 2013 |

Prosegue la 'saga Scoppola': una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità  della Corte costituzionale

Corte cost., ord. 23 luglio 2013, n. 235, Pres. Gallo, Rel. Frigo (manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, converito con modificazioni dalla legge n. 144/2000)


1. Ennesima puntata della 'saga Scoppola' (sulla quale cfr. nella colonna di destra i molti documenti pubblicati dalla nostra Rivista, sino alla recentissima sentenza n. 210/2013 della Corte costituzionale: clicca qui per accedervi), questa volta concernente - più che i 'fratelli minori' di Scoppola - un suo più lontano 'cugino'. Questa puntata si conclude però bruscamente con un'ordinanza di manifesta inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale promossa dal giudice dell'esecuzione del Tribunale di Lecce: una inammissibilità, invero, che così manifesta non era affatto.

 

2. Il caso, manco a dirlo, è piuttosto complicato. Rinviando per ogni dettaglio all'ordinanza pubblicata in allegato, conviene qui evidenziare soltanto i passaggi davvero essenziali:

- il condannato sta scontando la pena dell'ergastolo inflittagli in relazione a tre omicidi compiuti in tempi diversi, con condanna divenuta definitiva nel 2001;

- i primi due omicidi erano stati commessi tra la fine del 1990 e l'inizio del 1991, e dunque prima che intervenisse la sentenza n. 176 del 1991 con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo per eccesso di delega l'art. 442 co. 2 c.p.p., nella parte in cui consentiva di definire con giudizio abbreviato anche i processi relativi a reati puniti con la pena dell'ergastolo, prevedendone in caso di condanna la sostituzione con la pena di trent'anni di reclusione;

- il terzo omicidio era stato commesso invece nell'agosto 1991, dopo la predetta sentenza della Corte;

- all'udienza preliminare, svoltasi nel 1997, l'imputato aveva chiesto di essere ammesso al rito abbreviato, ma la sua istanza era stata rigettata anche con riferimento ai primi due omicidi;

- nelle more del giudizio di cassazione contro le due sentenze di merito che lo avevano condannato all'ergastolo, erano entrate in vigore in rapida successione: a) la legge Carotti (l. 16 dicembre 1999, n.  479), che aveva ripristinato nei termini originari la possibilità di definire con giudizio abbreviato anche i processi relativi a reati puniti con la pena dell'ergastolo, con sostituzione di tale pena con quella di trent'anni di reclusione; e b) il decreto legge n. 82/2000, convertito con modificazioni dalla legge n. 144/2000 (norma - sottolineiamo subito a beneficio del povero lettore - che non era mai entrata in discussione nei casi sin qui affrontati dalla Cassazione e dalla stessa Corte costituzionale, né nello stesso caso Scoppola), il quale prevedeva all'art. 4-ter la riapertura dei termini per la proposizione della richiesta di rito abbreviato nei processi ancora pendenti in primo grado, in appello o in sede di rinvio, qualora non fosse ancora conclusa l'istruzione dibattimentale o la sua rinnovazione, escludendo così i procedimenti pendenti in cassazione;

- l'imputato non aveva potuto, conseguentemente, formulare domanda di essere (ri)ammesso al rito abbreviato, e si era visto confermare la condanna all'ergastolo, già inflittagli dai giudici di merito;

- in sede di incidente di esecuzione, il condannato chiede ora che la pena gli venga rideterminata in quella di trent'anni di reclusione, che gli sarebbe stata inflitta ove fosse stato ammesso al rito abbreviato;

- il giudice dell'esecuzione rileva anzitutto l'illegittimità del diniego del rito abbreviato da parte del giudice per l'udienza preliminare, nel 1997, alla luce del principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, contenuto nell'art. 7 CEDU ma ancor prima nell'art. 25 co. 2 Cost.: divieto da reputare operante, a suo avviso, anche quando la disciplina più severa dipenda da una sentenza della Corte costituzionale, come era accaduto nella specie;

- tale primo profilo di illegittimità potrebbe invero, secondo il giudice, essere rimosso direttamente in sede di incidente di esecuzione, essendo a suo avviso pacifico che il giudicato debba cedere a fronte dell'esigenza di far cessare una pena inflitta ed eseguita in violazione di diritti fondamentali del condannato, e che conseguentemente il giudice dell'esecuzione possa rideterminare la pena in modo da far cessare questa violazione;

- tuttavia, tale rideterminazione non sortirebbe nella specie alcun effetto favorevole per il condannato, dal momento che - ai sensi dell'art. 72 co. 3 c.p. - la pena complessiva dovrebbe tenere comunque conto anche del terzo omicidio, commesso in epoca in cui la sostituzione dell'ergastolo con la pena di trent'anni di reclusione non era più possibile, a seguito della sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale;

- con riguardo a tale terzo omicidio, il giudice osserva peraltro come l'art. 4-ter del citato d.l. n. 82/2000 aveva escluso il ricorrente dalla possibilità di chiedere di essere riammesso al rito abbreviato, e di beneficiare così della conseguente riduzione di pena ai sensi della legge Carotti entrata in vigore poco prima, in violazione (questa volta) del principio di retroattività della norma più favorevole tra tutte quelle in vigore dal momento del fatto alla sentenza definitiva, principio dedotto per la prima volta dalla Corte europea dall'art. 7 CEDU nella sentenza Scoppola c. Italia (n. 2) del 2009, oltre che più in generale in violazione dell'equità processuale (art. 6 CEDU);

- tale norma deve pertanto considerarsi, ad avviso del giudice remittente, illegittima per contrasto con l'art. 117 co. 1 Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nonché per contrasto con lo stesso principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., avendo sottoposto gli imputati per i medesimi reati punibili con l'ergastolo a un trattamento sanzionatorio irragionevolmente differenziato secondo le diverse fasi processuali;

- laddove dunque tale norma venisse rimossa dalla Corte costituzionale, il giudice dell'esecuzione potrebbe procedere alla rideterminazione complessiva della pena inflitta al condannato in quella di trent'anni di reclusione: con conseguente rilevanza della questione nel giudizio a quo.

 

3. Come anticipato, la Corte giudica invece manifestamente irrilevante la questione, dal momento che il giudice a quo non sarebbe, in verità, chiamato a fare applicazione della norma impugnata.

Questi, in estrema sintesi, gli argomenti della Corte:

- la situazione del condannato nel giudizio a quo si differenzia in modo essenziale da quella oggetto di esame della Corte europea nella sentenza Scoppola, dal momento che egli - a differenza di Franco Scoppola - non fu mai ammesso al giudizio abbreviato;

- il condannato aveva bensì formulato richiesta di giudizio abbreviato nel 1997, ma tale richiesta era stata respinta con provvedimento che lo stesso giudice a quo riconosce legittimo, almeno per quanto concerne il terzo omicidio;

- nelle more del giudizio di cassazione egli non aveva invece riproposto la richiesta di abbreviato;

- d'altra parte, la norma censurata non avrebbe natura sostanziale, ma meramente processuale, attenendo non all'entità della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ma soltanto ai termini di proposizione della relativa richiesta;

- che sotto questo profilo la situazione è, piuttosto, assimilabile a quella decisa dalla Corte europea nella decisione di irricevibilità Morabito c. Italia, del 27 aprile 2010 (clicca qui per accedervi), concernente il regime transitorio previsto dal primo comma dallo stesso art. 4-ter d.l. n. 82/2000 in rapporto all'avvenuta soppressione, ad opera della precedente legge Carotti, del requisito del consenso del pubblico ministero al rito abbreviato previsto originariamente dall'art. 438 co. 1 c.p.p., essendosi stabilito in tale norma transitoria che la disciplina di cui al novellato art. 438 co. 1 c.p.p. trovasse applicazione in tutti i processi per i quali non fosse stato ancora aperto il dibattimento;

- in tale decisione la Corte EDU escluse la violazione dell'art. 6 CEDU nei confronti di un imputato che si era visto originariamente rigettare l'istanza di rito abbreviato per l'opposizione del p.m., e il cui processo era pendente ormai in grado di appello all'entrata in vigore del d.l. 82/2000, con conseguente impossibilità per l'imputato medesimo di avvalersi della possibilità di essere comunque ammesso al rito abbreviato ai sensi della norma transitoria citata. Ciò in quanto, ad avviso dei giudici europei, l'art. 438 co. 1 c.p.p. (di cui in quella sede si discuteva) doveva essere qualificato come norma di carattere esclusivamente processuale, limitandosi a disciplinare le condizioni di accesso a un rito semplificato, a differenza dell'art. 442 co. 2 c.p.p. di cui si era discusso nel caso Scoppola, che invece concerne direttamente la pena che può essere inflitta in esito a tale rito. Mentre dunque nel caso Scoppola il ricorrente, già ammesso al rito abbreviato, aveva diritto all'applicazione retroattiva della pena più favorevole prevista dall'art. 442 co. 2 c.p.p., in questo caso il ricorrente - mai ammesso al rito abbreviato - non poteva dolersi della mancata applicazione retroattiva di una norma meramente processuale e pertanto fisiologicamente soggetta al principio tempus regit actum, come appunto l'art. 438 co 1 c.p.p. , giacché - osservano i giudici europei in un passaggio citato testualmente dalla Corte costituzionale - "gli Stati contraenti non sono obbligati dalla Convenzione a prevedere dei procedimenti semplificati [...]; ad essi incombe soltanto l'obbligo, allorquando tali procedure esistono e sono adottate, di non privare un imputato dei vantaggi che vi si collegano";

- conclude allora la Corte costituzionale che "non avendo l'istante nel procedimento a quo mai acquisito nel proprio patrimonio giuridico il diritto a essere giudicato con rito abbreviato sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999, il Tribunale remittente non ha alcun titolo per procedere alla ipotizzata sostituzione della pena dell'ergastolo con isolamento diurno con la pena detentiva temporanea, né, tanto meno, per porre in discussione, in sede di incidente di esecuzione, la legittimità costituzionale di una norma che, come quella sottoposta a scrutinio, attiene al processo di cognizione e, più specificamente, al giudizio di cassazione": una norma che, pertanto, sarebbe stata applicabile soltanto in quel giudizio, "e solo alla condizione che, nel corso di esso, l'imputato avesse effettivamente richiesto il giudizio abbreviato con l'osservanza del termine stabilito dalla norma censurata", il che non è però avvenuto.

Irrilevanza (manifesta) della questione, insomma, per la perentoria ragione che non spetta al giudice dell'esecuzione fare applicazione della norma censurata, e cioè dell'art. 4-ter del d.l. 82/2000.

 

4. La decisione della Corte costituzionale, tuttavia, non persuade.

Intendiamoci: la fondatezza della questione era tutt'altro che pacifica. Perno della questione sottoposta alla Corte era, come si è visto, l'asserita incompatibilità della norma impugnata con il principio di retroattività della norma più favorevole, così come declinato dalla sentenza Scoppola c. Italia: il ricorrente avrebbe avuto diritto - questo l'argomento del remittente - a vedersi applicata la disciplina più favorevole tra tutte quelle in vigore dal momento della commissione di ciascun omicidio a quello della sentenza definitiva, intervenuta nel 2001. In questo (esteso) lasso temporale si erano in effetti alternate discipline che - sia pure subordinatamente alla scelta processuale dell'imputato di essere giudicato per tabulas - comminavano la pena massima di trent'anni di reclusione per reati (anche più d'uno) punibili in astratto con la pena dell'ergastolo, e discipline che invece negavano questo sconto di pena non consentendo a questi imputati di accedere al rito abbreviato. Il giudice dell'esecuzione riteneva allora di essere legittimato ad accogliere la richiesta del condannato con riguardo ai primi due omicidi, riconoscendogli dunque direttamente il diritto a beneficiare del più favorevole trattamento sanzionatorio discendente dall'art. 442 co. 2 c.p.p. nella formulazione in vigore tra il 1989 e la sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale; ma riteneva di non potere eliminare la pena dell'ergastolo con riferimento al terzo omicidio, in ragione dell'ostacolo normativo rappresentato, appunto, dall'art. 4-ter del d.l. 82/2000, che - illegittimamente, ma inequivocamente - precludeva l'applicabilità dell'art. 442 co. 2 c.p.p., nella versione più favorevole introdotta dalla legge Carotti, nei confronti degli imputati i cui processi pendessero ormai in grado di cassazione.

Nel merito, il problema per la Corte era dunque quello di stabilire se il legislatore del 2000 avesse, o non avesse, violato il principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole, come sancito dall'art. 7 CEDU nella lettura fattane dalla sentenza Scoppola, nell'escludere l'efficacia retroattiva della nuova e più favorevole versione dell'art. 442 co. 2 c.p.p. in relazione a taluni processi ancora in corso, come quelli pendenti in cassazione.

Argomenti per una risposta positiva a tale quesito, in verità, non mancavano (e non mancheranno, nell'ambito di un futuro possibile ricorso del condannato alla Corte europea contro il rigetto definitivo della propria istanza).

Anzitutto, la sentenza Scoppola ha espressamente qualificato l'art. 442 co. 2 c.p.p. come norma di diritto penale sostanziale, in ragione della sua immediata incidenza sul trattamento sanzionatorio, deducendone così la sua soggezione al principio di retroattività in mitius. Almeno prima facie, parrebbe dunque che il ricorrente avesse - ed abbia oggi - il diritto a vedersi applicata la versione dell'art. 442 co. 2 c.p.p. che stabiliva il trattamento sanzionatorio più mite tra tutte quelle succedutesi tra il compimento di ciascun omicidio e il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Già, obietta la Corte costituzionale: ma ciò varrebbe soltanto se egli avesse chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, la riduzione di pena prevista dall'art. 442 co. 2 c.p.p. nelle sue versioni 'più miti' (quella originaria, e quella discendente dalla legge Carotti) essendo pur sempre stata legata alla richiesta dell'imputato di essere ammesso a tale rito. Nel caso di specie, l'imputato aveva bensì formulato richiesta (respinta dal GUP) di giudizio abbreviato con riferimento ai primi due omicidi, ma non aveva reiterato tale richiesta con riferimento a tutti e tre gli omicidi nel corso del giudizio di cassazione. Ergo, deduce la Consulta, egli non ha ora alcun diritto di beneficiare della riduzione della pena prevista dalla legge Carotti.

Sin troppo ovvia, però, la replica: l'imputato non richiese avanti alla Corte di cassazione, nel 2000, di essere ammesso al rito abbreviato, semplicemente perché il chiaro dettato normativo dell'art. 4-ter del d.l. 82/2000 glielo impediva. A che avrebbe giovato formulare, allora, una richiesta sfornita di ogni fondamento dal punto di vista normativo? La sua doglianza sarebbe stata respinta con una riga di motivazione come manifestamente infondata. Né avrebbe realisticamente giovato al difensore eccepire allora l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-ter: l'art. 442 co. 2 c.p.p. era sempre stato considerato, dalla giurisprudenza nazionale, come norma processuale, e come tale sottratta al principio di legalità in materia penale; e, prima di Scoppola, nessuno affermava nel nostro ordinamento che la retroattività della norma penale più favorevole costituisse un principio non derogabile da parte del legislatore. D'altra parte, ben poche chances, per non dire nulle, di accoglimento avrebbe avuto un'eccezione di illegittimità costituzionale che facesse leva sull'irragionevole discriminazione, ex art. 3 Cost., tra imputati di processi pendenti in gradi diversi, dal momento che la scelta legislativa non era ictu oculi sprovvista di qualsiasi ragionevolezza (accogliere un'istanza di abbreviato per la prima volta in grado di cassazione significa modificare il compendio probatorio sulla cui base può legittimamente formarsi il convincimento del giudice, con conseguente necessaria regressione del giudizio in un grado di merito, e altrettanto conseguente pregiudizio all'economia processuale).

Solo oggi, dopo la sentenza Scoppola, la situazione può dirsi radicalmente mutata, sì da consentire al ricorrente di sostenere plausibilmente l'illegittimità dell'art. 4-ter più volte citato, per contrasto con il 'neonato' principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole (nel caso di specie, rappresentata dalla norma discendente dall'art. 442 co. 2 c.p.p. nella versione 'post Carotti', riconosciuta per la prima volta dalla Corte di Strasburgo come norma di diritto sostanziale).

Ma allora, ripeto, è quanto meno stravagante che la Corte costituzionale rimproveri al ricorrente di non avere all'epoca formulato alla Corte di cassazione una richiesta di rito abbreviato che sarebbe stata bollata come palesemente contra legem, e che non avrebbe avuto alcuna chance di accoglimento nemmeno ove corredata di un'eccezione di illegittimità costituzionale.

Che, d'altronde, l'art. 442 co 2 c.p.p. nella versione 'post Carotti' non fosse una norma propriamente processuale, fisiologicamente soggetta al principio tempus regit actum, lo aveva implicitamente riconosciuto lo stesso legislatore italiano, il quale non a caso aveva sentito il bisogno di intervenire, con il d.l. 82/2000, per 'rimettere in termini' la maggior parte degli imputati consentendo loro di formulare richiesta di abbreviato e di beneficiare, così, del più favorevole trattamento sanzionatorio reintrodotto dalla legge Carotti; escludendo, però, da tale beneficio i restanti imputati per mere ragioni di economia processuale, che è assai dubbio possano essere considerate prevalenti rispetto alle esigenze di tutela di un diritto fondamentale come quello di cui all'art. 7 CEDU, nella lettura ora fornitane dalla Corte di Strasburgo.

Sull'altro piatto della bilancia, non però ha torto la Consulta nel richiamarsi alla decisione della seconda sezione della Corte EDU Morabito c. Italia, che dichiara irricevibile -  attraverso un sapiente distinguishing del caso di specie da quello deciso dalla Grande Camera in Scoppola - una doglianza concernente la mancata applicazione retroattiva dell'art. 442 co. 2 c.p.p. nella versione 'post Carotti'. Nel caso Morabito la Corte EDU focalizza, invero, la propria attenzione sull'art. 438 co. 1 c.p.p., anch'esso modificato dalla legge Carotti nel senso di far venir meno il consenso del pubblico ministero quale presupposto del giudizio abbreviato, affermandone come si è detto la natura processuale, a differenza di quanto deve predicarsi per l'art. 442 co. 2 c.p.p., del quale la Grande Camera aveva ritenuto la natura sostanziale; ciò che permette alla Corte di non impegnarsi sul terreno dell'art. 7 CEDU (peraltro neppure invocato dal ricorrente), e di concentrarsi sui soli profili concernenti l'equità processuale di cui all'art. 6 CEDU. Ma la ratio di questa decisione della Corte EDU è inequivoca, ed è ben evidenziata dalla nostra Corte costituzionale: la Convenzione lascia libero lo Stato di disciplinare le condizioni di accesso ai riti alternativi, dai quali dipendono eventuali sconti di pena per chi rinunci in tal modo a talune delle normali garanzie difensive; e tale discrezionale disciplina ha natura processuale, non sostanziale, con conseguente sua sottrazione al principio di necessaria retroattività nei processi in corso. L'unico obbligo - discendente a questo punto dall'art. 6 CEDU - a carico dello Stato sarà quello di non privare l'imputato dei vantaggi connessi al rito, una volta però che ne abbia fatto effettivamente richiesta e sia stato ammesso a tale rito.

Se quest'ultima decisione della Corte EDU sia davvero armonizzabile con la sentenza Scoppola, ovvero se ne rappresenti un piccolo (e mascherato) revirement, si potrebbe naturalmente discutere (dopo tutto, anche rispetto alla decisione di Strasburgo vale l'obiezione: come avrebbe potuto l'imputato chiedere di essere ammesso a un rito cui si ricollegava la prospettiva di una così imponente riduzione della sanzione, se la legge allora in vigore glielo impediva?). Ma, certo, non si può rimproverare oggi alla nostra Corte di non essersi confrontata, funditus, con la giurisprudenza di Strasburgo, e di non essersi adeguata alla sentenza che decideva il caso più vicino (ancorché non esattamente 'in termini') a quello che veniva ora in discussione.

 

5. Il profilo realmente problematico dell'ordinanza qui commentata è però un altro: e concerne la valutazione di "manifesta inammissibilità" della questione, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo.

Come si è visto, la Corte afferma perentoriamente che il giudice dell'esecuzione non sarebbe in alcun modo chiamato a fare applicazione della norma impugnata, e cioè dell'art. 4-ter d.l. n. 82/2000, che avrebbe invece esaurito la sua efficacia nel giudizio di cognizione.

L'argomento è suggestivo; ma, come spesso accade con gli argomenti tranchants, non si confronta realmente con la complessità della trama dell'ordinanza di rimessione, che potrebbe essere schematizzata - per quanto ora rileva - come segue:

a)  il giudice dell'esecuzione ha in via generale il potere di rideterminare una pena inflitta ed eseguita in violazione di un diritto fondamentale del condannato, in particolare sostituendola con una pena che elimini tale violazione;

b) tale potere non può però essere esercitato dal giudice dell'esecuzione qualora la violazione del diritto fondamentale sia stata imposta da una legge in vigore al momento della condanna, e tuttora in vigore al momento dell'incidente di esecuzione: tale legge costituisce un ostacolo normativo all'eliminazione della violazione da parte del giudice dell'esecuzione; un ostacolo che - in un sistema fondato sul controllo accentrato di costituzionalità come quello italiano - può essere rimosso unicamente dalla Corte costituzionale attraverso la dichiarazione di illegittimità della legge in questione.

Così riassunta la linea argomentativa dell'ordinanza di rimessione (e senza voler qui discutere dell'indubbia problematicità del passaggio sub a), dovrebbe apparire evidente come il vero thema decidendum per il giudice remittente fosse proprio se dare applicazione anche in sede esecutiva all'art. 4-ter d.l. n. 82/2000, affermando conseguentemente che il ricorrente non aveva diritto alla riduzione di pena prevista dalla legge Carotti dal momento che il suo processo era ormai pendente in grado di cassazione quando essa entrò in vigore; ovvero se - come in effetti egli fece - sollecitare la Corte a eliminare tale norma, affinché gli fosse possibile sostituire direttamente la pena al condannato.

A ben guardare, la linea argomentativa dell'ordinanza di rimessione non era affatto implausibile. Dopo tutto, il giudice dell'esecuzione deve sempre decidere se dare o non dare applicazione (se non altro ai fini dell'avvio o della prosecuzione dell'esecuzione della pena) a norme di diritto penale sostanziale relative al precetto o alla pena e già applicate nel giudizio di cognizione, ogniqualvolta venga adito - ad es. - ai fini della revoca di una sentenza per abolitio criminis, o in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice o di una circostanza aggravante, o ancora in seguito alla dichiarazione di 'illegittimità comunitaria' della norma medesima. Quelle norme sostanziali in ipotesi abrogate, dichiarate illegittime o dichiarate contrarie al diritto UE trovano anch'esse 'applicazione' nel giudizio di esecuzione, nella misura in cui da esse continua a discendere - sino a decisione contraria del giudice dell'esecuzione - l'effetto di legittimare l'inizio e/o la prosecuzione della pena inflitta dal giudice della cognizione. Decidendo dunque di respingere un'istanza di revoca di una sentenza definitiva di condanna (ad es. per insussistenza dell'allegata abolitio criminis) il giudice dell'esecuzione in effetti applica - rectius, (ri)applica - la norma incriminatrice in questione, (ri)affermandone la vigenza come fondamento giustificativo dell'esecuzione della pena; mentre, quando decida invece di accogliere l'istanza di revoca, decide per l'appunto che tale norma non debba più essere applicata a detrimento del condannato.

Tanto basta, mi pare, per garantire la 'rilevanza' di eventuali questioni di legittimità costituzionale che il giudice dell'esecuzione intendesse formulare in relazione a tutte le norme, già applicate nel giudizio di cognizione, la cui perdurante vigenza legittima l'esecuzione e la prosecuzione della pena.

Un esempio aiuterà a meglio chiarire il punto. Proviamo a immaginare lo scenario, non del tutto irrealistico, di un condannato per il delitto di incesto che stia scontando una pena detentiva inflitta in conseguenza di tale reato con sentenza ormai definitiva; e ipotizziamo che, nel frattempo, quello stesso condannato (l'unico detenuto in Italia per quel titolo delittuoso) riesca ad ottenere dalla Corte di Strasburgo una pronuncia che dichiara la contrarietà di tale incriminazione al diritto alla sua vita privata e familiare di cui all'art. 8 CEDU. L'unica via a disposizione del condannato per far cessare la violazione in atto del suo diritto alla libertà personale (discendente da una condanna per un reato illegittimo) sarebbe a questo punto quella di un ricorso in executivis per ottenere la revoca della sentenza della condanna. Il giudice dell'esecuzione, tuttavia, non potrebbe direttamente procedere alla revoca di una sentenza all'epoca legittimamente emessa dal giudice di cognizione, e che oggi continua a legittimarsi sulla base di una norma formalmente ancora in vigore, non avendo le sentenze della Corte EDU effetto diretto nell'ordinamento italiano. L'unica possibilità per far cessare l'esecuzione di una condanna lesiva di un diritto fondamentale sarebbe, a questo punto, quella di sollevare questione di legittimità costituzionale sull'art. 564 c.p. per contrasto con l'art. 117 co. 1 Cost. in riferimento all'art. 8 CEDU. Davvero la Corte costituzionale si sentirebbe, in questa ipotesi, di ritenere inammissibile una simile questione, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, sulla base dell'argomento che il giudice dell'esecuzione non sarebbe in realtà legittimato a fare egli stesso applicazione dell'art. 564 c.p.? Se mai la Corte dovesse decidere in tal senso, quale rimedio potrebbe avere quel condannato per far cessare una pena ormai illegittima?

Nel caso che qui ci occupa, la decisione del giudice dell'esecuzione concerneva invero non una norma incriminatrice, ma pur sempre una norma dalla quale discendeva la specie e la misura della pena inflitta al condannato (l'art. 442 co. 2 c.p.p.); una norma, più in particolare, la cui versione più favorevole (quella 'post Carotti') era stata dichiarata inapplicabile al condannato in forza di altra norma (l'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000), che il giudice dell'esecuzione riteneva (fondatamente o meno) essere in contrasto con l'art. 7 CEDU. L'unica via per fare cessare la ritenuta violazione in atto dell'art. 7 CEDU, conseguente alla prosecuzione della pena nei confronti del condannato, consisteva a questo punto nella proposizione di una questione di legittimità costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost. relativamente alla norma la cui applicazione aveva di fatto precluso, e continuava a precludere in sede di esecuzione, una rideterminazione della pena in grado di far cessare la violazione in atto del diritto fondamentale del condannato.

La questione, insomma, sarà stata pure infondata; ma proprio non mi pare che meritasse di essere sprezzantemente liquidata come "manifestamente" irrilevante.

 

6. D'altra parte, e con questa notazione davvero concludo queste note a primissima lettura, proprio non riesco a comprendere come la decisione odierna della Corte possa conciliarsi con l'opposta valutazione di rilevanza della questione effettuata nella parallela sentenza n 210/2013, concernente i veri e propri 'fratelli minori' di Scoppola (ossia coloro che si trovavano nella sua identica situazione, ma non avevano tempestivamente proposto ricorso innanzi alla Corte europea).

In quel procedimento, la Corte di cassazione a sezioni unite, adita in executivis, aveva tra l'altro sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 del d.l. 341/2000, che disponeva come è noto l'applicazione retroattiva dell'ennesima 'controriforma' dell'art. 442 co. 2 c.p.p., attuata con quel medesimo decreto legge che restaurava, di fatto, la pena dell'ergastolo anche nel caso in cui l'imputato avesse optato per il rito abbreviato. Anche lì, dunque, era il giudice dell'esecuzione che (sia pure con la voce particolarmente autorevole del supremo organo di nomofilachia) chiedeva la rimozione di una norma che il giudice della cognizione aveva già applicato, in violazione dell'art. 7 CEDU, con la sentenza ormai passata in giudicato; una norma, però, la cui perdurante presenza nell'ordinamento impediva allo stesso giudice dell'esecuzione di rideterminare la pena, e di porre così ex post riparo alla violazione dei diritti del condannato commessa in sede di giudizio di cognizione.

Ebbene, in quel caso la Corte costituzionale ha ritenuto che il giudice dell'esecuzione si trovasse effettivamente nella necessità di fare (di nuovo) applicazione di quella norma nella decisione sull'istanza del condannato: istanza che il giudice dell'esecuzione avrebbe dovuto respingere proprio in considerazione dell'ostacolo rappresentato da quella norma, a meno che essa non fosse dichiarata incostituzionale dalla Corte. La questione è stata dunque ritenuta rilevante nel giudizio a quo, oltre che fondata nel merito.

Le due decisioni mi paiono, allora, senz'altro contradditorie per ciò che attiene alla valutazione di rilevanza delle rispettive questioni, a prescindere - ripeto - dalla fondatezza o infondatezza nel merito delle questioni medesime. Una contraddizione che, probabilmente, ben riflette le attuali incertezze (in giurisprudenza così come in dottrina) sull'effettiva estensione dei poteri del giudice dell'esecuzione, e in definitiva sullo status stesso del giudicato penale, a fronte - in particolare - del dilemma su come porre rimedio a violazioni di diritti fondamentali derivanti dalla perdurante esecuzione di una sentenza di condanna ormai irrevocabile, ma illegittimamente pronunciata.