3 marzo 2014 |
Per piccoli passi: la vittima di reato cerca spazio nel procedimento penale
Nota a Tribunale di Torino, Sez. G.i.p., ord. 28 gennaio 2014, giud. Recchione
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1. Con l'ordinanza in esame, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino affronta il quanto mai attuale tema della posizione della vittima nel processo penale: nel caso di specie, vengono sondate in particolare l'esistenza-consistenza del diritto di interloquire in ordine alla richiesta di applicazione di pena concordata formulata dalle parti principali, nonché la possibilità di costituirsi parte civile nel corso dell'udienza fissata ad hoc dopo l'esercizio dell'azione penale nelle forme della richiesta di giudizio immediato.
I dubbi non provengono dalla disciplina dettata dal codice di rito penale, alquanto netta nel relegare le doglianze della vittima di reato e della parte civile al di fuori del perimetro ritagliato sul patteggiamento, che anche per questo motivo si segnala come procedimento premiale per l'imputato. In realtà, il bisogno di risposte nasce dal confronto tra la normativa locale e quel consistente patrimonio di diritti che la Direttiva 2012/29/UE - che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione - riconosce alle vittime di reato. Come noto, lo statuto garantistico apprestato in sede europea per la vittima muove dalla richiesta, rivolta ad ogni Stato membro già dalla Decisione quadro 2001/220/GAI (art. 2), di prevedere «nel proprio sistema giudiziario penale un ruolo effettivo e appropriato delle vittime»: intendendosi oggi come tale un compendio di diritti che contemplino anzitutto l'informazione, l'assistenza, la partecipazione e la protezione delle vittime, nonché la possibilità di ottenere una decisione in ordine al risarcimento del danno ad opera dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale, quando il diritto nazionale non preveda che tale decisione venga adottata all'interno di un altro procedimento giudiziario (art. 16 Dir. 2012/29/UE).
Sintetizzando, sembra emergere una linea di demarcazione tra vittima e danneggiato: poiché la prima attinge al paradigma penalistico della tutela giudiziaria e il secondo a quello civilistico, occorre assegnare un preciso ruolo "difensivo" alla vittima nel rito penale, mentre alla pretesa risarcitoria si può rispondere anche altrove. L'irrompere della vittima sulla scena processuale penale rileva, dunque, per quanto ad essa si debba riconoscere un ruolo di impronta penalistica che le permetta di interloquire con i soggetti e le parti principali della contesa, nell'ottica dell'attuazione di un vero e proprio diritto alla tutela dal reato e dal suo autore.
Con questa consapevolezza, allora, l'ordinanza in esame - imbracciando lo strumento dell'interpretazione conforme alla Dir. 2012/29/UE della normativa codicistica - separa le questioni da risolvere: prima di tutto, occorre comprendere sino a che punto la vittima abbia diritto di conoscere le dinamiche rituali e in che misura possa influire su di esse, avuto particolare riguardo all'ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti. Successivamente, occorrerà domandarsi se la vittima danneggiata goda di un diritto al risarcimento da far valere nel rito penale che abbia imboccato la via del patteggiamento.
2. Lo scopo fondamentale della Direttiva 2012/29/UE, come riconosce il relativo art. 1, è «garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali», all'uopo prevedendo norme minime, necessarie ma non per forza sufficienti. Informazione e partecipazione si rapportano teleologicamente, ponendosi il diritto di conoscere quale presupposto di un'effettiva e consapevole attività processuale. Un traguardo noto al nostro sistema, allorché si tratti della posizione dell'imputato; non altrettanto, però, può dirsi della vittima, la quale di fatto non è parte processuale e gode persino di un diritto alla difesa tecnica meramente eventuale, preferendosene tradizionalmente il ruolo di testimone. Rispetto al denominatore comune europeo, dunque, molto resta da fare: soprattutto in ambito di procedimenti speciali deflativi del dibattimento, radicati sul sinallagma che scambia cessione di garanzie e premi, tra i quali figura l'estromissione di ogni richiesta risarcitoria, da farsi semmai valere in sede propria.
Correttamente, però, il giudice procedente sonda la possibilità di riconoscere diritti e poteri alla vittima, ancor prima di verificare se sussistano eventuali richieste civili. Così, la domanda che attende seguito riguarda l'esistenza, o no, del diritto della vittima di conoscere l'evolvere del procedimento. Mentre la Direttiva 2012/29/UE ritrova nella partecipazione una sorta di "macrodiritto" dell'offeso, come tale meritevole di immediata attuazione pro vittima, il codice di rito agisce in modalità spot, prevedendo ad esempio l'accesso al registro delle notizie di reato (art. 335 co. 3 c.p.p.), o la possibilità di essere informati circa l'eventuale richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero (art. 408 co. 2 c.p.p.), oppure la previa dichiarazione di opposizione da parte del querelante alla richiesta di decreto penale di condanna (art. 459 co. 1 c.p.p.), o ancora la notifica del provvedimento relativo all'esecuzione dell'incidente probatorio (art. 398 co. 3 c.p.p.).
Ne emerge un quadro frammentario, in cui però non è detto che ciò che non è previsto espressamente sia vietato o impossibile: così ragionando, l'ordinanza in esame coglie la capacità delle norme della Direttiva di colmare i vuoti lasciati dalla locale legislazione, distribuendo diritti partecipativi là dove al silenzio del legislatore non corrisponda un implicito divieto. Il risultato è degno di un riuscito sillogismo: stante la premessa maggiore di una normativa europea che favorisce in ogni caso la partecipazione della vittima al procedimento penale, e la premessa minore di una normativa interna che all'udienza ex art. 447 c.p.p. per il patteggiamento non ne impedisce la presenza, allora la vittima che abbia avuto conoscenza di tale momento rituale può prendervi parte, essendo ascoltata e potendo produrre memorie.
Il risultato ermeneutico è di quelli che si lasciano apprezzare soprattutto per le buone intenzioni: tuttavia, il reale incremento di garanzie che così si ottiene sembra poco più di un traguardo simbolico. Difatti, dal momento che non esiste un obbligo di notifica alla vittima della fissazione dell'udienza deputata a decidere sul patteggiamento, nella maggior parte dei casi le persone offese non conosceranno neppure l'esistenza di tale momento, restandone fatalmente escluse. Questa circostanza è confermata dal fatto che, nel caso in esame, la vittima ne sia venuta a conoscenza grazie all'estrazione di copie di atti del procedimento a norma dell'art. 116 c.p.p. Inoltre, se è vero - come sottolinea l'ordinanza che ci occupa - che la presenza dell'offeso a questa udienza si giustifica anche perché il danneggiato è escluso dal patteggiamento, rimanendone estranea la domanda risarcitoria, viene da domandarsi quale possa essere il suo reale contributo. Infatti, la vittima si rivelerà sempre contraria alla definizione alternativa del processo, per ragioni tanto di merito quanto di metodo: nel merito, la sentenza di patteggiamento non contiene una positiva pronuncia sulla responsabilità penale dell'imputato, limitandosi (come noto) ad una diagnosi negativa sulla possibilità di prosciogliere ai sensi dell'art. 129 c.p.p. (art. 444 co. 2 c.p.p.), così lasciando insoddisfatto quel bisogno di giudizio implicito nella partecipazione della vittima al processo. Quanto al metodo, l'ascolto della vittima rischia di essere poco più di un agrément, dal momento che neppure il giudice può modificare i termini dell'accordo sulla pena concluso tra pubblico ministero e imputato. Semmai, allora, il naturale interlocutore dell'offeso dovrebbe essere (come effettivamente è) l'organo d'accusa, il quale potrebbe negare il proprio consenso alla conclusione del patto, magari convinto dalle ragioni palesate dalla vittima. Per il resto, le argomentazioni spendibili in udienza potranno al più avere qualche effetto sulla valutazione giudiziale di congruità della pena o sulla subordinazione della concessione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose del reato.
I margini per un effettivo incremento di garanzie partecipative per la vittima certamente non mancano, soprattutto con riguardo ai riti speciali di impronta deflativa del dibattimento; tuttavia, la sola interpretazione conforme poco può, stante un tessuto codicistico decisamente refrattario a istanze differenti dalla celere definizione dei processi, alla quale l'imputato sembra poter aderire solo se lusingato anche attraverso la certezza che vittime e parti civili non avranno voce in capitolo. Servirebbe, in altre parole, un ampio ripensamento legislativo capace di abbracciare l'intero capitolo del ruolo dell'offeso nel processo penale e, a caduta, la sua considerazione nei riti alternativi: qui, difatti, a differenza del dibattimento, sembra esistano maggiori spazi di manovra per la composizione degli interessi contrapposti, sempre che si decida di collocare la vittima su uno dei piatti che rappresentano la bilancia della giustizia penale.
3. Si pone poi il dubbio relativo alla possibilità per la vittima danneggiata dal reato di costituirsi parte civile in occasione dell'udienza fissata per decidere sulla legittimità della richiesta di patteggiamento, nella specie intervenuta a seguito della notifica del decreto che dispone il giudizio immediato.
Riprendendo il sillogismo che lega le fonti concorrenti del diritto, la premessa maggiore (art. 16 Dir. 2012/29/UE) non vincola il legislatore a prevedere che il risarcimento del danno conseguente al reato avvenga nell'ambito del procedimento penale, e la premessa minore (art. 444 co. 2 c.p.p.) afferma che se «vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda». In sostanza, anche qualora il patteggiamento si concluda in udienza preliminare (ove può essersi perfezionata la costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni da reato), la pretesa civilistica viene esclusa e semmai dirottata nella sua sede propria (il processo civile). Ne consegue una strutturale inconciliabilità tra applicazione concordata di pena e risarcimento del danno, come la giurisprudenza - all'uopo richiamata nel provvedimento in oggetto - da tempo saldamente riconosce: la domanda civile può incunearsi nel processo penale solo allorché quest'ultimo segua una via che in astratto possa concludersi con una pronuncia capace di decidere anche sulla responsabilità dell'imputato in ordine al risarcimento del danno. Epilogo al momento escluso per il patteggiamento. Tale scelta legislativa, per molti versi discutibile, non appare però contrastare con le previsioni della Direttiva 2012/29/UE, le quali pongono il risarcimento del danno tra i diritti da assicurare alle vittime, ma non per forza nel processo penale.
Semmai, andrebbe valorizzata la previsione del paragrafo 2 dell'art. 16 della Direttiva, che invita gli Stati a promuovere «misure per incoraggiare l'autore del reato a prestare adeguato risarcimento alla vittima»: spetta dunque al legislatore mettere mano agli ingranaggi del patto che perfeziona l'accordo sulla pena, magari pensando che il reale coinvolgimento della vittima o una maggiore considerazione delle richieste risarcitorie potrebbero alla fine sortire effetti positivi in chiave di macroeconomia giudiziaria, impedendo la proposizione di altrettante cause civili.
4. Resta, da ultima, la questione attinente alla rimborsabilità delle spese sostenute dalle vittime per partecipare alle udienze. Sul tema, la Direttiva 2012/29/UE rimette al diritto nazionale di decidere a quali condizioni e in che modo alle vittime spetti un rimborso (art. 14); peraltro, si specifica che sebbene non si dovrebbe esigere «che le vittime sostengano spese per partecipare ai procedimenti penali», gli Stati non dovrebbero essere tenuti a rifondere le spese legali, ma solo quelle sostenute quando la vittima sia «obbligata o invitata dalle autorità competenti a essere presente e a partecipare attivamente al procedimento penale» (Considerando n. 14). Dal canto suo, la normativa locale disciplina (artt. 45 e 46 d.P.R. 115/2002) il rimborso delle spese sostenute dai testimoni citati e autorizzati ad intervenire, mentre per le spese legali può, sussistendone le condizioni, farsi ricorso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Ancora una volta, allora, si deve ripetere che per aversi un reale incremento di garanzie partecipative per le vittime di reato non basta l'impegno profuso attraverso complicate (e, su larga scala, anche pericolose, stante la difficoltà di condurre il diritto unwritten a tendenziale stabilizzazione e prevedibile unitarietà) operazioni ermeneutiche intese a ricercare i margini di compatibilità e integrabilità tra diversi livelli dell'ordinamento, ma sarebbe quanto mai opportuno un intervento sistematico del legislatore. Persino con specifico riguardo al tema delle spese, quindi, una concreta risposta alla vittima arriverebbe se si trasformasse il suo ruolo da mero osservatore interessato a parte comprimaria dei destini del giudizio penale.