ISSN 2039-1676


15 maggio 2014 |

Il (superato) limite del giudicato e l'ampiezza dei poteri del giudice dell'esecuzione a fronte dell'incostituzionalità  della cornice edittale: prime pronunce a seguito della sent. n. 32/2014

Trib. Milano, Sez. XI pen., 3 aprile 2014, (ord.) Giud. Cotta; Trib. Trento, Sez. Incidenti esecuzione, 18 aprile 2014, (ord.) Giud. Ancona

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1. I provvedimenti in esame affrontano la questione, di grande attualità, relativa ai rapporti tra giudicato e sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di norme penali in punto di trattamento sanzionatorio. Nei casi di specie, l'incidente di esecuzione scaturiva dalle richieste, avanzate da due condannati in via definitiva per cessione di "droghe leggere", di ottenere la rideterminazione della pena, quest'ultima essendo stata commisurata sulla base di una cornice edittale poi dichiarata illegittima dalla sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale[1].

Le due ordinanze, anzitutto, valutano se il giudicato possa essere superato in casi diversi da quelli di sopravvenuta incostituzionalità della norma incriminatrice, giungendo sul punto alla conclusione affermativa, in conformità alla recente pronuncia delle Sezioni Unite del 24 ottobre 2013 (dep. 7 maggio 2014), n. 18821 (in merito a tale pronuncia e al dibattito retrostante, v. F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei "fratelli minori" di Scoppola, in questa Rivista, 12 maggio 2014). In secondo luogo, le due pronunce si soffermano sul problema - viceversa tuttora aperto - dei poteri del giudice dell'esecuzione in punto di rideterminazione della pena, giungendo a tale proposito a conclusioni parzialmente divergenti[2].

 

2. Iniziando dalla prima questione indicata, benché, come già ricordato, siano state nel frattempo depositate le motivazioni delle Sezioni Unite, pare comunque interessante riassumere brevemente gli iter argomentativi delle due ordinanze in esame. Il Tribunale di Milano rileva che il limite del giudicato non si pone quando «la sentenza emessa applicando la norma incostituzionale sia in esecuzione». A tal proposito viene evidenziata la specificità dell'illegittimità costituzionale, che determina effetti differenti rispetto a quelli che si verificano nel caso di successione di leggi nel tempo. In particolare, dal combinato disposto degli artt. 136 Cost. (ai sensi del quale la norma illegittima "cessa di avere efficacia") e 30, comma 4 L. 87/1953 (secondo cui "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali") si può dedurre che «l'ordinamento non può tollerare il permanere degli effetti ancora in atto di una legge non più efficace» in quanto per l'appunto illegittima. A sostegno di tali conclusioni vengono richiamati noti precedenti conformi della Cassazione (Cass., Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, Hauhou e Cass., Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh Assic, riguardanti entrambe gli effetti dell'incostituzionalità dell'aggravante di clandestinità stabilita dalla sent. n. 249/2010[3]). La norma processuale che fonda il potere di rideterminare la pena in capo al Giudice dell'esecuzione è rinvenuta nell'art. 673 c.p.p., interpretato estensivamente alla luce della giurisprudenza di legittimità già citata: il riferimento testuale alla "norma incriminatrice" contenuto nella disposizione non impedisce tale interpretazione, data l'«assimilabilità» delle due situazioni; l'unica differenza consiste nel fatto che non sarà possibile la revoca della sentenza di condanna nella sua interezza, ma «solo delle parti della decisione incompatibile con la situazione determinatesi a seguito della declaratoria di incostituzionalità, e la loro concomitante sostituzione con disposizioni compatibili: nella specie, dunque, la rideterminazione della pena inflitta (...) per essere ricondotta nell'alveo normativo legale».

Il Tribunale di Trento, per parte sua, ripercorre brevemente i termini del contrasto che si era formato in materia, e che oggi deve considerarsi ricomposto dalle già citate SSUU. Un primo orientamento[4] afferma che il giudicato penale costituisca un limite invalicabile all'espansione retroattiva degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità avente ad oggetto una norma diversa da quella incriminatrice. Si argomenta, in particolare, che l'art. 673 c.p.p. ha disciplinato la materia nella sua interezza e, pertanto, ha implicitamente abrogato il predetto art. 30 L. 87/53 (il quale ultimo veniva in ogni caso limitato alle ipotesi di caducazione di norma incriminatrice, l'unica in grado di giustificare la "cessazione di tutti gli affetti penali"); pertanto, poiché l'art. 673 testualmente stabilisce che il giudicato è infranto solo quando l'illegittimità colpisce la "norma incriminatrice", non può che dedursi l'insensibilità dello stesso alla declaratoria di incostituzionalità di tutte le altre norme sostanziali che hanno concorso a determinare il trattamento sanzionatorio. Il secondo orientamento citato dal Tribunale trentino muove da un presupposto diverso: se è vero che l'esecuzione della pena si fonda non direttamente sulla legge, ma sulla sentenza definitiva, sembra tuttavia eccessivamente formalistico ritenere sufficiente che la sentenza sia conforme alla legislazione vigente al tempo in cui fu pronunciata, rendendola impermeabile alle eventuali successive declaratorie di incostituzionalità che colpiscono norme sostanziali diverse da quella incriminatrice. L'art. 673 c.p.p. riguarda lo specifico caso in cui sia stata dichiarata incostituzionale la norma incriminatrice, e dispone la più drastica conseguenza della revoca della sentenza; l'art. 30, c. 4 L. 87/1953, lungi dall'essere abrogato, si applica in tutte le altre ipotesi in cui una norma costituzionalmente illegittima abbia concorso a determinare una quota della pena, la cui esecuzione deve cessare.

 

3. Passando alla seconda questione, già si è anticipato che le due pronunce in commento differiscono notevolmente quanto ai poteri che i rispettivi Giudici ritengono di essere legittimati a esercitare circa la rideterminazione della pena.

Il Giudice di Milano, infatti, rileva che «una illimitata possibilità di intervenire sulla valutazione della pena di cui alla sentenza comporterebbe una inaccettabile e arbitraria violazione del giudicato, ben oltre i limiti necessitati e consentiti dalla situazione giuridica delineata». Essendo oggi le condotte legate a droghe leggere sanzionate secondo un'autonoma e più mite cornice edittale, sarebbe arbitrario - prosegue l'ordinanza milanese - trasferire in quest'ultima la "proporzione" di pena decisa a suo tempo alla luce di un diverso contesto normativo. Onde evitare di impegnarsi in una valutazione di natura discrezionale, al di fuori della disponibilità del diudice dell'esecuzione[5], l'ordinanza si limita a «riportare la pena nell'alveo edittale» attuale, abbassandola da anni 6 e mesi 3 ad anni 6, ossia dal "vecchio" minimo di poco aumentato al "nuovo" massimo.

Al contrario, il Giudice di Trento procede a una penetrante rideterminazione che, pur «ripetendo i percorsi schemi tracciati dalla sentenza di applicazione della pena», lo porta a rideterminare la pena base dal vecchio al nuovo minimo edittale, effettuando al contempo un diverso bilanciamento delle circostanze alla luce del mutato quadro sanzionatorio. Il giudice, tuttavia, non motiva alcunché riguardo all'ampiezza dei poteri che esercita; si può dedurre che egli, avendo riconosciuto la propria competenza a rimodulare la pena, ritenga implicito e automatico che tale potere si estenda a individuare la misura della stessa alla luce dei nuovi limiti, purché nel rispetto dell'insindacabile iter argomentativo rinvenibile nella sentenza definitiva.

 

4. Sullo sfondo di queste pronunce, dunque, l'interrogativo che rimane aperto - ed in merito alla quale si guarda all'imminente pronuncia delle Sezioni Unite attesa per il 29 maggio[6]- riguarda il problema dei limiti che incontra il potere del giudice dell'esecuzione nel momento della determinazione della nuova pena. Le alternative prospettate dai giudici milanese e trentino sono, rispettivamente, quella di limitarsi ricondurre la pena all'interno della cornice edittale legittima (in particolare, in corrispondenza del nuovo massimo consentito, qualora la condanna definitiva fosse stata ad una pena superiore); oppure quella della ri-commisurazione della pena sulla base della normativa validamente vigente ed alla luce delle valutazioni poste alla base della sentenza definitiva da parte del giudice di cognizione (in favore di questa seconda soluzione, cfr.  ampiamente Viganò, Pena illegittima e giudicato, p. 11 ss.).

 



[1] Si rimanda ai numerosi contributi presenti su questa Rivista per una ricostruzione dell'ormai nota vicenda dell'incostituzionalità della c.d. "Fini-Giovanardi".

[2] Per un caso analogo a quelli in parola si segnala la pronuncia GIP Trib. Pisa, 15 aprile 2014, in questa Rivista, 11 maggio 2014 con nota di M.C. Ubiali, Dichiarazione di incostituzionalità della dichiarazione più sfavorevole. Il giudice dell'esecuzione ricalcola la pena.

[3] Favorevole alla rideterminazione della pena in executivis a fronte della declaratoria di illegittimità della cd. aggravante di clandestinità (C. Cost. n. 249/2010) risulta la quasi totalità della giurisprudenza di legittimità sul punto.

[4] Cfr. Cass, Sez. I, 19 gennaio 2012 n. 27640, anch'essa relativa alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'aggravante di clandestinità.

[5] Una soluzione di questo tenore era stata prospettata in dottrina: cfr. V. Manes - L. Romano, L'illegittimità costituzionale della c.d. "Fini-Giovanardi": gli orizzonti attuali della democrazia penale, in questa Rivista, 23 marzo 2014, p. 31, secondo cui, nelle ipotesi in questione, «attribuire al giudice dell'esecuzione il compito di riportare il "fine pena" all'attuale massimo sembrerebbe infatti tanto doveroso sul piano assiologico (perché il frammento di maggior pena è illegittimo) quanto percorribile sul piano logico (perché si sostituisce con l'attuale massimo)». Gli stessi Autori riconoscono però che tale situazione è inappagante.

[6] Il caso all'attenzione delle Sezioni Unite verte sulla rideterminazione della pena definitiva in seguito all'illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, co. 5 del d.P.R. 309/1990 sulla recidiva di cui all'art. 99, co. 4 c.p. Cfr. Romeo, Poteri del giudice dell'esecuzione dinanzi a dichiarazione di incostituzionalità di norma penale 'non incriminatrice': metamorfosi di una questione rimessa alle Sezioni unite?, in questa Rivista, 24 febbraio 2014.