ISSN 2039-1676


23 settembre 2014 |

La sentenza delle Sezioni Unite sulla rilevanza dei redditi non dichiarati al fisco ai fini della confisca di prevenzione

Cass., Sez. Unite, 29 maggio 2014 (dep. 29 luglio 2014), n. 33451, Pres. Santacroce, Rel. Zampetti, Imp. Repaci

 

1. Con la sentenza che qui pubblichiamo, le Sezioni Unite - confermando l'orientamento sino ad oggi seguito dalla giurisprudenza prevalente - hanno escluso che, ai fine dell'applicabilità della confisca di prevenzione, il destinatario della misura possa giustificare la disponibilità di beni in valore sproporzionato al proprio reddito allegando proventi non dichiarati al fisco.

 

2. In estrema sintesi, la Suprema Corte è chiamata qui a pronunciarsi sul ricorso presentato avverso il decreto della Corte d'appello che aveva confermato il provvedimento di confisca disposto dal Tribunale ai sensi dell'art. 2 ter della legge n. 575/1965. Il provvedimento di confisca aveva come oggetto numerosi beni mobili e immobili, nella disponibilità del proposto in valore sproporzionato al reddito da questi dichiarato ai fini delle imposte.

Il destinatario della misura lamenta - tra le altre cose - che i giudici di merito non abbiano considerato, al fine di valutare la legittima provenienza dei beni e la legittimità del loro acquisto, i redditi non dichiarati al fisco realizzati svolgendo un'attività economica lecita.

 

3. Come noto, la confisca di prevenzione - originariamente prevista dall'art. 2 ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 e oggi disciplinata dagli artt. 16 e ss. del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) - può essere disposta dall'autorità giudiziaria sui beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento di prevenzione «risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica svolta, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego» e di cui lo stesso non possa giustificare la legittima provenienza.

La questione controversa sulla quale è stato sollecitato l'intervento delle Sezioni Unite è se ai fini della confisca in questione, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e il reddito dichiarato o le attività economiche svolte dal soggetto, titolare diretto o indiretto dei beni, debba tenersi conto o meno anche dei proventi dell'evasione fiscale (su tale problematica si vedano tutti i documenti correlati elencati nella colonna di destra di questa pagina e, in particolare, i contributi di A.M. Maugeri, La confisca allargata: dalla lotta alla mafia alla lotta all'evasione fiscale? - clicca qui per accedervi - , e di F. Menditto, F., La rilevanza dei redditi da evasione fiscale nella confisca di prevenzione e nella confisca "allargata" - clicca qui per accedervi -, entrambi a commento dell'ordinanza di rimessione alle Sez. Unite).

 

4. Bisogna innanzitutto precisare che in relazione a questa specifica questione non sussiste in realtà alcun contrasto giurisprudenziale. Come osservano le Sezioni Unite, la Corte di cassazione ha espresso una solida unità di indirizzo, in senso decisamente negativo. Infatti, salvo in un caso (Cass., Sez. VI, 24 ottobre 2012, n. 44512, Giacobbe, in Mass. CED Cass.), che però costituisce un precedente isolato, la giurisprudenza di legittimità ha sempre negato che i proventi dell'evasione fiscale potessero rilevare per giustificare la provenienza legittima dei beni, pur senza approfondire se tali proventi si identificano con l'intero imponibile al lordo dell'imposta dovuta ovvero solo con l'importo corrispondente all'imposta evasa (cfr., tra le altre, Cass., Sez. IV, 5 febbraio, 1990, n. 265, Montalto, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. V., 10 novembre 1993, n. 3561, Ciancimino, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. I, 15 gennaio 1996, n. 148, Anzelmo, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. VI, 23 gennaio 1996, n. 258, Bonanno, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. II, 26 gennaio 1998, n. 705, Corsa, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. I, 2 luglio 1998, n. 3964, Arcuri,  in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. I, 20 novembre 1998, n. 5760, Iorio, in Mass. CED Cass., Cass., Sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, Riela, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 36762, Lo Iacono, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 6570, Brandi, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. II, 27 marzo 2012, n. 27037, Bini, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. I, 17 maggio 2013, n. 39204, Ferrara, in Mass. CED Cass.).

Secondo questa giurisprudenza, i proventi dell'evasione fiscale non possono essere considerati proventi leciti perchè derivano pur sempre da un'attività costituente reato, e pertanto devono essere assoggettati alla confisca di cui all'art. 2 ter della legge n. 575/1965 (oggi art. 16, d.lgs. n. 159/2011) che espressamente prevede la confisca anche «dei beni che risultino frutto di attività illecite».

Secondo questo orientamento, non può avere rilevanza neppure l'eventuale condono fiscale che abbia l'effetto di far rientrare legalmente nel patrimonio del proposto le somme sottratte al fisco, «dal momento che l'illiceità originaria del comportamento con cui quest'ultimo se le era procurate continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca» (così Cass., Sez. II, 6 maggio 1999, n. 2181, Sannino, in Mass. CED Cass.).

 

5. Un contrasto giurisprudenziale si registra invece in relazione all'analoga questione sorta a margine della c.d. confisca allargata di cui all'art. 12 sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, cioè la confisca che il giudice penale deve disporre in caso di condanna per alcuni reati particolarmente gravi elencati dallo stesso art. 12 sexies, e che ha come oggetto il denaro, i beni o le altre utilità «di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, o alla propria attività economica».

Secondo un primo e più risalente orientamento giurisprudenziale, ripreso però anche di recente da alcune sentenze della Corte di cassazione, l'imputato destinatario della misura ablativa non potrebbe giustificare la legittima provenienza del bene allegando proventi di un'attività economica lecita ma non dichiarata al fisco, perchè si tratterebbe di proventi comunque illeciti (cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 10 giugno 1994, n. 2860, Moriggi, in Mass. CED Cass.; nonché, più di recente, Cass., Sez. II, 28 settembre 2011, n. 36913, Lopalco, in DeJure).

In base a un secondo e più recente orientamento, invece, al fine di valutare la legittima provenienza dei beni di cui il condannato risulta avere la disponibilità in misura sproporzionata rispetto al proprio reddito, si dovrebbe tener conto di tutte le fonti lecite di produzione del patrimonio, «sia che esse siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali, sia che provengano dall'attività economica svolta, benché non evidenziate, in tutto o in parte, nella dichiarazione dei redditi» (così Cass., Sez. I, 5 novembre 2013, n. 9678, Creati, in Mass. CED Cass.; conformi, tra le altre, Cass., Sez. VI, 15 dicembre 2011, n. 21265, Bianco, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. VI, 28 novembre 2012, n. 49876, Scognamiglio, in Mass. CED Cass.; Cass., Sez. I, 22 gennaio 2013, n. 6336, Mele, in Mass. CED Cass.).

Questa conclusione sarebbe imposta dalla ratio dell'istituto che mira a colpire i proventi di attività criminose e «non a sanzionare la condotta di infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione del reddito, e per la quale soccorrono specifiche previsioni in materia tributaria» (così Cass., Sez. VI, 31 maggio 2011, n. 29926, Tarabugi, in questa Rivista, con nata di F. Menditto, Sulla rilevanza dei redditi non dichiarati al fisco ai fini del sequestro e della confisca di cui all'art. 12-sexies del d.l. n. 306/92, conv. dalla l. n. 356/92).

 

6. Ad avviso della Sezione che ha rimesso la questione allo scrutinio delle Sezioni Unite (clicca qui per accedere all'ordinanza a suo tempo pubblicata sulla nostra Rivista), «la diversità di orientamenti (contrastato al suo interno l'uno, uniforme l'altro), ancorché relativo a confische disciplinate da normative diverse (art. 12-sexies d.l. 306/1992, in funzione di sanzione accessoria, e art. 2.ter l. 575/1965, in funzione di misura di prevenzione), non sembra trovare logica giustificazione», in quanto i testi normativi parrebbero del tutto sovrapponibili e «comune si appalesa, per entrambi gli istituti, la ratio legis, che è quella di contrastare soggetti socialmente pericolosi e dediti al delitto colpendone i patrimoni».

 

7. Con la sentenza qui annotata, la Suprema Corte ha confermato l'orientamento sino ad ora seguito della giurisprudenza di legittimità e ha affermato il seguente principio di diritto: «ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (attualmente articolo 24 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, [non] deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale»[1].

 

 

8. Secondo le Sezioni Unite, diversamente da quanto sostenuto nell'ordinanza di rimessione, la confisca di prevenzione e la confisca di cui all'art. 12 sexies, d.l. n. 306/1992, non sono accumunate dalla medesima ratio e i testi legislativi che rispettivamente disciplinano le due misure non sono in realtà sovrapponibili.

Osserva, infatti, il collegio che la confisca prevista dall'art. 12 sexies del d.l. n. 306/1992 è subordinata alla condanna per alcuni delitti, mentre la confisca di prevenzione è ancorata a un giudizio di pericolosità che prescinde dall'accertamento in ordine alla commissione di reati.

In secondo luogo, «la confisca c.d. allargata è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità ed alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica, quella di prevenzione aggiunge (profilo estraneo alla confisca ex art. 12-sexies) in alternativa («ovvero quando») la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed al reimpiego delle stesse ("beni [...] che siano il frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego")».

La diversità dei presupposti che giustificano l'applicazione della misura e la differente struttura normativa, «già esclude che possa porsi la prospettata unità di ratio legis». Ad avviso delle Sezioni Unite, si tratterebbe «di provvedimenti ablatori che agiscono in campi diversi e hanno diverse latitudini»: la confisca di cui all'art. 2 ter della legge n. 575/1965 (oggi art. 24 d.lgs. n. 59/2011) è una misura di prevenzione che mira a sottrarre alla disponibilità del preposto tutti i beni che siano frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego, in questo modo impedendo che tali beni siano utilizzati per realizzare ulteriori vantaggi (non necessariamente reati) e che il funzionamento del sistema economico legale sia alterato da anomali accumuli di ricchezza; la confisca di cui all'art. 12 sexies del d.l. n. 306/1992 è una misura di sicurezza atipica che, attraverso l'ablazione del patrimonio di cui la legge presume l'origine illecita in ragione della sproporzione tra il valore dei beni e i redditi dichiarati o l'attività economica svolta dal condannato per alcuni delitti di particolare gravità, «mira principalmente ad impedire la commissione di nuovi reati».

La diversità di struttura e di ratio, secondo le Sezioni Unite, giustifica i diversi orientamenti seguiti dalla giurisprudenza in punto di rilevanza dei proventi dell'evasione fiscale.

È coerente con la struttura normativa dell'art. 12 sexies, d.l. n. 306/1992, «che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il "reddito dichiarato" o con la "propria attività economica"», che si possa «tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (perché comunque rientranti nella propria "attività economica") secondo i più recenti e prevalenti approdi giurisprudenziali». Ed è ugualmente coerente con la struttura normativa dell'art. 2 ter, legge n. 575/1965 (oggi art. 24 d.lgs. n. 159/2011), «che tale approdo non possa essere applicabile alla confisca di prevenzione per la quale rileva - e dunque non è deducibile a discarico - anche il fatto che i beni siano "il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego"» perchè «sicuramente l'evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche qualora non integri reato».

 

9. Una volta affermata l'illiceità - e, dunque, l'inopponibilità - dei redditi derivanti da evasione fiscale, resta da precisare se tali redditi si identifichino con l'intero reddito imponibile (al lordo dell'imposta dovuta) ovvero solo con l'importo corrispondente all'imposta evasa.

Il quesito, però, resta insoluto perché le Sezioni Unite ritengono che il caso di specie - in cui è pacifico che l'evasione fiscale è stata di dimensioni colossali ed è stata ripetuta negli anni - non consenta di effettuare una valutazione sulla quota confiscabile (valutazione che avrebbe senso solo ove si trattasse di un'evasione puntuale, circoscritta e unisussistente). Nel caso di evasione fiscale ripetuta nel tempo, si attua inevitabilmente un reimpiego delle utilità illecite nel circuito economico dell'evasore, con conseguente confusione di proventi leciti e illeciti. Conclude, allora, la Corte che «al di là dell'impossibilità pratica di accertare la concreta distinzione in caso di lunghi periodi, è del tutto evidente, per legge economica, che le attività lecite non sarebbero state le stesse (con quei volumi e con quei profitti) ove vi fosse stato l'impiego di capitali minori (solo quelli leciti): dunque l'inquinamento, per definizione e per legge logico-economica, non può non essere omnipervasivo e travolgente».

 

10. Confidando di poter fornire quanto prima un commento più articolato a questa importante pronuncia, ci limitiamo solo a formulare due brevissime considerazioni "a caldo".

Affermare che non possono essere valutati i proventi di un'attività economica lecita ma non dichiarata al fisco al fine di escludere la sproporzione di cui all'art. 2 ter, legge n. 575/1965 (oggi art. 24 d.lgs. n. 159/2011), appare di problematica compatibilità con la lettera della legge, che impone di tener conto, oltreché del reddito dichiarato, anche dell'attività economica svolta lecitamente (la confisca di prevenzione colpisce i beni di cui il proposto ha la disponibilità «in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica»). Questa soluzione, pertanto, sembra porsi in tensione con il principio di legalità.

Escludere poi ogni rilevanza al fine di giustificare la legittima provenienza dei beni, non solo al provento dell'evasione fiscale (vale a dire la quota corrispondente all'imposta evasa), ma all'intero reddito non dichiarato al fisco, sulla base all'assunto che quando l'evasione è ripetuta nel tempo risulta impossibile operare in concreto una distinzione tra proventi dell'attività economica lecitamente svolta e proventi dell'evasione fiscale, può portare alla confisca dell'intero patrimonio dell'evasore e finisce per trasformare la misura di prevenzione in uno strumento sanzionatorio di inusitata afflittività. Questa conclusione sembra porsi in tensione con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, oltreché con il diritto di proprietà del destinatario della misura.

 


[1] Con ordinanza resa il 30 ottobre 2014 (clicca qui per accedervi) le Sezioni Unite hanno corretto l'errore materiale che inficiava il principio originariamente formulato, disponendo che là dove è scritto «deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale», deve leggersi «non deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale».