24 giugno 2015 |
La sentenza della Cassazione sul caso Berlusconi-Ruby: tra morale e diritto
Editoriale
Il contributo è pubblicato nel n. 4/2015 della nostra Rivista trimestrale. Clicca qui per accedervi.
A proposito di Cass. Pen., Sez. VI, 10.3.2015 (dep. 28.5.2015), n. 22526, Pres. Milo, Est. Villoni, ric. P.G. c. Berlusconi
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1. Il 28 maggio scorso la Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza - che qui può leggersi in allegato - con la quale è stato rigettato il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano avverso la sentenza della Corte meneghina che, nel luglio del 2014, aveva assolto l'ex Presidente del Consiglio dei Ministri dai reati di concussione (art. 317 c.p.) e prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.), per i quali era stata invece pronunciata sentenza di condanna da parte del Tribunale di Milano.
La vicenda è a tutti nota: l'accusa di concussione è stata mossa dalla Procura di Milano per la richiesta - rivolta al Capo di Gabinetto del Questore di Milano, per telefono, nel cuore della notte, dall'allora Presidente del Consiglio - di rilasciare la minorenne Ruby, fermata poche ore prima perché accusata di furto; richiesta motivata col pretesto di ragioni diplomatiche - ancorate a un'inesistente rapporto di parentela con l'allora Presidente egiziano Mubarak - e in realtà volta a occultare attività di prostituzione realizzate, anche e proprio da Ruby, presso la residenza di Arcore dell'ex Presidente del Consiglio (nel contesto del famigerato 'bunga-bunga'). L'accusa di prostituzione minorile è stata poi mossa, sempre dalla Procura di Milano, per gli atti sessuali compiuti dal Presidente Berlusconi con Ruby, all'epoca dei fatti minorenne, in cambio di denaro e altre utilità economiche.
Confermando la sentenza della Corte d'Appello di Milano, la Cassazione rende definitiva l'assoluzione del Presidente Berlusconi perché il fatto di concussione non sussiste, difettando una condotta costrittiva, e, in particolare, una vera e propria minaccia rivolta al Capo di Gabinetto del Questore di Milano, e perché il fatto di prostituzione minorile, pur accertato nella sua materialità, non costituisce reato in quanto realizzato senza la consapevolezza dell'età minore dell'avvenente ragazza.
2. La vicenda giudiziaria - accompagnata, in Italia e all'estero, da un enorme clamore mediatico (a detrimento dell'immagine del Paese) - è paradigmatica di quanto, a volte, la giustizia penale possa essere avvertita come ingiusta. Ma come, si domanda il cittadino, si accerta un abuso di potere commesso dal Presidente del Consiglio, si accerta altresì che lo stesso ha pagato una minorenne per avere rapporti sessuali, e tutto finisce nel nulla, con un'assoluzione? Ebbene sì. Perché ciò che rileva per il giudizio morale-politico, che orienta (o dovrebbe orientare) le libere scelte del cittadino-elettore, non sempre coincide - come mostra la vicenda in esame - con quel che, in un sistema retto dal principio di legalità, è sufficiente per fondare l'affermazione della responsabilità penale. La valutazione etica, insomma, non sempre combacia con quella penalistica, almeno da quando si è reciso e reso non imprescindibile il nesso tra diritto e morale. Se ben amministrata, in conformità al canone della soggezione del giudice alla legge, la giustizia penale non risponde agli umori o allo sdegno dei più, per fatti eticamente riprovabili: risponde e deve rispondere solo alla legge, per l'appunto, e ai principi che fondano il sistema, a partire da quelli di rango costituzionale. Anche a costo di apparire come ingiusta.
3. Il profilo delle valutazioni morali-politiche, necessariamente implicate in una vicenda tanto clamorosa, che ha coinvolto un'alta carica dello Stato, non è certo compito del giurista. Il giurista può però - e forse deve, se non vuole chiudersi in una torre d'avorio - svolgere una funzione civica mettendo in risalto, nel complesso di una sentenza, pur di assoluzione, gli elementi di valutazione rilevanti per il giudizio morale e politico dei cittadini. Ebbene, in questa prospettiva la lettura della sentenza della Cassazione, qui allegata, conferma almeno due dati di fatto tutt'altro che irrilevanti e risultati definitivamente accertati, se pur nel contesto di una vicenda conclusasi con un'assoluzione, altrettanto definitiva: l'ex Presidente del Consiglio
a) ha commesso un abuso di potere allorché ha chiesto al Capo di Gabinetto della Questura di Milano di rilasciare la minorenne Ruby (cfr. in partic. p. 20 della sentenza della Cassazione);
b) ha compiuto atti sessuali a pagamento con una minorenne (cfr. in partic. p. 21 della sentenza della Cassazione, dove viene "data per acquisita la prova certa che, presso la residenza di Arcore...vi fu esercizio di attività prostitutiva che coinvolse anche" Ruby).
Non ha però commesso fatti penalmente rilevanti: perché l'abuso di potere rileva per il diritto penale solo quando è realizzato secondo le modalità tipiche di una determinata figura di reato (es. concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d'ufficio), ritenute insussistenti nel caso di specie; e perché, in un sistema in cui avere rapporti sessuali con una prostituta non è reato, gli atti sessuali a pagamento con persona minorenne rilevano penalmente solo se l'agente è consapevole, per l'appunto, dell'età minore della partner. Ed è quest'ultima una circostanza di fatto - decisiva - che all'esito del processo Ruby non è stata provata, almeno secondo quanto ha ritenuto la Corte d'Appello di Milano, con una motivazione ritenuta dalla Cassazione priva di vizi sotto i profili della contraddittorietà e della illogicità.
4. Sotto il profilo delle valutazioni giuridiche - in particolare, di quelle di diritto sostanziale - la sentenza della Cassazione sul caso Ruby si segnala per più di una ragione.
4.1. Diciamo subito che nell'economia complessiva della motivazione della sentenza, l'imputazione di prostituzione minorile (pp. 20-27) - oggetto delle maggiori attenzioni da parte dei media e dell'opinione pubblica - ha in realtà un ruolo secondario e pone indubbiamente "minori problemi" (p. 20), legati pressoché esclusivamente alla vicenda 'in fatto' e alla tenuta della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla prova della mancata consapevolezza, da parte del celebre imputato, dell'età minore di Ruby, all'epoca dei rapporti sessuali. Sul punto rinviamo il lettore alla sentenza allegata, non senza però sottolineare che la Cassazione, come si è anticipato, con un'interessante e articolata argomentazione ha ritenuto immune da vizi la motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Milano e ha confermato l'assoluzione dal delitto di prostituzione minorile. Ciò dopo aver ribadito, in punto di diritto (p. 20/21), che il principio di colpevolezza esige, per la rimproverabilità personale del fatto (si richiamano le note sentenze nn. 364/1988 e 322/2007 della Corte costituzionale) che tutti e ciascuno gli elementi della fattispecie di cui all'art. 600 bis c.p. siano investiti dal dolo, compresa l'età minore della persona con la quale si hanno rapporti sessuali. La rilevanza della colpa, in ordine a questo elemento del fatto di reato, è stata stabilita solo dopo la commissione del fatto, per effetto dell'introduzione del nuovo art. 602 quater c.p. (inserito dalla l. 1° ottobre 2012, n. 172), a norma del quale l'autore del delitto di prostituzione minorile (e degli altri delitti previsti nella Sezione I, Capo III, Libro II del Codice penale) "non può invocare a propria scusa l'ignoranza dell'età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile". Con una disposizione del tutto analoga a quella contestualmente introdotta nel riformato art. 609 sexies c.p. (e 'anticipata', in via di interpretazione conforme al principio di colpevolezza, dalla sent. n. 322/2007 della Corte costituzionale), il legislatore ha così dato rilievo all'ignoranza evitabile - e pertanto colpevole - dell'età minore della persona offesa. Orbene, come afferma la Cassazione, nella sentenza annotata (p. 20), "trattasi di previsione che incide sull'elemento soggettivo dell'illecito, in particolare riducendo l'area dell'errore di fatto scusabile (art. 47 comma 1 c.p.) e come tale consistente in una modifica in senso sfavorevole all'autore del reato, soggetta al principio dell'applicazione retroattiva o ultrattiva della legge più favorevole di cui all'art. 2, comma 4 c.p.".
4.2. Assai più articolata - e rilevante sotto il principio dell'enunciazione dei principi di diritto - è la parte della motivazione relativa all'imputazione di concussione.
a) La S.C. mostra, anzitutto, di seguire la strada recentemente tracciata dalle Sezioni Unite con la sentenza Maldera: la concussione è configurabile in presenza di una condotta realizzata con modalità costrittive e, in particolare, attraverso violenza fisica o (come per lo più avviene) minaccia, cioè prospettazione di un danno ingiusto. Orbene, secondo la sentenza annotata la Corte d'Appello di Milano ha escluso, con un "logico" e "persuasivo" apprezzamento del compendio probatorio, che nel caso di specie l'ex Presidente del Consiglio abbia richiesto la liberazione di Ruby con una vera e propria minaccia. E' una conclusione alla quale la S.C. perviene attraverso una lettura restrittiva del concetto di minaccia penalmente rilevante (e, di conseguenza, della concussione stessa), coerente con quella proposta dalla citata sentenza Maldera delle Sezioni Unite e nella quale - sia consentito segnalarlo - ci sembra trovino conferma alcune tesi di fondo da noi sostenute in un lavoro monografico del 2013 (G.L. Gatta, La minaccia, contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013 - ivi, in partic., p. 238 s.). E' una lettura garantista che, in ossequio al principio di legalità, è attenta a restituire al concetto di 'minaccia' le note tipiche della modalità della condotta 'costrittiva' che il legislatore ha individuato, nell'art. 317 c.p. per selezionare i fatti penalmente rilevanti di concussione. Troppo spesso quel concetto viene invece rarefatto dalla giurisprudenza, che fa riferimento, in decine di massime tralatizie, a qualsiasi comportamento capace di incutere timore. Nel nostro lavoro del 2013 sottolineavamo, in proposito, che per reggere il confronto con la violenza fisica - modalità alternativa della condotta, nelle fattispecie incardinate sulla coazione del soggetto passivo - la minaccia deve consistere in un atto di sopraffazione prepotente, diretto contro l'integrità psichica del destinatario. E se anche è configurabile in via di principio una minaccia 'implicita' - nessuno può negarlo, con sano realismo (basti pensare al contesto mafioso) - è anche vero che per la realizzazione di un fatto penalmente rilevante di minaccia è necessaria la prova di "un minimium di comportamento minatorio, che deve essere oggetto di prova - di riscontri oggettivi - in sede processuale" (G.L. Gatta, La minaccia, cit., p. 242). E' necessaria l'esteriorizzazione di una condotta intimidatoria, anche perché, come insegna un'antica tradizione giuridica, che affonda le più salde radici nel diritto canonico, la minaccia presuppone che il metus sia incusso ab extrinseco, essendo irrilevante ogni forma di metus ab intrinseco. In passato la mancata prova del carattere estrinseco del metus - o, se si vuole, della esteriorizzazione di una vera e propria minaccia - ha portato la Cassazione ad annullare sentenze di condanna pronunciate all'esito di noti processi in materia di criminalità organizzata (Cfr. Cass. Sez. II, 24 aprile 2012, n. 31512, Barbaro, CED 254031 - relativa al processo 'Cerberus' - infiltrazione della 'ndrangheta nell'hinterland milanese). Oggi quella mancata prova ha portato la Cassazione a confermare l'assoluzione dell'ex Presidente del Consiglio in un processo ancor più noto.
Si legge infatti nella sentenza annotata che ai fini dell'integrazione del delitto di concussione "è necessario che la condotta abusiva del pubblico ufficiale divenga positivamente concreta, nel senso che la vittima deve essere posta nella condizione di percepirne l'effettiva portata intimidatoria e costrittiva, idonea a ingenerare in lei il timore di un danno contra ius, in caso di mancata adesione alla richiesta dell'indebito che gli viene rivolta. E' necessario, in sostanza, dimostrare che il pubblico ufficiale ha abusato delle sue qualità o dei suoi poteri, esteriorizzando concretamente un atteggiamento idoneo a intimidire la vittima, tanto da incidere negativamente sulla sua integrità psichica e sulla sua libertà di autodeterminazione".
b) E' una prova che, nel caso di specie, è stata esclusa dalla Corte d'Appello di Milano che, con una motivazione ritenuta dalla Cassazione logica e immune da vizi, ha individuato la molla del comportamento accondiscendente del Capo di Gabinetto del Questore di Milano non già in una "esterna e grave coazione psicologica della sua volontà", bensì "nella combinazione di più fattori, tutti interni al medesimo soggetto, costituiti da timore reverenziale, debolezza caratteriale, desiderio di non sfigurare, timore autoindotto, convinzione di agire nel lecito" (p. 13). E il mero timore reverenziale, proprio in quanto auto-indotto, è riconducibile al metus ab intrinseco, del quale anzi rappresenta un'ipotesi classica nella tradizione canonistica e civilistica (cfr. G.L. Gatta, La minaccia, cit., p. 249 s.). La sentenza annotata si segnala anche e proprio per avere affermato in ambito penalistico un principio di portata generale nell'ordinamento, contribuendo così all'affermazione di un concetto di minaccia tendenzialmente unitario (è la tesi da noi sostenuta nel più volte citato lavoro monografico). Afferma in proposito la sentenza annotata che "il timore autoindotto, di per sé, non incide sulla libertà di determinazione del soggetto, tanto che non integra, anche sul piano civilistico, un vizio della volontà, quale causa di annullamento del contratto (art. 1437 cod. civ.)".
L'affermazione della S.C. assume una particolare rilevanza, che va oltre all'ambito dei rapporti gerarchici interni alla P.A. La concussione non è "un reato di posizione" (p. 16): "non è infatti la mera posizione sovraordinata e di supremazia, sempre connaturata alla qualifica di pubblico ufficiale in ragione della qualità rivestita o della funzione svolta, a integrare il delitto di concussione soltanto perché la controparte, per motivazioni a sé interne, venga comunque ad avvertire uno stato di soggezione". E "si è di fronte a un'evidente petizione di principio" se si afferma che "un'alta carica dello Stato, se contrastata in una sua richiesta, certamente attiverebbe iniziative ritorsive nei confronti della persona che ha osato contrastarla".
D'altra parte, sottolinea la sentenza annotata (p. 18 s.), la prova di una minaccia, vera e propria - come anche la prova di una induzione rilevante per la fattispecie di cui all'art. 319 quater c.p. - è ancor più rigorosa "ove il destinatario della pressione abusiva sia, come nel caso in esame, un altro pubblico ufficiale, sul quale gravano precisi doveri inerenti al corretto espletamento delle sue funzioni nel settore di competenza": "non può infatti essere sottovalutato il particolare obbligo di resistenza da lui esigibile". Ne consegue che "l'effetto coartante o induttivo sulla libertà di determinazione del soggetto rivestito di qualifica pubblicistica deve essere apprezzato con particolare prudenza, proprio in considerazione dell'elevato grado di resistenza che da lui ci si aspetta e che se, secondo la fisiologica dinamica che connota lo specifico rapporto intersoggettivo, deve rendere recessiva la forza intimidatrice o persuasiva di cui è destinatario".
5. Dopo aver escluso la configurabilità della concussione, la S.C. esclude altresì che il fatto sia riconducibile alla figura dell'induzione indebita ex art. 319-quater c.p., "in continuità normativa" con la fattispecie di concussione per induzione (art. 317 c.p., nella versione precedente alla l. n. 190/2012 e vigente all'epoca della commissione del fatto oggetto del giudizio, risalente al 2010). La sentenza annotata ribadisce in proposito - anche in questo caso sulla scia della sentenza Maldera delle S.U. - che la condotta induttiva si caratterizza per la prospettazione (anche in forma implicita) di un vantaggio indebito, che entrambe le pronunce di merito hanno escluso. Né tale vantaggio può ritenersi conseguente, di per sé, a un comportamento accondiscendente nei confronti di una richiesta di un superiore gerarchico o, comunque, di un'alta carica dello Stato: si tratta "all'evidenza di argomento assertivo, di mero sospetto, che non trova alcun riscontro probatorio nei dati processuali acquisiti" (p. 18).
La sentenza annotata, d'altra parte, esclude espressamente "l'idoneità ingannatoria" della prospettata parentela tra Ruby e il Presidente Mubarak, "rivelatasi immediatamente falsa" (p. 16). E' quanto basta, a noi pare, per escludere altresì che sia configurabile la previgente fattispecie di concussione per induzione-inganno, non più riconducibile alla previsione dell'art. 319-quater c.p., che punisce anche l'indotto (sarebbe irragionevole punire l'indotto/ingannato). Se ciò è vero, trova conferma la tesi secondo cui l'assoluzione del Presidente Berlusconi non è frutto della riforma della concussione attuata con la legge Severino del 2012.
6. La S.C. esclude altresì, infine, che nel fatto oggetto del giudizio sia ravvisabile un abuso d'ufficio, realizzato in concorso tra il Presidente Berlusconi (come 'extraneus') e il Capo di Gabinetto del Questore di Milano (p. 19/20). "Anche a voler ritenere la procedura amministrativa seguita dalla Questura di Milano per l'affidamento della minore Ruby non conforme al dettato dell'art. 403 c.c.", mancano comunque, nel caso di specie, gli elementi dell'ingiusto vantaggio patrimoniale e del danno ingiusto, necessari, dopo la riforma del 1997, per integrare un abuso d'ufficio penalmente rilevante. Le cose sarebbero ben diverse, sottolinea in modo sibillino la S.C. (p. 20), se fossero tuttora vigenti le norme incriminatrici dell'interesse privato in atti d'ufficio (art. 324 c.p.) - abrogata nel 1990 - o dell'abuso d'ufficio (art. 323 c.p.), nella versione precedente alla riforma del 1997. Come a dire che se l'abuso di potere realizzato la notte del rilascio di Ruby è penalmente irrilevante - e suscita l'indignazione di buona parte dell'opinione pubblica - è forse dovuto a riforme del passato meno recente, che animate dal pur lodevole intento di una maggiore tipizzazione di alcuni delitti contro la p.a., risultano però avere ristretto eccessivamente le maglie del diritto penale nel contrasto ai più svariati abusi di potere realizzati in seno alla p.a.