ISSN 2039-1676


11 gennaio 2017 |

Aborti illegali presso lo studio privato di un medico ospedaliero: concussione, induzione indebita, o truffa?

Nota a Cass. Sez. VI, 15.11.2016 (dep. 16.12.2016), Pres. Rotundo, Est. Capozzi, ric. Cocivera

Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2017

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1. La sentenza annotata affronta un interessante caso, che sembra porsi al crocevia tra concussione (art. 317 c.p.), induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) e truffa aggravata perché commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio (art. 640 c.p.).

Questo il fatto oggetto del giudizio: un dirigente medico in servizio presso il reparto di ginecologia di un ospedale pubblico specula sui tempi della procedura legale di interruzione volontaria della gravidanza – essendo uno dei due soli sanitari non obiettori di coscienza – prospettando difficoltà organizzative e lungaggini in modo da spingere donne in stato di gravidanza, che avevano necessità di abortire in tempi contenuti, ad un aborto illegale (clandestino) a pagamento presso il proprio studio privato, in assenza delle prescritte autorizzazioni.

 

2. Diciamo subito che la sentenza annotata, resa nell’ambito di un procedimento cautelare, ha ritenuto corretta la qualificazione del fatto come concussione (art. 317 c.p.), escludendo tanto l’induzione indebita, quanto la truffa: nella vicenda in esame le donne, lungi dall’essere complici del medico – secondo una logica di tipo negoziale propria della nuova fattispecie di induzione indebita, riconducibile al genus della corruzione –, e lungi dall’essere indotte in errore sul carattere indebito delle dazioni di denaro (truffa) – sarebbero state ‘costrette’ a pagare gli aborti illegali “per non esporsi al rischio…di un disvelamento dello stato di gravidanza con conseguente compromissione del rapporto con il partner, di reazione da parte dei parenti e/o di impossibilità di abortire nel termine legale di novanta giorni”.

A sostegno di questa soluzione, la S.C. richiama ampiamente la sentenza Maldera, con la quale le Sezioni Unite della Cassazione, nel 2013, si sono notoriamente espresse sui criteri discretivi tra concussione e induzione indebita, individuati, almeno di regola, nella dicotomia minaccia (concussione)-non minaccia (induzione indebita) e nel parallelo binomio danno ingiusto (concussione)-vantaggio indebito (induzione). Come il lettore ricorderà, secondo le S.U. si configura la concussione se, abusando di qualità o poteri, l’agente pubblico, attraverso una minaccia, cioè la prospettazione di un danno ingiusto, costringe alla promessa o alla dazione dell’indebito il privato, che agisce (essendovi costretto) nella prospettiva di evitare, appunto, quel danno ingiusto. Viceversa, si profila un’indebita induzione – con responsabilità penale da entrambi i lati – se l’agente pubblico, abusando dei suoi poteri o delle sue qualità, con forme di pressione psichica diverse dalla minaccia (suggestione, persuasione, etc.) induce alla promessa o alla dazione dell’indebito il privato, che agisce spinto dalla prospettiva di conseguire un indebito vantaggio, rendendosi così corresponsabile di un fatto il cui disvalore è analogo (per quanto inferiore) a quello della corruzione. Nei casi difficili poi – quando come spesso accade sono compresenti le prospettive di evitare un danno ingiusto e di conseguire un vantaggio indebito – si tratterà secondo le S.U., piatti della bilancia alla mano, di valutare di volta in volta quale risulti la prospettiva prevalente, che ha mosso il privato.

Torniamo ora al caso affrontato dalla sentenza annotata e proviamo a leggerlo attraverso i criteri-Maldera. Orbene, va subito detto, in accordo con la S.C., che l’induzione ex art. 319 quater c.p. – con conseguente corresponsabilità delle gestanti – non pare configurabile: manca infatti nella vicenda, per come emerge dalla sentenza annotata, la prospettiva di un indebito vantaggio. Le donne, vittime del medico, avevano infatti diritto all’interruzione della gravidanza, presso la struttura pubblica alla quale si erano rivolte in tempo; pagando l’indebito non hanno mirato a conseguire più del dovuto. La concussione potrebbe invece essere affermata nella misura in cui si dovesse accertare – all’esito del giudizio di cognizione – che il medico ha minacciato alle partorienti un danno ingiusto, mettendole spalle al muro davanti all’alternativa tra non effettuare l’interruzione della gravidanza alla quale ex lege avevano diritto (entro i primi novanta giorni), ovvero effettuarla privatamente e in via clandestina, pagando l’indebito (“o abortisci clandestinamente presso il mio studio privato, pagandomi, o non ti farò abortire in tempo nella struttura pubblica che gestisco” – ad es. perché ti farò arbitrariamente aspettare facendo così decorrere i primi novanta giorni di gravidanza, cioè il periodo entro il quale la legge ne consente l’interruzione volontaria).

 

3. Senonché nella vicenda in esame, per come ricostruita in via indiziaria nel giudizio cautelare, una vera e propria minaccia – un comportamento marcatamente prevaricatore e sopraffattorio del medico –  sembrerebbe assente. Le partorienti sarebbero infatti state ‘dirottate’ verso lo studio privato del medico non con la violenza morale bensì attraverso l’inganno, costituito dalla falsa rappresentazione di ostacoli organizzativi presso la struttura pubblica; ostacoli che, a detta di un primario ivi operante, “erano insussistenti in quanto il protocollo operativo consentiva una certa elasticità al fine di venire incontro alle variegate istanze delle gestanti”. Questa circostanza, valorizzata dalla difesa dell’imputato nei motivi di ricorso, se comprovata nel giudizio di cognizione, sembrerebbe parlare a favore della configurabilità della truffa, piuttosto che della concussione. 

 Di diverso avviso è tuttavia la sentenza annotata, che da un lato, come si è detto, esclude la truffa affermando che, per quel reato, è necessaria l’induzione in errore circa la doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa – insussistente nel caso di specie – e, dall’altro lato, afferma la configurabilità della concussione richiamando sì la sentenza Maldera, ma non gli anzidetti criteri principali, bensì uno dei criteri residuali individuati dalle Sezioni Unite (§ 21 della motivazione) per alcuni casi ‘border-line’ ritenuti affini a quello in esame: “il confronto e il bilanciamento tra i beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale: quello oggetto del male prospettato e quello la cui lesione consegue alla condotta determinata dall’altrui pressione”. Può infatti accadere che il privato, “pur avendo ottenuto un trattamento preferenziale, si sia venuto sostanzialmente a trovare in uno stato di vera e propria costrizione, assimilabile alla coazione morale di cui all’art. 54, comma 3 c.p.”. E ciò vuoi perché – si legge sempre nella sentenza annotata, che a sua volta richiama la sentenza Maldera –  il privato “intende preservare un proprio interesse di rango particolarmente elevato” (come nel caso del cardiopatico che paga un primario di cardiologia per un intervento ‘salva-vita’, da eseguirsi personalmente e con precedenza su altri pazienti), vuoi perché, per tutelare un proprio interesse (ad es., la permanenza nel territorio dello Stato, da parte di uno straniero), il privato stesso sacrifica con la prestazione indebita un bene strettamente personale di particolare valore (come nel leading-case della prostituta extracomunitaria che, per non essere identificata ed espulsa, in quanto irregolare, cede alla richiesta di un rapporto sessuale da parte dell’agente di polizia che l’ha fermata per un controllo).

Senonché il caso della donna costretta a pagare il medico per praticare privatamente un aborto clandestino – avendo diritto a un aborto lecito, da parte di quello stesso medico – è a ben vedere diverso da quelli anzidetti – in particolare, a quello del cardiopatico: manca infatti nella donna, allorché paga il medico, la prospettiva di conseguire un indebito vantaggio. Il caso qui in esame sarebbe analogo a quelli considerati dalla sentenza Maldera se il medico avesse prospettato alle donne il pagamento di una tangente per saltare una lista d’attesa e praticare così l’aborto entro i novanta giorni dalla gravidanza ma in tempi più brevi (il giorno successivo, in ipotesi). In un simile caso, nella condotta delle gestanti sarebbe ravvisabile il disvalore proprio di una forma minore di corruzione – qual è l’induzione indebita ex art. 319 quater c.p. – che, in base al richiamato criterio residuale della sentenza Maldera, ben potrebbe risultare non punibile invocando lo stato di necessità ex art. 54 c.p. (in senso conforme v. ad es., in dottrina, F. Viganò, I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: qualche considerazione sulle riforme già fatte, e su quel che resta dare, in Dir pen. cont. – Riv. trim., 2014, n. 3-4, p. 21 s.). Sembra infatti ragionevole qualificare come “interesse di rango particolarmente elevato” (correlato a un ‘danno grave alla persona’) quello all’interruzione volontaria della gravidanza, ancor più, come nel caso di specie, da parte di donne che si trovino nelle condizioni per ricorrere all’aborto legalmente. E’ certamente un interesse di rango minore rispetto a quello alla vita – oggetto del caso del ‘cardiopatico’ – ma nondimeno è indubbiamente rilevante e giuridicamente apprezzabile, come la legge stessa sull’aborto sta a dimostrare.

 

4. Nel caso oggetto della sentenza annotata, tuttavia, le ragioni dell’irrilevanza penale della dazione del denaro al medico, da parte delle gestanti, vanno verosimilmente cercate altrove.  Decisiva, come detto, è l’assenza della prospettiva di conseguire un indebito vantaggio; una circostanza, questa, che nella vicenda in esame fa fallire il test di ragionevolezza della punizione del privato, escludendo la configurabilità dell’induzione indebita, senza necessità di invocare a tal fine il richiamato criterio residuale della sentenza Maldera, fondato sulla logica dello stato di necessità. Quel criterio, infatti, secondo le stesse S.U., opera solo in caso di compresenza tra danno ingiusto e indebito vantaggio.

Se ciò è vero – assodato in altri termini che, nella vicenda in esame, le donne hanno la veste delle vittime – resta da stabilire se il fatto è inquadrabile nella concussione, piuttosto che nella truffa aggravata ex art. 61, n. 9 c.p.  perché commessa con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione o a un pubblico servizio. Decisivo sarà qui, nel giudizio di cognizione, l’accertamento delle modalità della condotta e, in particolare, degli esatti termini nei quali è stata prospettata alle gestanti la via dell’aborto presso lo studio privato del medico.

La concussione, come si è detto, è configurabile solo in presenza di una vera e propria minaccia, per quanto implicita. Sarebbe questo il caso, in ipotesi, se si accertasse il carattere chiaramente pretestuoso delle difficoltà organizzative prospettate dal medico nella struttura pubblica, dietro alle quali si è celata una minaccia implicita (“o mi paghi o faccio sorgere io quelle difficoltà organizzative, in realtà inesistenti”).

La truffa aggravata è invece configurabile se si accerta l’effettiva induzione in errore delle gestanti sull’esistenza delle suddette difficoltà organizzative, ritenute reali per effetto della posizione e della condotta del medico. In questa diversa prospettiva, per effetto dell’inganno, che il medico ha potuto realizzare abusando dei suoi poteri di natura pubblicistica, le donne hanno compiuto un atto di disposizione patrimoniale per esse dannoso, procurando cosi al medico stesso un ingiusto profitto. Alla configurabilità della truffa, d’altra parte, non sarebbe di ostacolo il perseguimento di un fine illecito da parte delle donne (l’aborto clandestino), essendo configurabile la truffa in atti illeciti (cfr. Cass. Sez. I, 27 settembre 2013, n. 42809, Paterlini, CED 257296: “Quando l'agente si è procurato un ingiusto profitto in danno di altri, ponendo in essere artifici e raggiri che abbiano indotto in errore la vittima, il delitto sussiste anche nell'ipotesi in cui il soggetto passivo abbia agito motivato da fini illeciti, poiché in tal caso non viene meno l'oggettività giuridica della fattispecie, costituita dall'esigenza di tutela del patrimonio altrui e della libertà del consenso nei negozi patrimoniali. (Fattispecie in cui alcuni cittadini extracomunitari, non in regola con le norme sulla permanenza di stranieri nel territorio dello Stato, erano stati indotti a pagare somme di denaro da soggetti falsamente spacciatisi per funzionari pubblici al fine di ottenere il rilascio di validi documenti di soggiorno)”. Non sembra decisiva nemmeno, al fine di escludere a truffa, la circostanza – sottolineata dalla sentenza annotata – della consapevolezza delle gestanti circa il carattere indebito delle dazioni di denaro al medico. L’inganno rilevante, nel caso di specie, sembrerebbe quello relativo agli ostacoli organizzativi per l’esecuzione degli aborti nella struttura pubblica; è questo l’inganno che determina il dirottamento delle gestanti verso lo studio privato del medico. Le dazioni di denaro, alla luce di quell’inganno, non si presentano più alle gestanti come ‘indebite’, bensì, come corrispettivi per prestazioni illecite (gli aborti clandestini).

Concludendo, nel caso in esame si tratta di capire in sostanza – attraverso l’accertamento delle effettive modalità della condotta – se il disvalore del fatto si colloca nell’orbita patrimoniale della truffa, per quanto aggravata dall’abuso dei poteri/doveri di natura pubblicistica, oppure nella più grave dimensione dell’offesa alla P.A. arrecata dal medico con una condotta non già decettiva bensì sopraffattoria. Senza dimenticare per inciso che, accanto a questa alternativa, si pone il diverso problema – estraneo all’oggetto della sentenza annotata – relativo al disvalore degli aborti clandestini e alla relativa rilevanza penale della condotta del medico e delle stesse gestanti ai sensi della l. n. 194/1978.