ISSN 2039-1676


04 marzo 2013 |

Concussione e induzione indebita: il discrimine sta nell'ingiustizia del male prospettato al privato

Cass. pen., sez. VI, sent. 3 dicembre 2012 (dep. 15 febbraio 2013), n. 7945, Pres. Agrò, Est. Serpico, Imp. Gori e a.

Continua a far discutere in seno alla Suprema Corte la questione dei criteri discretivi tra concussione (art. 317 c.p.) e induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.). La sentenza qui pubblicata si allinea nettamente alla ratio decidendi della sentenza Roscia (clicca qui per accedere alla scheda di G. Leo a suo tempo pubblicata dalla nostra Rivista sulla base dell'informazione provvisoria, e clicca qui per scaricare la sentenza), decisa in effetti nella medesima camera di consiglio del 3 dicembre e depositata lo scorso 22 gennaio: la "costrizione" nell'ambito del novellato art. 317 c.p. allude sempre a una coartazione soltanto relativa, e si riferisce più in particolare a condotte integranti una minaccia, il paradigma della vis absoluta esulando dallo schema delittuoso della concussione; e tale minaccia si concreta nella prospettazione, anche meramente implicita, di un male ingiusto, recante un danno patrimoniale o non patrimoniale. Proprio l'ingiustizia del male prospettato dal p.u. è il criterio discretivo tra i due delitti di concussione e induzione indebita: "poiché anche l'art. 319 quater c.p. suppone parimenti un'intimidazione psicologica, dato il carattere residuale della norma (è induzione tutto quello che non è costrizione), rientra nell'ambito dell'art. 319 quater c.p. la condotta del pubblico ufficiale che prospetti conseguenze sfavorevoli derivanti dall'applicazione della legge per ricevere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità".

Allorché dunque il p.u. prospetti di far uso legittimo dei suoi poteri per arrecare un pregiudizio non ingiusto al privato, la dazione o la promessa di denaro o altra utilità è, in effetti, funzionale al conseguimento di un indebito beneficio da parte del privato: il quale in questa ipotesi - osserva condivisibilmente la Corte - è considerato dalla legge non già come vittima, bensì come concorrente necessario del reato, per quanto meno severamente sanzionato rispetto al p.u. in considerazione dello stato di intimidazione nel quale versa.

La Corte nega dunque qui - in netto contrasto con quanto affermato in altre pronunce successive alla riforma (cfr. ad es. Cass. 4 dicembre 2012, Nardi, pubblicata in questa Rivista con scheda introduttiva di F. Viganò; ma anche, più recentemente, Cass. 11 febbraio 2013, Melfi, su cui cfr. la relativa informazione provvisoria pubblicata su questa Rivista) - che la distinzione tra le due ipotesi delittuose in parola dipenda dall'intensità della pressione psicologica esercitata, decisiva essendo piuttosto la qualificazione in termini di "giustizia" o "ingiustizia" del danno prospettato dal p.u.