ISSN 2039-1676


14 dicembre 2015 |

Apologia dell'IS via internet e arresti domiciliari. Prime prove di tenuta del sistema penale rispetto alla nuova minaccia terroristica

Cass. pen., sez. I, 6 ottobre 2015 (dep. 1 dicembre 2015), n. 47489, Pres. Chieffi, Est. Rocchi

1. Pubblichiamo le motivazioni di una pronuncia, riferita a fatti posti in essere alcuni mesi prima dei recenti attentati di Parigi, in cui la Cassazione ha confermato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti di un soggetto che aveva diffuso via internet un documento, scritto in italiano ed intitolato "Lo Stato Islamico: una realtà che ti vorrebbe comunicare", di propaganda ed esaltazione del sedicente Stato Islamico, e che in relazione a tale condotta è attualmente accusato del reato di cui all'art. 414 co. 3 c.p., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni «chi pubblicamente fa l'apologia di uno o più delitti», con l'aggravante dalla finalità terroristica ai sensi dell'art. 1 del D.lg. n. 625 del 1979. Oggetto di apologia, nel caso di specie, è il delitto di associazione con finalità di terrorismo ex art. 270 bis c.p.

Considerato il ruolo catalizzatore svolto dal web nei confronti dei potenziali terroristi - a proposito del quale si è detto che «l'imam più potente è Google» - è evidente che vicende come quella in esame costituiscono, e costituiranno negli anni a venire, uno dei banchi di prova per testare l'effettiva capacità del sistema penale vigente di fornire risposte efficaci, specialmente sul piano della prevenzione, alla minaccia rappresentata dal terrorismo di matrice islamica.

Schematicamente, la sentenza in esame può essere suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali è dedicata all'esame - ed alla confutazione - degli altrettanti motivi di ricorso sollevati dalla difesa dell'imputato rispetto alla sussistenza dei presupposti per l'adozione della misura cautelare personale.

 

2. Con il primo motivo di ricorso la difesa contestava la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, in ragione dell'assenza di pericolo concreto: ciò sulla base della considerazione che il testo pubblicato su internet non sarebbe stato idoneo ad istigare i suoi lettori a commettere il reato di associazione con finalità di terrorismo. Al contrario, sempre secondo il difensore, il documento rappresentava piuttosto una mera descrizione di taglio "giornalistico" delle caratteristiche dello Stato Islamico; una descrizione che, anche nelle parti in cui risultava connotata da un evidente giudizio di approvazione, non oltrepassava i confini della mera adesione ideologica, restando così all'interno dei ranghi della libera manifestazione del pensiero.

La Cassazione ha invece ritenuto immune da vizi logici la motivazione addotta nell'ordinanza di riesame a sostegno della sussistenza del pericolo concreto richiesto dalla norma incriminatrice. Dopo avere ribadito che «ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 414, terzo comma, cod. pen., non basta l'esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana», essendo infatti necessario che tale esternazione determini «il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di [...] reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato», i giudici di legittimità hanno ritenuto che gli elementi di fatto valorizzati dall'ordinanza cautelare fossero autenticamente sintomatici del pericolo concreto per l'ordine pubblico. In particolare, la Cassazione ha richiamato l'attenzione sulle seguenti circostanze fattuali:

- dal punto di vista contenutistico, «lo scritto presupponeva e accettava la natura combattente e di conquista violenta da parte dell'organizzazione (cioè l'esecuzione di atti di terrorismo), esaltava la sua diffusione ed espansione, anche con l'uso delle armi [....]; ancora, il documento presentava personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali e conteneva diversi link a siti internet facenti capo all'organizzazione terroristica»;

- sotto il profilo del messaggio veicolato e della modalità comunicativa il documento era «scritto in italiano e rivolto ad un pubblico di soggetti radicati sul territorio nazionale, realizzato con stile incisivo e capace di suscitare interesse e condivisione [...] indicava l'adesione al "Califfato" come obbligatoria [...] esplicitamente sosteneva l'adesione all'associazione».

 

3. Il secondo motivo di ricorso ne comprende a ben vedere due diversi, entrambi peraltro basati su un comune presupposto implicito: quello secondo cui lo scritto incriminato si sarebbe riferito allo "Stato Islamico" inteso quale realtà territorialmente individuabile in un'area estesa su parte della Siria e dell'Iraq. È su questa tacita premessa, infatti, che si basavano due diverse censure avanzate dalla difesa: da un lato, l'insussistenza dell'interesse giuridico tutelato dall'art. 414 c.p., ossia l'ordine pubblico nazionale italiano; dall'altro lato, più in radice, l'inapplicabilità ratione loci della legge penale italiana al sodalizio in questione, con conseguente irrilevanza penale dello stesso ai sensi dell'art. 270-bis c.p., e, di riflesso, con conseguente liceità delle condotte che ne avevano fatto apologia (difettando il fatto tipico consistente nel fare l'apologia di un delitto).

Anche su questo punto la Cassazione si è mostrata di diverso avviso. Secondo la pronuncia in esame, anzitutto, la questione relativa all'esistenza di uno "Stato Islamico" nel Medioriente non necessita di essere decisa a livello giudiziario, in quanto «la natura di associazione terroristica dell'IS - e non di Stato - è sancita da Autorità Internazionali (cui l'ordinanza genetica e quella oggi impugnata fanno correttamente riferimento) vincolanti nell'ordinamento».

Ciò premesso, la Cassazione ha avallato la posizione assunta dall'ordinanza cautelare impugnata, la quale aveva negato che l'IS fosse un'associazione terroristica operante esclusivamente all'estero: «è conoscenza comune - affermano i giudici di legittimità - che lo svolgimento dell'attività dell'organizzazione terroristica in oggetto ha luogo, con il notevole aiuto costituito dalla disponibilità di un territorio sottoposto al suo controllo, in tutta Europa e anche nel nostro paese».

Sulla scorta di tale considerazione la Cassazione ha respinto come infondate entrambe le censure difensive. Anzitutto, quanto ai limiti spaziali all'applicabilità della legge penale, il collegio ha affermato che la presenza dell'IS sul territorio italiano attraverso cellule attive comporta l'applicabilità a tale sodalizio della legge penale italiana, in specie l'art. 270-bis c.p. (il quale dunque viene in rilievo ad integrare il concetto normativo di "delitto" racchiuso nell'art. 414 c.p.). A proposito dell'applicabilità della legge penale italiana ai reati plurisoggettivi commessi in parte anche all'estero, la Cassazione ha ribadito il consolidato principio secondo cui «è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti (Sez. 1, n. 41093 del 6/5/2014 - dep. 3/10/2014, Cuomo e altri, Rv. 260703)», con la conseguenza che deve ritenersi «integrante il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute e operanti come tali [...]». Da qui la conclusione in ordine all'applicabilità della legge penale italiana anche «in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti [...] (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012 - dep. 29/11/2012, Chabchoub e altri, Rv. 253944; cfr. anche Sez. 5, n. 31389 del 11/6/2008 - dep. 25/7/2008, Bouyahia e altri, Rv. 241175 di conferma della condanna per il delitto di cui all'art. 270-bis cod. pen. per imputati che avevano collegamenti con un'associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico in Kurdistan)».

Parimenti - ha osservato la Cassazione - la rilevanza dell'associazione "IS" ai sensi dell'art. 270-bis c.p. comporta l'infondatezza della censura in ordine al difetto di interesse giuridico tutelato, giacché è evidente come un documento scritto in italiano e diffuso in Italia, recante considerazioni apologetiche di un'associazione con finalità di terrorismo operante nello stesso territorio, rappresenti una concreta minaccia per l'ordine pubblico interno.

 

3. Come terzo ed ultimo motivo di ricorso, si contestava che le modalità di diffusione via web del documento, e in particolare la sua pubblicazione su due diversi siti internet, potessero integrare la natura "pubblica" richiesta dalla fattispecie tipica di apologia.

Avallando una volta ancora la posizione del riesame, la Cassazione ha evidenziato come la diffusione di contenuti via web, su siti ad accesso libero, possa essere inquadrata nella norma definitoria di cui all'art. 266 co. 4 c.p., che definisce il reato avvenuto pubblicamente quando è commesso "col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda".

 

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4. Gli snodi argomentativi in cui si articola la motivazione della pronuncia mettono in luce la capacità del sistema penale vigente di offrire efficaci risposte, anche sul piano strettamente preventivo, alla minaccia del terrorismo di matrice islamica. La disponibilità di una figura di reato a consumazione anticipata (la cui struttura costituisce una deroga al principio dell'irrilevanza dell'istigazione non seguita dal reato di cui all'art. 115 c.p.), dotata di cornice edittale compatibile con l'applicazione di misure cautelari personali, ha infatti consentito di intervenire coattivamente in una delle ricorrenti situazioni prodromiche alla realizzazione di attentati, ossia il proselitismo fondamentalista via internet.

Il tutto senza peraltro rinunciare ai principi garantistici che informano il sistema penale, tanto sul versante sostanziale, quanto su quello processuale: la norma incriminatrice dell'apologia di reato è stata infatti interpretata in maniera conforme al canone costituzionale di offensività; la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è stata vagliata, nel contraddittorio delle parti e dinanzi a tre diversi organi giurisdizionali (GIP, riesame, Cassazione), alla luce di un'analitica disamina della condotta e del suo contesto; la misura personale applicata, gli arresti domiciliari, ha rappresentato la meno afflittiva possibile per realizzare le riscontrate esigenze cautelari, in omaggio al principio di proporzione (e di ultima ratio della custodia in carcere).

Alla luce di tali considerazioni, la vicenda esaminata si presta ad essere valorizzata in chiave di "contro-narrazione" rispetto al diffuso convincimento secondo cui, per combattere la minaccia del terrorismo islamico, sia indispensabile ricorrere a misure eccezionali, o addirittura extra ordinem, caratterizzate dalla rinuncia ad una parte delle libertà e garanzie tipiche dello Stato di diritto, a beneficio di un più alto livello di sicurezza collettiva (si pensi, da ultimo, alla sospensione in Francia di alcune delle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo).

L'efficacia preventiva delle regole vigenti - quando è dimostrata alla prova dei fatti, come nel caso in esame - mette in crisi l'idea secondo cui i principi e le regole di stampo garantista che informano il sistema penale siano lussi il cui costo si misura in termini di vite umane, e che come tali non possiamo permetterci. Un'idea spesso alimentata da retoriche populiste che puntano a manipolare l'emotività collettiva per un tornaconto politico, prospettando come inevitabili certi "giri di vite" nella gestione dell'ordine pubblico, sia nazionale che internazionale, la cui reale efficacia, quando non è palesemente assente, risulta quanto meno tutta da dimostrare.

Ciò naturalmente non esclude, per altro verso, che esistano profili della disciplina vigente meritevoli di essere rivisti in chiave di maggiore rigore. Piuttosto, il messaggio che si intende ricavare dalla vicenda esaminata è un'indicazione sul metodo da seguire nell'operare scelte di politica criminale rispetto a minacce dai contorni atipici; un invito, cioè, a soffermare l'attenzione, in prima battuta, sull'efficacia preventiva e repressiva degli strumenti che abbiamo già a disposizione, onde evitare che l'irrinunciabile esigenza di tutelare beni giuridici di rango primario, come la vita e l'integrità fisica, ci porti a smarrire la nostra identità di Stato liberale di diritto.