22 marzo 2016 |
Ancora in tema di sospensione del processo con messa alla prova: presupposti oggettivi per accedere al procedimento speciale ed autonoma ricorribilità per cassazione dell'ordinanza di rigetto dell'istanza di ammissione
Cass. pen., Sez. II, ord. 23 febbraio 2016 (dep. 26 febbraio 2016), n. 8014, Pres. Gentile, Rel. Davigo, ric. Sorcinelli
1. Torna all'attenzione della Corte di cassazione a Sezioni unite l'interpretazione dell'istituto (a natura mista, sostanziale e processuale) della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Il caso di specie prende le mosse dalla contestazione, nei confronti della ricorrente, della condotta di mancato pagamento di un ticket sanitario per il valore di 113,70 euro, ricondotto alla fattispecie di reato di cui all'art. 640 comma 2 n. 1 c.p. La richiesta di ammissione al rito speciale viene rigettata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona. Con ordinanza emessa il 10 luglio 2014, il giudice di merito ritiene che il delitto contestato in ipotesi accusatoria non rientri nei limiti edittali individuati dal codice penale per l'ammissione alla messa alla prova, dovendosi all'uopo prendere in considerazione anche le circostanze aggravanti ad effetto speciale. Avverso l'ordinanza di rigetto propone immediato ricorso per cassazione il difensore, lamentando, tra l'altro, violazione dell'art. 168 bis c.p. e vizio di motivazione.
Il profilo valorizzato dalla difesa, invero, concerne la sostanziale equiparabilità tra il delitto contestato nel caso di specie ed altre norme incriminatrici pacificamente incluse nel catalogo di reati per i quali il legislatore ha previsto ammissibile la sospensione del procedimento (ed in particolare quelli richiamati all'art. 550 c.p.p.), arrivando ad ipotizzare una disparità di trattamento non rispettosa del principio costituzionale di uguaglianza. In tal modo, tuttavia, il ricorso fornisce alla Seconda Sezione l'opportunità per sollecitare, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., l'intervento delle Sezioni unite.
Due le questioni di diritto, entrambe oggetto di attuale (aperto) contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità: la computabilità, o no, delle circostanze aggravanti ai fini della individuazione dei limiti edittali per l'ammissibilità del rito e l'autonoma e immediata esperibilità del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di rigetto della messa alla prova.
È solo il caso di evidenziare che tra i temi esiste un evidente rapporto di pregiudizialità logica: la questione "processuale", inerente l'immediata ricorribilità del provvedimento di diniego, prelude alla determinazione, sul piano "sostanziale", dei criteri sulla base dei quali individuare la sanzione ai sensi dell'art. 168 bis comma 1 c.p. Ciò non di meno, si è deciso di privilegiare la progressione della trattazione scelta dall'ordinanza in commento, che con efficiente sintesi richiama espressamente le considerazioni già spese dall'Ufficio del Massimario della Suprema Corte nella relazione del 13 ottobre 2015, individuando, per ogni distinto profilo, gli opposti orientamenti interpretativi e gli argomenti di maggior rilievo.
2. Il primo tema affrontato dall'ordinanza (l'unico del tutto "nuovo" rimesso all'esame delle Sezioni unite) concerne l'individuazione dei criteri sulla base dei quali definire il perimetro della "pena" ai fini della declaratoria di ammissibilità della richiesta di messa alla prova.
La disciplina di riferimento è il risultato della integrazione tra disposizioni contenute nel codice di rito e nel codice penale. Infatti, l'art. 464 bis c.p.p. attribuisce all'imputato la facoltà di formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova «nei casi previsti dall'articolo 168 bis del codice penale». A sua volta, la norma sostanziale individua i presupposti oggettivi di ammissibilità della richiesta, definendo (verrebbe da dire quantitativamente e qualitativamente) il catalogo di reati per i quali è ammissibile il rito speciale[1]. Sul punto si registrano due opposte soluzioni interpretative.
Secondo un orientamento, la regola per determinare l'ammissibilità della istanza di messa alla prova nel caso concreto è contenuta nell'art. 4 c.p.p.[2]. Militano in favore di questa proposta ermeneutica esigenze di unità e di coerenza del sistema: infatti, alla disciplina in tema di competenza rinviano espressamente altre disposizioni normative, riguardanti l'applicazione di misure cautelari (art. 278 c.p.p.), l'arresto e il fermo (art. 379 c.p.p.) e, non da ultimo, i casi e i modi della citazione diretta a giudizio. Rileva, in particolare, proprio il richiamo all'art. 550 c.p.p. che è, a sua volta, oggetto di rinvio, seppure solo in parte qua, proprio da parte del comma 1 dell'art. 168 bis c.p.
Questo dato letterale, tuttavia, svela la sua discussa ambivalenza, trattandosi del medesimo argomento che, a contrario, altro indirizzo interpretativo utilizza per sostenere che i criteri per la determinazione della pena ai fini dell'accesso al rito speciale siano (solo) quelli espressamente previsti dalla disciplina in tema di messa alla prova[3]. La tesi può ben essere sintetizzata con il brocardo ubi lex voluit dixit: in tutti i casi in cui il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti l'ha espressamente previsto. Non così, invece, con riguardo all'art. 168 bis c.p., che rinvia ai soli «delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale», mentre (e non per caso) il richiamo alla regola di cui all'art. 4 c.p.p. è contenuto nel comma 1. La scelta di operare un rimando soltanto parziale alla disciplina in tema di citazione diretta a giudizio si pone in linea di coerenza logica con la funzione deflattiva che guida l'intervento di cui alla legge n. 67 del 28 aprile 2014 ed, inoltre, è dotata di maggiore coesione con l'oggetto del sindacato del giudice in sede di valutazione di ammissibilità dell'istanza di sospensione del processo: non già, in positivo, una pronuncia sulla fondatezza dell'accusa, bensì, in negativo, la verifica di insussistenza delle condizioni per addivenire ad una sentenza di non luogo a procedere.
3. Il secondo tema concerne il profilo, esclusivamente processuale, dell'autonoma impugnabilità dell'ordinanza di diniego della sospensione del procedimento. La questione, invero, è già stata rimessa all'attenzione delle Sezioni unite con ordinanza n. 50278/2015[4], ma la Seconda Sezione coglie l'occasione per ripercorrere il dibattito ermeneutico, la cui risoluzione, peraltro, integra un presupposto pregiudiziale per l'ammissibilità del ricorso nel caso di specie. Il contrasto interpretativo si sviluppa attorno al significato da attribuire al disposto di cui al comma 7 dell'art. 464 quater c.p.p., ove si prevede che «contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova possono ricorrere per cassazione l'imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa», in rapporto con il principio generale di impugnabilità delle ordinanze emesse in dibattimento solo insieme alla sentenza, ai sensi dell'art. 568 c.p.p.[5].
Un orientamento, riconosciuto come tendenzialmente maggioritario dalla più recente giurisprudenza di legittimità, si è espresso in favore dell'autonoma ed immediata ricorribilità in cassazione del provvedimento di merito che rigetta la richiesta di sospensione del processo[6]. Viene valorizzato, in questa prospettiva, il tenore letterale della disposizione processuale sulla messa alla prova, che, riconoscendo espressamente l'autonoma impugnabilità dell'ordinanza, senza distinguere a seconda del suo contenuto (di ammissione o di rigetto), integrerebbe a tutti gli effetti un'ipotesi di deroga alla regola generale.
In senso contrario, altro indirizzo ha sostenuto l'inammissibilità del ricorso immediato per cassazione presentato avverso la sola ordinanza di diniego. La tesi si sviluppa superando il contenuto testuale della norma ed accedendo ad una lettura a carattere sistematico: l'autonoma ed immediata impugnabilità prevista dalla disciplina in tema di messa alla prova ha ragion d'essere solo nei confronti dei provvedimenti di ammissione al beneficio «giacché solo in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta»[7]. Infatti, se pur è vero che il comma 7 dell'art. 464 quater c.p.p. non distingue in base al contenuto dell'ordinanza, i commi precedenti trattano esclusivamente del provvedimento di ammissione al rito speciale, mentre la disciplina dell'ipotesi di rigetto è affrontata soltanto nel comma 9. Inoltre, nessun argomento contrario sarebbe ricavabile dal riconoscimento della legittimazione anche in capo all'imputato, che resta comunque titolare - secondo questo assunto interpretativo - di un interesse ad impugnare prescrizioni ritenute troppo gravose o comunque eccentriche rispetto al programma.
4. Al di là della più fine lettura del dato normativo (che resta imprescindibile punto di partenza di ogni esegesi), pare non siano state sufficientemente valorizzate dall'ordinanza di rimessione tanto la ratio che ha condotto all'introduzione dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, quanto le modalità con le quali si instaura questo procedimento speciale.
Sotto il primo profilo, l'intenzione voleva essere quella di estendere l'istituto tipico del rito minorile al processo penale ordinario, in relazione a reati di minore gravità, introducendo una probation ispirata a modelli di diritto anglosassone. La logica che condiziona la rinuncia dello Stato all'esercizio della potestà punitiva è determinata dal ridotto allarme sociale derivante dal reato contestato e dalla opportunità, quindi, di calibrare la risposta "sanzionatoria" in funzione della risocializzazione dell'autore e della riparazione del danno. In questa chiave, la soluzione della questione di diritto sottoposta alle Sezioni unite sottende l'adesione ad una scelta "di campo": rimettere al giudice di merito un certo margine valutativo in ordine alla gravità del fatto oppure vincolare l'integrazione dei presupposti oggettivi di ammissibilità alla contestazione formulata dal pubblico ministero. Da un lato, infatti, è indubbio che il sindacato sulla richiesta di messa alla prova comporta un vaglio esclusivamente negativo, di accertamento della inesistenza di cause di proscioglimento di immediata evidenza. Dall'altro lato, però, proprio lo scopo deflattivo di questo procedimento speciale è correlato in misura determinante alla percezione di gravità del fatto contestato, in certa misura indipendente dalla qualificazione giuridica attribuita in sede di formulazione dell'imputazione.
Sotto il secondo profilo, invece, l'istituto si pone quale netta alternativa alla celebrazione del processo. Pare, quindi, che il controllo di legittimità sul provvedimento di rigetto abbia un senso ed una utilità solo se interviene nell'immediato, prima che l'accertamento giudiziale "entri nel merito".
Non dovremo attendere a lungo per conoscere la risposta della Suprema Corte: la trattazione del presente ricorso è fissata per l'ormai imminente 31 marzo 2016.
[1] Nello specifico, sulla base dell'art. 168 bis comma 1 c.p., l'imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova «nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale».
[2] A mente del quale «si ha riguardo alla pena stabilita per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale».
[3] In questo senso Cass., sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 6483, Gnocco, in Riv. pen., 2015, 4, 340; nonché Cass., sez. IV, 10 luglio 2015, n. 32787, Jenkins, in Guida dir., 2015, n. 36, 87.
[4] Cass., ord. 19 novembre 2015 (dep. 22 dicembre 2015), n. 50278, Rigacci, in www.cortedicassazione.it.
[5] Nello specifico «quando non è diversamente stabilito dalla legge, l'impugnazione contro le ordinanze emesse nel corso degli atti preliminari ovvero nel dibattimento può essere proposta, a pena di inammissibilità, soltanto con l'impugnazione contro la sentenza».
[6] In questo senso, tra le altre, due pronunce della stessa Seconda Sezione che ha emesso l'ordinanza di rimessione qui in commento: Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, Allotta; Cass., sez. II, 6 maggio 2015, n. 20602, Corallo.
[7] Così Cass., sez. V, 3 giugno 2015, n. 25666, Marcozzi.