ISSN 2039-1676


21 giugno 2016 |

La "violenza di genere" fa il suo ingresso nella giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono l'ambito di applicazione dell'art. 408 co. 3 bis c.p.p.

Commento a Cass., SS.UU., sent. 29 gennaio 2016 (dep. 16 marzo 2016), n. 10959, Pres. Canzio, Rel. Bianchi

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1. Il quesito. La previsione dell'obbligo di avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione diventa, nuovamente, banco di prova per la definizione dei confini della nozione di «persona offesa» nel processo, oltre che per l'individuazione dei beni giuridici tutelati dal diritto penale. Con la decisione in commento, infatti, le Sezioni unite hanno risolto una delicata questione interpretativa relativa all'art. 408 co. 3 bis c.p.p., così come modificato dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119. Il ricorso era stato rimesso alle medesime Sezioni unite dalla Quinta Sezione penale, con ordinanza del 9 luglio 2015, ai sensi dell'art. 618 c.p.p. e, dunque, in ragione della speciale importanza della questione, «involgente, peraltro, anche contrasto tra decisioni di singole Sezioni».

 

L'ordinanza di rimessione chiedeva alle Sezioni unite di chiarire se l'espressione «violenza alla persona» contenuta nel comma 3 bis dell'art. 408 c.p.p. dovesse intendersi come inclusiva delle sole condotte di violenza fisica o dovesse inivece comprendere anche quelle di minaccia; e se, di conseguenza, il reato di cui all'art. 612 bis c.p. fosse incluso tra quelli per i quali il citato art. 408 comma 3 bis c.p.p. prevede la necessaria notifica alla persona offesa dell'avviso della richiesta di archiviazione[1].  

Come noto, il comma 3 bis dell'art. 408 c.p.p., nel testo novellato dall'art. 2 co. 1 lett. g) d.l. 14 agosto 2013, n. 93[2], convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013, pone in capo al pubblico ministero l'onere di notificare alla persona offesa dal reato l'avviso della richiesta di archiviazione in tutti i casi di «delitti commessi con violenza alla persona», a prescindere da una esplicita richiesta del querelante. Inoltre, in tale caso, il termine a disposizione della persona offesa per presentare una eventuale opposizione  è di venti giorni in luogo degli ordinari dieci.

La norma aveva sin da subito posto alcuni delicati problemi interpretativi[3], tra i quali campeggiava proprio quello relativo all'inclusione del delitto di cui all'art. 612 bis c.p. tra le fattispecie ivi considerate e, più in generale, al significato da attribuire alla nozione di delitti commessi «con violenza alla persona». Si trattava, infatti, di definizione dalla portata non univoca, suscettibile di interpretazioni elastiche e, dunque, a rischio di contrasto con i principio di legalità e di tipicità delle sanzioni processuali.

Per quanto qui rileva, il dibattito ruotava intorno alla possibilità di includere nell'alveo della disposizione anche i reati commessi per il tramite di atti di violenza psicologica, emotiva o di minaccia[4], come tipicamente accade per gli atti persecutori. Da un lato, infatti, poteva apparire illogico escludere, sulla scorta di un'interpretazione restrittiva, il reato di stalking dal novero di quelli per i quali trova applicazione l'obbligo di avviso; dall'altro, una eccessiva estensione di tale obbligo (così come degli altri adempimenti formali che gravano sulle parti al fine di garantire la partecipazione della persona offesa al procedimento) rischiava di appesantire il meccanismo processuale, a discapito, talvolta e per taluni reati, delle stesse garanzie della persona sottoposta a indagini, oltre che della complessiva funzionalità del sistema.

La questione relativa all'applicabilità dell'art. 408 co. 3 bis c.p.p. era resa più complessa dal fatto che il testo dell'articolo introdotto con il decreto legge del 14 agosto 2013 era stato modificato in sede di conversione. Il disposto originario preveda che l'avviso di deposito della richiesta di archiviazione, così come quello di conclusione delle indagini preliminari, fosse notificato alla persona offesa del delitto di cui all'art. 572 c.p. In sede di esame in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, si era ritenuto che l'intervento normativo fosse «forse eccessivamente limitato» nel prevedere «l'introduzione di obblighi di comunicazione in relazione ... solo alle vicende procedimentali di alcuni reati». Nel tentativo di «un più ampio riconoscimento del diritto dell'offeso alla comunicazione dei dati procedimentali rilevanti per i suoi interessi» ed «in coerenza con le indicazioni della Direttiva 2012/29/UE» si era deciso di allargare le ipotesi di avviso di cui all'art. 299 c.p.p. ai procedimenti aventi ad oggetto «delitti commessi con violenza alla persona»; la medesima espressione è stata poi utilizzata anche per l'avviso della richiesta di archiviazione di cui al nuovo comma 3 bis dell'art. 408 c.p.p.

La modifica in sede parlamentare rendeva manifesta la volontà del legislatore di utilizzare l'espressione «violenza alla persona» per ampliare l'ambito della norma rispetto alla originaria previsione di tale obbligo nel solo caso dei maltrattamenti in famiglia. Viceversa, in sede di conversione delle modifiche apportate all'art. 415 bis c.p.p., il legislatore, nel disciplinare l'onere del pubblico ministero di notificare l'avviso di conclusione delle indagini preliminari anche al difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa stessa, aveva mantenuto il riferimento esplicito ai soli reati di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p.

Di fronte alla scelta normativa così compiuta, si aprivano due possibili strade interpretative[5]. Secondo una prima impostazione, la previsione dell'obbligo di notifica alla persona offesa dell'avviso di cui all'art. 415 bis c.p.p. anche nell'ipotesi di stalking non poteva che suggerire una interpretazione estensiva, dovendosi ritenere ragionevole la configurazione di un obbligo anche per la richiesta, in certo senso "omologa" all'avviso ex  415 bis c.p.p., di archiviazione[6]. Secondo una diversa impostazione, ritenuta «parimenti ragionevole» dall'ordinanza di rimessione, il mancato esplicito riferimento al reato di cui all'art. 612 bis c.p. nell'art. 408 co. 3 bis c.p.p. poteva essere interpretato come esclusione, indicativa della volontà del legislatore di limitare la rilevanza del reato di atti persecutori al solo avviso di conclusione delle indagini.

Si tratta, all'evidenza, di due impostazioni che sottendono criteri interpretativi difformi: l'una valorizzava l'intenzione del legislatore e la ratio legis; l'altra, più rigorosa, rimaneva aderente alla lettera della disposizione.

 

 

2. La decisione. La prospettiva da cui muoveva l'ordinanza di rimessione era quella sin qui evidenziata, propria dell'ermeneutica "tradizionale". In particolare, nel provvedimento si affermava che la possibilità di includere il reato di cui all'art. 612 bis c.p. tra quelli commessi con «violenza alla persona» dipendeva dalla possibilità di ritenere tale nozione comprensiva della violenza morale, oltre che di quella fisica, poiché, come noto, il reato di stalking viene solitamente commesso tramite minacce o altri atti di sopraffazione, mentre episodi di violenza fisica sono solamente eventuali[7]. Nella medesima ottica, si valorizzava l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale relativo alla interpretazione letterale dell'art. 649 co. 3 c.p., proprio con riferimento all'espressione in esame[8].  

Le Sezioni unite, invece, affrontano la questione in un'ottica diversa e per molti versi innovativa, poiché non rispondono al quesito se l'art. 408 co. 3 bis c.p.p. sia applicabile anche ai reati commessi con violenza morale, ma risolvono in maniera "mirata" una questione specifica: se la disposizione controversa sia o meno applicabile all'art. 612 bis c.p., a prescindere dalla tipologia della violenza esercitata nell'ambito di questa fattispecie; e, nel fare ciò, muovono da un'ottica interpretativa ispirata al rispetto della normativa sovranazionale, per arrivare a conclusioni di ampio respiro.

La sentenza in commento prende le mosse dalla constatazione che nel nostro ordinamento è da tempo in atto «un fenomeno di emersione e di nuova considerazione» della posizione della persona offesa all'interno del processo penale, sollecitato dall'allarme sociale provocato dalle varie forme di criminalità contro i soggetti c.d. deboli e contro  le donne in particolare. A fronte di tale allarme, peraltro, la tutela della vittima è stata stimolata dall'attività di numerosi organismi sovranazionali, così che «gli strumenti in tali sedi elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione nei confronti dei legislatori nazionali, tenuti a darvi attuazione». Tra gli altri, la sentenza attribuisce «un posto di assoluta rilevanza» alla Direttiva 2012/29/UE[9], in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato, alla Convenzione di Lanzarote del Consiglio d'Europa del 25 ottobre 2007, relativa alla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, e alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa dell'11 maggio 2011, sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, queste ultime in particolare «incentrate sulla esigenza di garantire partecipazione, assistenza, informazione e protezione a particolari categorie di vittime».

Sul piano interno, a fronte dell'emersione del fenomeno della violenza in ambito familiare e domestico, il legislatore ha provveduto a modificare la normativa sostanziale e processuale con numerosi (e spesso frastagliati) interventi normativi[10], la cui interpretazione non può prescindere dalle fonti sovranazionali che ne costituiscono la premessa. Sicché, la questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte richiedeva di «essere inquadrata nell'ambito delle fonti normative interne e internazionali». Le Sezioni unite scelgono in tal modo un percorso per molti versi innovativo e, senza affrontare il tema della portata letterale dell'espressione «violenza alla persona», arrivano ad individuare l'ambito applicativo della disposizione controversa sulla base del contesto normativo europeo nell'alveo del quale quella stessa disposizione ha trovato origine.

La sentenza in esame traccia un affresco articolato delle diverse fonti che hanno contribuito, negli ultimi anni, a delineare il sistema di tutela della persona offesa, soprattutto se vittima di violenza di genere, introducendo numerose modifiche di natura processuale e sostanziale dirette a garantire una maggior presenza della vittima nel processo penale[11].

Punto di partenza è la constatazione che nelle fonti sovranazionali di interesse l'espressione «violenza alla persona» viene sempre intesa «in senso ampio, comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche di quelle morali o psicologiche» e che lo stalking rientra tra le ipotesi «significative di violenza di genere che richiedono particolari forme di protezione a favore delle vittime». Si tratta di indicazioni che costituiscono un fondamentale riferimento per addivenire ad una interpretazione delle norme interne conforme al «diritto europeo».

In particolare, la Corte sottolinea come nell'ambito della Convenzione di Istanbul siano descritte tre diverse tipologie di violenza: «violenza nei confronti delle donne», «violenza domestica» e «violenza di genere», accomunate dalla completa parificazione tra violenza fisica e psicologica all'interno del più generale concetto di violenza[12]. Gli artt. 33 e 34 della Convenzione impongono agli Stati firmatari di prevedere sanzioni penali per le condotte di violenza psicologica e di atti persecutori; nell'ambito delle misure di tutela, sul presupposto che l'accesso all'informazione sia la condizione fondamentale per una concreta ed effettiva protezione, l'art. 56, lett. b) e c) prevede a favore della vittima alcuni diritti partecipativi nell'ambito del processo penale, quali il diritto ad essere informata circa l'esito della denuncia e dell'andamento delle indagini, oltreché dell'eventuale evasione o rimessione in libertà dell'autore del reato. Così definito il quadro di riferimento, la sentenza prosegue ricordando che la ratifica della Convenzione deve intendersi operata «nei limiti dei principi costituzionali, anche per quanto attiene alle definizioni contenute nella Convenzione»[13].

Dal canto suo, la Direttiva 2012/29/UE detta norme minime in materia di diritti all'assistenza, informazione, interpretazione e traduzione nonché protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, senza distinzione collegata al tipo di criminalità e alla qualità della vittima[14]. L'art. 6 stabilisce che la vittima ha diritto di conoscere la decisione di non esercitare l'azione penale o di non proseguire le indagini[15], mentre gli artt. 22 e 23 segnalano la necessità della previsione di strumenti particolari destinati a soddisfare esigenze specifiche derivanti dal tipo di reato subito e dalle caratteristiche personali delle vittime vulnerabili, richiamando in particolare le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di essere umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull'odio e le vittime con disabilità.  

Nel Considerando n. 17), la violenza di genere è definita come «la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere»; tale forma di violenza può aver provocato «un danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica alla vittima» ed è considerata «una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette[16], la violenza sessuale (compresi lo stupro, l'aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. reati d'onore»[17].

La sentenza in commento osserva che «si tratta di definizioni che non compaiono nei tradizionali testi normativi di produzione interna, ma che tuttavia, per il tramite del diritto internazionale, sono entrate a far parte dell'ordinamento e influiscono sulla applicazione del diritto». Questa conseguenza si imporrebbe, secondo la Corte, anche alla luce del portato dell'art. 117 co. 1 Cost. e del principio di interpretazione conforme che impone, ove la norma interna si presti a diverse esegesi o abbia margini di incertezza, «di scegliere quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali». L'obbligo di interpretazione conforme «è ancora più pregnante riguardo alle norme elaborate nell'Unione Europea, atteso che il principio del primato del diritto comunitario impone al giudice nazionale l'obbligo di applicazione integrale per dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria».

Dunque, l'obbligo di avviso è stato introdotto al fine di ampliare i diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale e «il testo normativo in cui è contenuto si prefigge lo scopo di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, specie ove si estrinsechi contro le donne o nell'ambito della violenza domestica» ed il reato di atti persecutori, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta, «al di là della sua riconducibilità ai reati commessi con violenza fisica», una delle fattispecie cui nel nostro ordinamento è affidato il compito di reprimere tali forme di criminalità e di proteggere la persona che la subisce. Quindi, argomenta la Corte, non è possibile escludere i reati di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p. dal novero di quelli richiamati dall'art. 408 co. 3 bis c.p.p., proprio in quanto la nozione di «violenza» adottata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella positivamente disciplinata dal nostro codice penale ed è sicuramente comprensiva di ogni forma di violenza di genere, contro le donne e nell'ambito delle relazioni affettive, sia o meno attuata con violenza fisica o morale, tale da cagionare una sofferenza anche solo psicologica alla vittima del reato.

 

 

3. Problemi e prospettive. Le Sezioni unite affermano, a conclusione del loro ragionamento, che la norma di cui all'art. 408 co. 3 bis c.p.p. deve essere interpretata come riferibile anche «ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti»,  perché l'espressione violenza alla persona deve essere intesa «alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario».

Per tale via, la sentenza fornisce al contempo una risposta mirata al quesito sottoposto, laddove chiarisce che l'obbligo di avviso, con la conseguente nullità, opera anche nel caso di cui all'art. 612 bis c.p., e si spinge più in là, affermando che la stessa norma deve trovare applicazione anche nel caso di maltrattamenti, di cui all'art. 572 c.p.

Tuttavia, sono le argomentazioni della Corte, più che le conclusioni specifiche, a sollecitare sotto diversi profili l'interprete.

Pare certo che l'avviso del deposito della richiesta di archiviazione debba essere notificato anche se i reati di maltrattamenti in famiglia o di atti persecutori siano, in ipotesi, avvenuti senza alcun atto di violenza fisica o morale (come pure è astrattamente possibile), poiché ad imporre la notifica basta in questo caso la tipologia del reato. Infatti, quale che sia la «violenza» esercitata nel caso concreto, si tratterà comunque e per definizione, di «violenza di genere». Tuttavia, al di là delle due fattispecie così individuate, occorrerà chiedersi quale sia la portata concreta dell'espressione «violenza alla persona», per come emerge dal ragionare delle Sezioni unite.

Sotto un primo profilo, parrebbe potersi escludere, sulla base degli argomenti spesi dalla sentenza, che l'art. 408 co. 3 bis c.p.p. debba trovare applicazione con riguardo a reati che, pur essendo stati commessi con violenza (fisica o morale), non rientrino nell'ambito dei reati definibili come atti di «violenza di genere». Perciò, ad esempio, non dovranno essere avvisate le persone offese vittime di rapina (art. 628 c.p.) o di estorsione (art. 629 c.p.) se non ne abbiano fatto esplicita richiesta, anche se questi reati non possono che essere compiuti tramite atti di violenza, fisica o morale[18].

Tale conclusione si impone perché, come visto, nel percorso interpretativo tracciato dalle Sezioni unite, l'obbligo di avviso è strettamente collegato alla violenza di genere ed è dunque stabilito solo per quei reati intimamente connessi con l'appartenenza della vittima ad uno specifico genere o, comunque, con l'esistenza di una situazione di particolare vulnerabilità. Considerazione che, ragionevolmente, indurrà ad escludere, nonostante la lettera della legge, che l'obbligo di avviso così disciplinato possa essere esteso a fattispecie estranee a questo quadro[19].

Sotto tale profilo, le conclusioni della sentenza in esame non potranno che portare ad una rimeditazione dell'orientamento secondo il quale l'espressione utilizzata dall'art. 299 c.p.p. evocherebbe «non già una categoria di reati le cui fattispecie astratte siano connotate dall'elemento della violenza (sia essa fisica, psicologica o morale) alla persona, bensì tutti quei delitti, consumati o tentati, che, in concreto, si sono manifestati con atti di violenza in danno della persona offesa»[20].

In sostanza, le considerazioni delle Sezioni unite lasciano impregiudicata la questione relativa al novero dei reati in riferimento ai quali troverà applicazione la disposizione esaminata. In particolare, spetterà alla giurisprudenza ordinaria chiarire se esistano, al di là di quelli espressamente menzionati dalla sentenza in commento e disciplinati dagli artt. 572 c.p. e 612 bis c.p., ulteriori reati che possano rientrare tra quelli "di genere".

Si pensi, ad esempio, alle diverse tipologie di violenza sessuale, che, per loro stessa natura, vengono compiute generalmente nei confronti di vittime vulnerabili e, nella maggior parte dei casi, rientranti in un «genere»[21]. Del resto, si è già visto come la stessa direttiva 2012/29/UE citi, tra i reati fondati sulla discriminazione e rientranti nelle forme di «violenza nelle relazioni strette»[22], la «violenza sessuale (compresi lo stupro, l'aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. reati d'onore». Così, la sentenza in commento apre un sentiero interpretativo foriero di ulteriori sviluppi: infatti, sarà difficile non ritenere applicabile l'art. 408 co. 3 bis c.p.p., proprio sulla base delle argomentazioni svolte dalle Sezioni unite, anche a reati come quelli previsti agli artt. 609 bis c.p. (violenza sessuale), 583 bis c.p. (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili) o 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù).

Più in generale, ci si dovrà chiedere se l'obbligo di avviso alla persona offesa del deposito della richiesta di archiviazione abbia una "geometria variabile" ed operi per qualsiasi reato posto in essere contro «una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere»; oppure se la nozione di violenza di genere debba interpretarsi come riferita solamente ad alcune "tipologie" di reato.

L'impostazione interpretativa delle Sezioni unite sembra decisamente virare verso la seconda prospettiva, così che la vittima di un reato violento e tuttavia non rientrante nel novero dei reati di genere non potrà dolersi del mancato invio dell'avviso della richiesta di archiviazione, se non ne abbia fatto espressa richiesta nel corso del procedimento. In assenza di una chiara presa di posizione, è tuttavia  prevedibile l'insorgere di ulteriori contrasti.

Sotto un diverso ma connesso profilo, si è già accentato alla recente introduzione, proprio in esecuzione della direttiva europea più volte citata, nel nuovo art. 90 bis c.p.p., di un inedito obbligo di fornire alla persona offesa una serie di avvertimenti già in occasione del primo contatto con l'Autorità. L'art. 90 ter c.p.p., dal canto suo, stabilisce, per i «procedimenti per delitti commessi  con  violenza  alla  persona», una serie di avvertimenti obbligatori alla persona offesa in ordine allo status libertatis dell'indagato.

Trattandosi di disposizioni introdotte espressamente in attuazione della direttiva comunitaria, la stessa non potrà che avere la portata delineata dalle Sezioni unite con riferimento all'art. 408 co. 3 bis c.p.p., pena un'insanabile illogicità nel sistema. Così pure, salvo diversa, motivata e specifica riflessione, dovrà ritenersi per tutte quelle ipotesi nelle quali il legislatore utilizzi l'espressione «delitti commessi con violenza alla persona» in un contesto diretto alla tutela di vittime (vulnerabili) di violenza di genere. Il riferimento è all'art. 299 commi 2 bis e 3 c.p.p., i quali, nel disciplinare importanti obblighi di comunicazione e notificazione delle ordinanze applicative o di richieste modificative di misure cautelari, fanno riferimento proprio alla categoria oggi definita dalle Sezioni unite[23]. Trattandosi di obblighi esplicitamente introdotti a tutela delle vittime di violenza di genere, la portata dell'espressione «violenza alla persona» non potrà essere definita senza fare riferimento alle Sezioni unite in esame.

Peraltro, in questo senso si è già espressa la giurisprudenza, affermando che le vittime dei reati di stalking o di maltrattamenti in famiglia devono essere avvertite della presentazione di un'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare del divieto di avvicinamento. Questa conclusione si impone proprio perché, secondo la Corte di cassazione, una corretta esegesi del testo normativo porta a valorizzare non tanto la riconducibilità teorica del delitto contestato nel titolo cautelare a una fattispecie legale astratta connotata nel suo schema dogmatico dalla violenza alla persona, quanto invece l'effettiva sussistenza, nel singolo caso, di una condotta materiale caratterizzata dalla concreta esplicazione di atti di violenza in danno della persona offesa[24]. Affermazione, questa, che risponde non solo alla lettera della disposizione, ma anche alla ratio oggettiva della novella normativa, che è quella di assicurare nuovi e migliori strumenti informativi e di tutela ai soggetti vulnerabili che siano vittime di condotte violente «suscettibili di potenziale reiterazione in caso di modifica dello status cautelare del soggetto responsabile». Nella stessa occasione, la Corte ha peraltro precisato che i risultati cui la giurisprudenza di legittimità è giunta in tema di interpretazione della nozione di violenza alla persona non possono essere automaticamente estesi all'art. 649 c.p. Sul punto, è appena il caso di sottolineare che quest'ultima disposizione è sorretta da una ratio affatto diversa e che, trattandosi di norma sostanziale, le argomentazioni legate alla voluntas del legislatore internazionale presterebbero il fianco a rilievi di rango costituzionale ben più consistenti di quelli operanti con riferimento a disposizioni processuali.

Proprio sul piano dei criteri di ermeneutica, alcune pur brevi osservazioni si impongono, poiché le Sezioni unite hanno di fatto totalmente obliterato il criterio letterale, per sposare una interpretazione latamente inquadrabile nella ricerca della voluntas legis.

Sul punto, la sentenza in commento ha probabilmente cominciato a tracciare un sentiero. Lo dimostra il fatto che già pochi giorni dopo il deposito della motivazione fin qui esaminata, la Sezione II della Corte ha ribadito il principio secondo il quale l'effettiva portata dell'obbligo di notifica dell'istanza sulla libertà proposta dall'indagato deve essere determinata alla luce della «volontà del legislatore», quella cioè di «garantire alla vittima del reato commesso con violenza alla persona anche fuori della relazione affettiva, un diritto alla informazione e alla protezione, in ossequio alla direttiva 2012/29/UE», pur sottolineando il fatto che la tutela della vittima vulnerabile, che si va rafforzando nel nostro ordinamento proprio in conseguenza delle più volte citate normative internazionali, non può «mai costituire una good reason per ammettere una vera e propria deroga al contraddittorio», poiché «giustifica soltanto una disciplina speciale quanto alle modalità di realizzazione dello stesso»[25].

Resta da osservare, in conclusione, che le Sezioni unite esaminate costituiscono una ulteriore manifestazione dello sforzo interpretativo e di riflessione che l'adesione del nostro sistema al diritto europeo ha imposto al giurista negli ultimi decenni. Infatti, proprio alla luce del diritto europeo, sempre più spesso i parametri ed i principi, anche interpretativi, dell'ordinamento nazionale, vengono posti in discussione e la ferrea rigidità dell'esegesi tradizionale viene scossa dalla fluidità e dalla adattabilità dei concetti propri del diritto europeo. Agli interpreti, dunque, il compito di elaborare soluzioni rispettose degli equilibri ordinamentali ed, al contempo, adeguate alle esigenze di un processo penale moderno e funzionale[26].

 


[1] Le Sezioni unite, all'esito della loro riflessione, confermano l'orientamento, ormai consolidato, secondo il quale l'omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia fatto richiesta, determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127 comma 5 c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per  cassazione. Sul punto, v. già Corte cost. 16 luglio 1991, n. 353, e Corte cost. 7 dicembre 1994, n. 413; nonché, da ultimo, Cass. 27 novembre 2012, in Cass. pen., 2013, p. 4484.

[2] Recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province».

[3] Per i quali cfr. A. Procaccino, L'avvento della persona offesa nelle dinamiche custodiali, in Aa. Vv., Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme, Giappichelli, 2015, p. 75 ss, la quale parla di «pastiche dei reati commessi con violenza alla persona».

[4] Cfr. M.C. Ubiali, Violenza vs. minaccia: i profili processuali di una classica dicotomia al vaglio delle Sezioni Unite. In tema di archiviazione dei procedimenti per stalking, in Questa rivista, 28 gennaio 2016.

[5] Parla di «difetto di coordinamento» A. Cisterna, L'obbligo di avvisare sulla richiesta di archiviazione esteso alla fattispecie dello stalking», in Guida dir., 2016, f. 20, p. 83 ss.

[6] M.C. Ubiali, op. cit.

[7] L'introduzione del reato di cui all'art. 612 bis c.p.p. con il decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 è dichiaratamente volta ad anticipare la tutela penale delle vittime di atti di violenza di genere, per impedire che la sopraffazione morale degeneri in vera e propria violenza fisica; nella stessa ottica, del resto, si muove l'innalzamento della pena edittale per il reato in questione, con la previsione del filtro dell'udienza preliminare e, soprattutto, con la possibilità di applicare la misura della custodia cautelare in carcere (modifiche attuate con legge 9 agosto 2013, n. 94): cfr. A. Cisterna, op. cit., p. 86, il quale auspica che l'interpretazione delle disposizioni del codice sia sempre più orientata dalla constatazione «criminologica» che gli atti di violenza fisica sono, in genere, l'epilogo di condotte antecedenti, «parimenti aggressive e pericolose», se pure solamente «morali»; più in generale, v. G. Pavich, La nuova legge sulla violenza di genere, in Cass. pen., 2013, p. 4314 ss.

[8] Sul punto si fronteggiano due orientamenti. Secondo una prima impostazione, tale previsione dovrebbe essere interpretata con esclusivo riferimento alla violenza fisica (da ultimo: Sez II, 15 marzo 2005, RV 231051). Diverso indirizzo e la prevalente dottrina includono nella nozione di violenza alla persona anche la violenza morale, poiché i reati oggetto della norma sono individuati per analogia a quelli di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione (da ultimo Sez. VI, 18 dicembre 2007, RV 240500). Peraltro, numerosi reati che possono essere commessi (anche) con minaccia sono rubricati come atti di «violenza»; ciò è vero, per esempio, per il reato di cui all'art. 393 c.p., per la «violenza privata» di cui all'art. 610 c.p. o per la stessa «violenza sessuale», attuabile con «violenza o minaccia». Sull'interpretazione e sulla ratio dell'art. 649 c.p. v. la recente Corte cost. 7 ottobre 2015, n. 223.

[9] Aa.VV., Lo statuto europeo della vittima di reato. Modelli di tutela tra diritto dell'Unione e buone pratiche nazionali, a cura di Lupária, Padova, 2015. 

[10] V., tra gli altri ed oltre agli autori già citati, S. Recchione, L'impatto della direttiva 2010/64/UE sulla giurisdizione penale: problemi, percorsi interpretativi, prospettive, in questa rivista, 15 luglio 2014; nonché Id., Le vittime da reato e l'attuazione della direttiva 2012/29 UE: le avanguardie, le prospettive, i problemi, in questa rivista, 25 febbraio 2015.

[11] Cfr. Aa.Vv., Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa ed Italia, Giappichelli, 2012; nonché F. Del Vecchio, La nuova fisionomia della vittima del reato dopo l'adeguamento dell'Italia alla direttiva 2012/29/UE, in Questa rivista,  11 aprile 2016.

[12] L'art. 3 della Convenzione di Istanbul definisce «violenza nei confronti delle donne» ogni «violazione dei diritti umani» ed «una forma di discriminazione contro donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata» e l'espressione violenza domestica designa «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

[13] Come si legge nella Relazione illustrativa alla legge di ratifica, la dichiarazione interpretativa, conforme a quella resa al momento della firma, «si eÌ€ resa necessaria in quanto la Convenzione, nel preambolo e negli articoli, si richiama al "genere" di cui offre una definizione ampia ed incerta e che presenta profili di criticità con il nostro impianto costituzionale».

[14] Recentissimo è il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 con il quale si è provveduto a dare esecuzione alla direttiva in questione. Tra le disposizioni di maggiore interesse in questa sede vi è certamente il nuovo art. 90 bis c.p.p. che, tra le informazioni che debbono essere fornite alla  persona offesa «sin dal primo contatto  con  l'autorità procedente», in una lingua a lei comprensibile,  elenca quelle inerenti la «facoltà  di  essere  avvisata  della  richiesta  di archiviazione»: cfr., per un primo, articolato commento, F. Del Vecchio, op. cit., p. 5 ss.

[15] S. Allegrezza, Il ruolo della vittima nella direttiva 2012/29/UE, in Aa.Vv., Lo statuto europeo delle vittime di reato,  a cura di L. Luparia, Cedam, 2015, p. 9 ss.

[16] La violenza nelle relazioni strette viene a sua volta definita (premessa n. 18) come «quella commessa da una persona che è l'attuale o l'ex partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere se l'autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima ... questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico mentale o emotivo, o perdite economiche».

[17] Nella sua opera di ricognizione delle definizioni sovranazionali, infine, la Corte cita la Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime che ha indicato quali «violenze gravi alla persona» la tortura, l'uso forzato di droghe, lo stupro e altre forme di violenza psicologica, fisica o sessuale. Tale disposizione eÌ€ stata integralmente recepita nel nostro ordinamento dall'art. I del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, recante, appunto, Attuazione della direttiva 2011/36UE relativa alla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI, nonché la Direttiva 2011/99/UE, volta ad istituire l'Ordine di protezione europeo (OPE), destinato a tutelare le vittime, anche potenziali, di reati che mettano in pericolo la vita, l'integrità fisica o psichica, la libertà personale, la sicurezza o l'integrità sessuale del soggetto da proteggere, con particolare riguardo alle vittime della violenza di genere o nelle relazioni strette, che si esprime con violenze fisiche, molestie, aggressioni sessuali, stalking, intimidazioni o altre forme indirette di coercizione (Considerando n. 9 e n. 11 della Direttiva).

[18] Sul punto, già si era pronunciata la giurisprudenza di merito: Gip Torino, ordinanza 9271/13 del 4 novembre 2013, consultabile in Questa rivista, 28 novembre 2013, con commento di H. Belluta, Revoca e sostituzione di misura cautelare e limiti di coinvolgimento della vittima.

[19] Del resto, già la giurisprudenza di merito aveva affermato l'insussistenza di un obbligo di notifica della richiesta di sostituzione del luogo di detenzione con riferimento al reato di cui all'art. 628 c.p., ritenendo che l'obbligo di notificare le richieste indicate dall'art. 299 co. 2 bis c.p.p. alle persone offese sia «funzionale all'esigenza di offrire alle stesse una maggior tutela dagli eventuali rischi che potrebbero derivare dalla revoca della misura o dalla sostituzione con misura meno afflittiva». Orbene, tale esigenza, nel caso di una rapina con vittima "occasionale" si ridurrebbe «a mero formalismo», in quanto alla persona offesa di un reato commesso con violenza solo occasionale nessun ragionevole pregiudizio poteva derivare dalla modifica del luogo di esecuzione degli arresti domiciliari: cfr. Gip Torino, cit.; per contro, si pensi ai casi, assai frequenti nella pratica, di estorsione ai familiari, pur avulsi da quella caratterizzazione di genere oggetto dell'intervento normativo e, tuttavia, caratterizzati da un contatto non meramente occasionale tra reo e vittima: E. Campoli, Tutela della persona offesa nella violenza di genere: brevi riflessioni sulle novelle processuali, in Arch.n. proc. pen., 2014, p. 221.

[20] Cass., 29 ottobre 2015, Gallani, 265732, con riferimento ad un'ipotesi di sequestro di persona nel quale però, in concreto, nessun atto di violenza si era compiuto, poiché le forze di polizia erano tempestivamente intervenute.

[21] Sottolinea l'irragionevolezza  di una interpretazione che escludesse questi reati dal novero di quelli per cui è previsto l'avviso ex art. 408 co. 3 bis c.p.p. M.C. Ubiali, Violenza vs minaccia, cit.

[22] La violenza nelle relazioni strette viene a sua volta definita (premessa n. 18) come «quella commessa da una persona che eÌ€ l'attuale o l'ex partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere se l'autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima. Questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico mentale o emotivo, o perdite economiche».

[23] Cfr. sul punto Cass. 5 febbraio 2015, n. 6717, in Cass. pen., 2015, p. 1952; cfr. A. Procaccino, op. cit., p. 79

[24] In tal senso, Cass. 29 ottobre 2015, Gallani, cit.

[25] Cfr. Cass. 1 aprile 2016, n. 19704, inedita, la quale ha affermato che l'obbligo di notifica della richiesta di revoca o sostituzione della misura viene soddisfatto quando la notifica sia avvenuta presso la persona offesa «i cui identificativi completi emergano dal fascicolo processuale»; altra pronuncia della Corte aveva invece escluso l'onere della informativa nel caso cui la persona offesa si sia disinteressata della vicenda processuale, non avendo nominato un difensore o non essendosi resa reperibile indicando un valido domicilio: cfr. Cass. 3 febbraio 2016, n. 12325, inedita.

[26] Cfr. le riflessioni di Luparia, Notazioni comparate, in Lo statuto europeo della vittima di reato, cit.