ISSN 2039-1676


27 giugno 2016 |

La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte)

Nota a Cass. pen., sez. IV, 11 maggio 2016 (dep. 6 giugno 2016), n. 23283, Pres. Blaiotta, Rel. Montagni, Ric. Denegri

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1. Con la sentenza in commento, i giudici della IV Sezione della Cassazione tornano ad occuparsi del perimetro applicativo della legge Balduzzi, segnando, attraverso una lettura garantista dell'art. 3, co. 1 della legge 8 novembre 2012, n. 189, un plateale distacco dall'orientamento, sin qui maggioritario in seno alla medesima Sezione, diretto a circoscrivere l'irrilevanza della colpa lieve alle sole condotte mediche connotate da imperizia.

L'occasione per una riflessione di più ampio respiro sulla portata e sugli effetti del meccanismo di esenzione della responsabilità in ambito sanitario è offerta da una questione, relativamente semplice, di diritto intertemporale, sorta a seguito di una condanna per omicidio colposo, pronunciata dal Tribunale di Genova nel maggio 2012 (in epoca pre Balduzzi) e confermata integralmente dalla Corte di Appello nel maggio 2015, nei confronti di un medico chirurgo addetto al reparto di medicina generale; l'addebito è di avere omesso, "nonostante l'aggravamento della sintomatologia addominale, di attuare tempestivamente ogni possibile e specifica attività diagnostica e terapeutica" nei confronti di un paziente che presentava, "già all'atto del ricovero in ospedale, sintomatologia riferibile alla fessurazione dell'aneurisma dell'aorta addominale" (la TAC venne eseguita solo "quando il quadro di rottura dell'aneurisma dell'aorta addominale era ormai conclamato"), in tal modo compromettendone "la possibilità di guarigione" e cagionandone la morte, "nonostante l'effettuazione dell'intervento chirurgico di rimozione dell'aneurisma".

La difesa, nel ricorso per Cassazione, contestava in particolare la qualificazione della condotta dell'imputato in termini di colpa per imperizia e la mancata valutazione del grado della colpa, alla luce della sopravvenuta legge n. 189 del novembre del 2012, da ponderare con riferimento all'essersi attenuto o meno da parte del medico alle linee guida.

 

2. Partendo dal profilo intertemporale, la Cassazione richiama l'orientamento che, a partire dalla sentenza Cantore[1], ravvisa un'abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo l'art. 3 ristretto l'area del penalmente rilevante, e invoca di conseguenza l'applicazione dell'art. 2 co. 2 c.p. e l'efficacia retroattiva della legge Balduzzi (pag. 5). Sul piano applicativo, ciò implica che il giudice proceda d'ufficio all'accertamento del grado della colpa, nell'ambito dei "procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, relativi ad ipotesi di omicidio o lesioni colpose ascritte all'esercente la professione sanitaria, in un ambito regolato da linee guida" (p. 7).

Così, riscontrate nella sentenza impugnata carenze motivazionali in ordine tanto alla verifica dell'esistenza di linee guida e prassi terapeutiche quanto al grado della colpa ascrivibile all'imputato, i giudici ricollegano "l'omessa verifica dei margini di operatività della parziale decriminalizzazione" alla "doverosa osservanza, da parte del giudice del merito, delle disposizioni che regolano la successione nel tempo di norme incriminatrici". Facendo quindi refluire "la doglianza, articolata in sede di ricorso per cassazione, circa la carenza motivazionale derivante dall'omessa applicazione della sopravvenuta disposizione nella valutazione del grado della colpa del sanitario, secondo il canone della retroattività della norma più favorevole" alla "violazione della legge penale, con riferimento al mancato accertamento dell'elemento soggettivo della fattispecie" (pag. 7), pervengono a un annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice di merito per un nuovo esame "relativo alla sussistenza e al grado degli eventuali profili di ascrivibilità della condotta" (pag. 8).

 

3. A questo punto, anziché fermarsi, la Corte, col proposito di orientare la "complessa - e, per certi effetti, inedita - valutazione rimessa al giudice di merito", coglie l'occasione per chiarire alcuni passaggi cruciali del non agevole compito di accertamento del grado della colpa, non solo ripercorrendo l'evoluzione del tema della responsabilità professionale in ambito sanitario e riepilogando talune acquisizioni sin qui emerse nel cammino giurisprudenziale della legge Balduzzi, ma anche - e soprattutto - prendendo posizione, in maniera argomentata e puntuale, su alcuni punti maggiormente controversi e 'divisivi' della tematica.

 

3.1. Andando con ordine, nell'individuazione del grado della colpa, ancora una volta sulla scia della sentenza Cantore, torna ad assumere un peso rilevante "la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare", declinata attraverso una valutazione complessiva (con tanto di bilanciamento di fattori contrapposti) di indicatori quali le "specifiche condizioni del soggetto agente" e il suo "grado di specializzazione", la "situazione ambientale, di particolare difficoltà, in cui il professionista si è trovato ad operare", "l'accuratezza nell'effettuazione del gesto clinico, le eventuali ragioni di urgenza, l'oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data"(pag. 8).

Il criterio di massima - ferma restando la valutazione discrezionale del giudice - è quello scolpito già nel 2013, in base al quale, da un lato, "si può ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente"; e, dall'altro, "quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall'impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l'addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia" (pag. 9).

 

3.2. Per meglio cogliere gli esatti confini applicativi della riforma, la Cassazione muove da un utile compendio dei precedenti tentativi di far penetrare il concetto di colpa grave, per il tramite dell'art. 2236 c.c., nel terreno della responsabilità penale del medico. Così, viene ripercorso il cammino che va dall'approccio indulgente verso la classe medica, prevalente negli anni '70 e in qualche misura avallato dalla stessa Corte costituzionale - che nel 1973 aveva escluso la violazione del principio di eguaglianza nella possibile applicazione in sede penale dell'art. 2236 c.c., riferendone l'operatività ai soli casi in cui la prestazione professionale comportasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, contenuta quindi nel circoscritto terreno della perizia[2] (pag. 9) - a quello, più rigoroso, che esclude l'applicabilità della norma civilistica in materia penale, relegando il grado della colpa a mero criterio di commisurazione della pena ex art. 133 c.p.[3] (pag. 10).

Il cammino culmina nella "nuova considerazione" da riservare oggi alla questione, a seguito della legge Balduzzi e dell'attualità dei concetti di colpa lieve e di colpa grave, "che vengono ad intrecciarsi con l'ulteriore questione (...) concernente l'impiego, in sede giudiziaria, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica" (pag. 11). Proprio questo intreccio chiama in causa natura e contenuto delle linee guida: secondo la lettura giurisprudenziale, "non sono in grado di offrire standard legali precostituiti" e "non divengono (...) regole cautelari, secondo il classico modello della colpa specifica", trattandosi di "prodotto multiforme, originato da una pluralità di fonti, con diverso grado di affidabilità". Piuttosto, si ricorda, esse vengono in rilievo "nel momento in cui si procede alla valutazione ex ante della condotta dell'esercente la professione sanitaria, tipica del giudizio sulla colpa, valutazione che deve essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al professionista" (pag. 11). In definitiva: "il terapeuta complessivamente avveduto ed informato, attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l'errore sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole; che, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l'esercente le professioni sanitarie; e che la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente" (pag. 12).

 

4. Nulla di particolarmente nuovo, sin qui: un'ordinata sistematizzazione degli approdi giurisprudenziali in relazione a natura, contenuto e limiti delle linee guida e criteri per rapportare tali fonti alla gradazione della colpa, di cui però, come detto, la Cassazione non sembra accontentarsi, tanto da spingersi a valutare "se l'esonero di responsabilità, per colpa lieve ex lege n. 189/2012, possa essere limitato alla sola colpa per imperizia" (p. 12).

In questa prospettiva, sgombrato il campo da possibili fraintendimenti in merito a quanto riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella richiamata sentenza n. 166 del 1973 (pag. 12), si ricorda come, in seno alla medesima Quarta Sezione, pur sul presupposto condiviso che la nuova disciplina trova in ogni caso il suo terreno di elezione nell'ambito dell'imperizia, si contrappongano due orientamenti: uno, sin qui maggioritario, che circoscrive la limitazione di responsabilità in caso di colpa lieve alle sole condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia; l'altro, più recente, che estende la possibile rilevanza esimente anche rispetto ad addebiti diversi dall'imperizia, non potendosi escludere che le stesse fonti pongano raccomandazioni rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta del soggetto agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza, che quella della adeguatezza professionale (pag. 13).

La chiave di volta è rappresentata dal "reale contenuto delle raccomandazioni raccolte nelle linee guida", desunto da "specifici dati testuali della novella" (tra i quali la rubrica e l'ambito soggettivo dell'art. 3, co. 1 della legge 189 del 2012, incentrati sull'attività dell'esercente la professione sanitaria) e dal fatto che "le linee guida non contengono raccomandazioni solo in riferimento all'attività del personale medico, ma anche rispetto all'ambito di intervento dei diversi professionisti che, con specifiche e diversificate competenze, operano nel settore della sanità", come dimostrato da una rassegna delle "numerose linee guida ad oggi disponibili, distinte secondo la tipologia dei diversi operatori sanitari - personale medico o infermieristico - chiamati ad interagire, nella prestazione delle cure"; ebbene, in tali casi, "nei quali l'ambito di intervento comporta l'interazione con professioni sanitarie non mediche, alle regole di perizia, contenute nelle linee guida, si affiancano raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, ovvero all'accuratezza operativa, nella prestazione delle cure" (pag. 13).

A ciò, si sommano le incertezze palesate nella scienza penalistica e la conseguente mancanza di indicazioni tassative e affidabili in merito alla distinzione tra diverse ipotesi di colpa generica, tanto sul versante della qualificazione della perizia quanto su quello della "indefinitezza delle regole di diligenza"; il che conduce a mettere in discussione il contributo offerto dalla stessa distinzione tra colpa per imprudenza e colpa per imperizia per delimitare l'ambito di operatività, proprio in ragione della "intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela" (pag. 14).

In definitiva, la valutazione sull'ambito di operatività della norma "non può che poggiare sul canone del grado della colpa", punto centrale dell'impianto normativo delineato dalla legge Balduzzi. E il giudice, "a fronte di linee guida che comunque operino come direttiva scientifica per gli esercenti le professioni sanitarie, in riferimento al caso concreto, e ciò sia rispetto a profili di perizia che, più in generale, di diligenza professionale, deve procedere alla valutazione della graduazione della colpa, secondo il parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare". Nel determinare la misura del rimprovero, dovrà in particolare "considerare il contenuto della specifica raccomandazione clinica che viene in rilievo, di talché il grado della colpa sarà verosimilmente elevato, nel caso di inosservanza di elementari doveri di accuratezza. Il delineato paradigma valutativo della responsabilità sanitaria appare coerente rispetto alla cornice legale di riferimento, posto che la legge n. 189 del 2012 non contiene alcun richiamo al canone della perizia, né alla particolare difficoltà del caso clinico; e rispondente alle istanze di tassatività, che permeano lo statuto della colpa generica, posto che il giudice, nella graduazione della colpa, deve tenere conto del reale contenuto tecnico della condotta attesa, come delineato dalla raccomandazione professionale di riferimento" (pag. 15).

La conseguenza ultima, compendiata nel principio di diritto scolpito nelle conclusioni, è che "la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le condotte professionali conformi alle linee guida e alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dalla imperizia" (pag. 15).

 

* * * 

 

5. In sede di primo commento, può senz'altro dirsi che la soluzione accolta, nei suoi passaggi argomentativi, appaia convincente, offrendo lo spunto per soffermarsi ancora sulla limitazione di responsabilità per colpa grave: circoscritta esclusivamente alle ipotesi di imperizia ovvero estesa anche a quelle di colpa per negligenza e imprudenza?

Nel silenzio normativo sul punto, e nella non uniformità della giurisprudenza, la possibilità di dare una risposta soddisfacente al quesito appare intimamente connessa a due ulteriori nodi da sciogliere:

a) la natura da attribuire alle regole contenute nelle linee guida;

b) l'interpretazione della colpa grave che si andrà consolidando, nel rapporto con la disciplina civilista di riferimento (l'art. 2236 c.c.).

 

5.1. Andando con ordine, come ricordato, l'orientamento sinora prevalente in giurisprudenza[4] propende per un'applicazione della fattispecie "solo allorquando si discuta della 'perizia' del sanitario", non potendo essa "involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza", sul presupposto che "le linee guida contengono solo regole di perizia"[5].

A corroborare questa lettura ha contribuito la Corte costituzionale che, sollecitata dal Tribunale di Milano[6] a vagliare la conformità costituzionale dell'art. 3 co. 1, in relazione, fra gli altri, all'art. 3 Cost. (con riferimento al principio di uguaglianza), ha inserito, nel corpo della scarna motivazione dell'ordinanza d'inammissibilità del dicembre 2013[7], un fugace obiter: "la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata viene in rilievo solo in rapporto all'addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all'esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente". Tale passaggio è stato interpretato quale sostanziale avallo - nel caso in cui siano state osservate linee guida e buone pratiche formalizzate, mentre il medico avrebbe dovuto discostarsene - alla diversità di trattamento fra un rimprovero solo per imperizia ovvero per negligenza e imprudenza.

Ma il fronte giurisprudenziale, come sappiamo, non si è dimostrato coeso, se è vero che ben prima della pronuncia in commento - in seno alla medesima Sezione della Cassazione (la Quarta) - sono emerse posizioni discordanti e (pur timide) aperture; si è così precisato che, per quanto la disciplina disegnata dalla legge 189 del 2012 trovi il suo terreno d'elezione nell'ambito della perizia, "non può tuttavia escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell'agente sia quello della diligenza; come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell'accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale"[8]. Letture che muovono dalla consapevolezza delle difficoltà connesse alla sussistenza di fattispecie non univoche, in cui viene in rilievo un'attività di spettanza del sanitario - che in quanto tale potrebbe sempre considerarsi come "qualificata" - che afferisce, per rimanere all'indicazione testuale, più "all'accuratezza e alla normale diligenza" che alla perizia.

Questo filone interpretativo, che apre all'idea che le linee guida possano anche contenere regole di particolare attenzione e cura rispetto allo svolgimento di determinate attività valutate come pericolose (ad es. conta delle garze, procedure per disinfettare, controllo dei valori, dimissioni di pazienti, ecc.) e perciò estende anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza lo spettro applicativo, trova supporto anche sul piano normativo, dal momento che i destinatari della norma sono, oltre ai medici, anche gli "operatori sanitari" in generale (ad esempio gli infermieri), ai quali si attaglia molto più la pretesa di comportamenti diligenti piuttosto che periti. Senza trascurare la circostanza che, a ben vedere, la norma fa riferimento non solo alle linee guida ma anche alle "buone pratiche accreditate" (terreno di elezione, stavolta, di comportamenti diligenti) e che, in ogni caso, nessuna indicazione testuale indirizza verso una limitazione alle sole condotte osservanti imperite del trattamento di favore delineato dalla legge Balduzzi.

In termini più generali, va tenuto nel debito conto - come peraltro ben fa la sentenza in esame - il fatto che, nell'ambito della pratica medica, tende a sfumare la stessa distinzione tra imperizia, negligenza e imprudenza[9]. Nella realtà dei casi complessi, infatti, "il confine tra conoscenza, uso appropriato della cautela, avventatezza o trascuratezza nella scelta di quella adatta appare troppo sottile, e troppo pericolosa una distinzione che voglia essere dirimente ai fini penali"; e "una siffatta distinzione difficilmente sarà rinvenibile in termini rigidi nemmeno nelle linee guida, che mirano - senza porsi problemi definitori - ad assicurare la perizia, ma anche la diligenza del medico e la tempestività del suo intervento"[10].

Nondimeno, l'analisi casistica mette in luce la molteplicità - se non la quasi totalità - delle ipotesi di c.d. imperizia mascherata: imputazioni costruite su negligenza o imprudenza che celano, tra le righe, un nucleo contenutistico (se non preponderante quantomeno paritario) di imperizia[11]. Con l'eccezione di macroscopiche forme di lassismo e di scelleratezza sanitaria, possono dirsi infatti preponderanti le ipotesi che, formalmente riconducibili a negligenza o imprudenza, contengono una quota di imperizia, per così dire, fisiologica, ben potendo essere rilette quali scelte di merito - intrise di perizia - errate. È il caso, a titolo esemplificativo, del sanitario che non abbia preso in considerazione la condotta perita omessa o abbia erroneamente ritardato il doveroso approfondimento diagnostico ovvero ancora abbia affrettatamente dimesso il paziente o altrettanto imprudentemente somministrato farmaci controindicati alla luce del (non adeguatamente e correttamente vagliato) quadro clinico del paziente: si tratta, a ben vedere, di fattispecie che hanno alla base una errata diagnosi, per lo più riconducibile ad una altrettanto errata lettura del quadro clinico[12].

 

5.2. Per quanto concerne poi il secondo punto, relativo all'interpretazione del concetto di colpa grave, occorre chiarirsi, una volta per tutte, sui rapporti con la nozione civilistica di gravità della colpa e ancor più con l'art. 2236 c.c. Qualora si propenda per un approccio che - mutuando lo schema civilistico e rievocando ancora la Corte costituzionale del 1973, che proprio attraverso il riferimento a tale requisito aveva escluso la violazione del principio di eguaglianza dell'estensione in sede penale dell'art. 2236 c.c. - circoscriva l'applicazione dell'art. 3 co. 1 ai soli "problemi tecnici di speciale difficoltà", non si potrà che riferirne l'operatività alla sola perizia, la quale, per l'appunto, "presenta contenuto e limiti circoscritti" ed evidentemente non può che essere rapportata alla specifica prestazione medica da svolgere, valutata oggettivamente[13].

Questa che, da un certo punto di vista, appare la soluzione più 'facile' (e forse più rassicurante, soprattutto per chi teme forme di eccessiva depenalizzazione a beneficio della classe medica e auspica, di contro, interpretazioni sterilizzanti della legge Balduzzi) deve però fare i conti col fatto che la stessa giurisprudenza civile, nelle non numerose pronunce in cui ha affrontato la questione, ha finito per sfumare la distinzione in parola (colpa grave/colpa lieve), assumendo un atteggiamento estremamente cauto nell'applicazione dell'art. 2236 c.c. e sposando per di più un'accezione ristretta del 'grado di difficoltà' che deve rivestire la prestazione ai fini della limitazione della responsabilità professionale[14].

Di talché, anche per minimizzare il rischio di stravolgimenti giudiziari nella lettura di condotte mediche come negligenti, imprudenti ovvero imperite a seconda di contingenti esigenze di giustizia sostanziale, si potrebbe optare per un'interpretazione più ampia del requisito della colpa grave (compatibile con tutte le matrici colpose), riconoscendo, sulla scia della più volte evocata sentenza Cantore (ripresa anche dalla sentenza dal cui commento siamo partiti), un peso decisivo alle circostanze del caso concreto che rendono difficile anche ciò che astrattamente (e magari in un altro contesto) non è fuori dagli standard: non solo la complessità, l'oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità e novità della situazione data", ma anche "la situazione nella quale il terapeuta si trovi ad operare", vale a dire i c.d. fattori contestuali, tra i quali spiccano l'urgenza e l'assenza di presidi adeguati e più in generale il disagio organizzativo[15].

Si tratta indubbiamente di un passaggio significativo, che misura la colpa medica - e dunque anche la sua gravità - sul 'contesto', al quale va assegnato un ruolo, su un diverso piano, anche nell'interpretazione della nuova normativa[16]. In quest'ottica, può leggersi il passo poc'anzi riportato della sentenza, nel quale si valorizza la necessità di porre speciale attenzione, "nel determinare la misura del rimprovero", non solo alle "specifiche condizioni del soggetto agente" e al suo "grado di specializzazione" ma anche alla "situazione ambientale, di particolare difficoltà, in cui il professionista si è trovato ad operare", oltre alle "eventuali ragioni di urgenza", alla "oscurità del quadro patologico", alla "difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche", il "grado di atipicità o novità della situazione data" (p. 8). In sostanza, un'apertura a considerare ragioni di contesto/emergenza non solo sul versante della c.d. misura soggettiva, ma anche quale parametro di misurazione oggettiva del grado della colpa: ragioni idonee ad escludere la punibilità, prima che l'inesigibilità, per il mancato raggiungimento della soglia colposa di rilevanza penale.

Una siffatta ricostruzione non può che coniugarsi con l'estensione dell'ambito applicativo alle ipotesi di diligenza e prudenza (qualora, concettualmente e concretamente, se ne continui ad ammettere una demarcazione nitida rispetto alla perizia), ben potendo tali fattori 'situazionali' incidere su un affievolimento del livello di diligenza o di attenzione richiesto in condizioni normali (e dunque incidere anche sull'osservanza o meno delle linee guida e delle buone pratiche accreditate), contribuendo in qualche modo a declinare ulteriormente l'imprescindibile esigenza, da parte dell'operatore sanitario, di non potere confidare prioritariamente sulle linee guida a discapito delle peculiarità (ivi comprese le difficoltà) del caso concreto.

Ciò del resto, appare coerente con la scelta del legislatore del 2012 e con le indicazioni (stavolta concordi) della giurisprudenza, in base alle quali il semplice rispetto di linee guida e buone pratiche non basta a rendere lecita una prassi medica e a escludere ogni possibile addebito per colpa, a fronte dell'insopprimibile esigenza di dover fare sempre i conti col caso concreto, indagando l'attendibilità e la rispondenza alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare, anche in relazione alle istanze personalistiche del paziente: ciò non potrà che avvenire utilizzando l'armamentario per l'accertamento della colpa generica (come, nei fatti, ormai ampiamente riconosciuto).

 

6. La tenuta del discorso sin qui sviluppato va conclusivamente testata al metro delle prospettive di riforma oggi all'ordine del giorno.

Il riferimento è, in particolare, al disegno di legge Gelli, recante "Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario", approvato lo scorso 28 gennaio dalla Camera dei deputati e attualmente all'esame del Senato (A.S. n. 2224)[17], finalizzato non solo a risolvere i guasti interpretativi palesati sin qui dalla legge Balduzzi ma anche ad aumentare il tasso di garanzie per gli operatori delle professioni sanitarie, oltre naturalmente - e ancora - a contrastare il fenomeno della c.d. medicina difensiva.

Si tratta di un provvedimento di estrema importanza, che incide, sul delicato profilo della responsabilità medica, affrontando e disciplinando vari temi, tra i quali la sicurezza delle cure e del rischio sanitario e la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria e della struttura sanitaria pubblica o privata.

Ai fini del nostro discorso, appaiono di particolare interesse:

i) il riferimento esplicito alla disciplina delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida, con l'espressa indicazione che gli esercenti le professioni sanitarie nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative si attengano, salve le specificità del caso concreto, alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida elaborate dalle società scientifiche iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute (art. 5);

ii) l'introduzione nel codice penale del nuovo articolo 590 ter, disciplinante la responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario, ai sensi del quale l'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagioni a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita sarà chiamato a rispondere dei reati di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) solo in caso di colpa grave, con l'esplicita esclusione di quest'ultima allorquando, fatte salve le rilevanti specificità del caso concreto, siano rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, così come definite e pubblicate dal disegno di legge (art. 6).

Rinviando per un più articolato sviluppo del discorso a un successivo approfondimento che ci riserviamo di compiere, può intanto osservarsi come nella proposta si tenda, da un lato, a consolidare la preferenza per la formalizzazione delle regole cautelari nel settore medico e, dall'altro, a prendere posizione sul margine di operatività dell'innalzamento di responsabilità per colpa grave.

Dal primo punto di vista, pur mantenendo la 'valvola di sfogo' delle peculiarità del caso concreto - la cui imprescindibile considerazione era in qualche modo già emersa nell'applicazione della legge Balduzzi rispetto all'esigenza di discostarsi da regole pre-date - sembra intrapresa la strada di una (tendenziale) obbligatorietà del rispetto di buone pratiche e raccomandazioni contenute nelle linee guida, accompagnate dalla 'garanzia' del loro all'accreditamento (id est: certificazione di attendibilità), dall'inserimento in un apposito elenco (finalizzato a renderle, almeno sulla carta, più facilmente reperibili) e dall'esclusione (automatica) della colpa grave nel caso di loro osservanza. Quanto poi all'esplicita limitazione alla sola imperizia dell'innalzamento del grado di colpa punibile, si è ritenuto per tale via di cristallizzare l'opzione giurisprudenziale maggiormente restrittiva.

Ciò, evidentemente, non può che indurre a ribadire le perplessità già manifestate in merito a tale scelta, anche con riferimento allo scopo dell'intervento (lo stesso, peraltro, della legge Balduzzi), e cioè quello di tranquillizzare la classe medica, consentendogli di intervenire con la massima serenità in un clima non conflittuale, così restituendo piena effettività all'art. 32 Cost. e al fondamentale diritto dell'individuo di essere curato al meglio. obiettivo

Il rischio, in altri termini, è che il legislatore, forse troppo preoccupato di scongiurare interpretazioni giurisprudenziali discordanti, stia per compiere un passo indietro, in termini garantistici, rispetto alla soluzione adottata dalla parte più sensibile della giurisprudenza, di cui la sentenza in commento rappresenta un solido pilastro. Parametrato al diritto vivente, infatti, l'ambito di favore per la classe medica si andrebbe a restringere e si vanificherebbe l'obiettivo di allontanare dai medici la tentazione di garantire in via prioritaria la loro incolumità giudiziaria rispetto a quella fisica e psichica dei pazienti sottoposti alle loro cure.

A questo punto, l'auspicio è duplice:

- sul piano interpretativo, che l'estensibilità del trattamento più favorevole della legge Balduzzi non solo alle condotte degli operatori sanitari connotate da imperizia ma anche a quelle accompagnate da imprudenza e negligenza - segnata in maniera chiara e condivisibile, oggi, dalla sentenza della Cassazione presa in esame - rappresenti il punto conclusivo del dibattito, senza innescare un'ulteriore 'reazione' di quella parte della Quarta Sezione meno sensibile alle esigenze di tassatività e determinatezza e di effettivo contrasto alla medicina difensiva;

- sul piano normativo, che il legislatore, nell'ambito dell'articolato dibattito parlamentare in corso, faccia tesoro dell'evoluzione giurisprudenziale e dei suggerimenti correttivi emersi nei primi dibattiti sul disegno di legge Gelli[18] (in parte compendiati in alcuni dei numerosi emendamenti presentati in Commissione Igiene e Sanità del Senato) e abbandoni l'anacronistica e irragionevole distinzione tra imprudenza, imperizia e negligenza, uniformando in chiave di garanzia (non dei medici ma della medicina) l'innalzamento dell'asticella della responsabilità colposa in ambito sanitario.

 


[1] Cass. Sez. IV, 29 gennaio - 9 aprile 2013, n. 16237, Cantore, in questa Rivista, 11 aprile 2013 con nota di Cupelli, I limiti di una codificazione terapeutica (a proposito di colpa grave del medico e linee guida).

[2] Corte cost, sent. 28 novembre 1973, n. 166 (in Giur. cost., 1973, p. 1795 ss.).

[3] Vanno altresì ricordati alcuni più recenti approdi che - recuperando un precedente del 2007 (Sez. IV, sent. 21 giugno 2007, n. 39592, in CED Cass., n. 237875); anche se, a dire il vero, la valorizzazione della colpa grave la si coglie già, seppur e sulla base di argomentazioni differenti, in Sez. IV, sent. 23 marzo 1995, Salvati, in Cass. pen., 1996, p. 1835 ss. e in Sez. IV, sent. 29 settembre 1997, n. 1693, Azzini, in Riv. pen., 1998, p. 350 ss.) - (ri)valorizzano l'art. 2236 c.c. quale "criterio di razionalità del giudizio" (in particolare, Sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 4391, in Dir. pen. proc., 2012, p. 1104 ss. e Sez. IV, 26 aprile 2011, n. 16328, in Riv. it. med. leg., 2011, p. 859 ss.); criterio invocabile, cioè, "come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l'addebito di imperizia sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà".

[4] A partire dalla sentenza Cass. sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11493, ric. Pagano, in questa Rivista, 29 marzo 2013.

[5] Dapprima nella sentenza Cass. sez. IV, 23 aprile 2015, n. 16944 (in Guida dir., n. 24/2015, p. 73), la quale aggiunge coerentemente che "sotto questo profilo, non può accedersi a letture interpretative (cfr. Sezione IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Stefanetti, in Guida dir., n. 2/2015, p. 80), secondo cui il novum della legge Balduzzi potrebbe trovare applicazione anche se il parametro valutativo della condotta del medico sia quello della "diligenza", cioè allorquando siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza dei compiti, magari non particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale) che estendano la disciplina di favore al di là di quello che è l'inequivoca indicazione normativa, ammettendo cioè spazi di impunità per il medico negligente ed imprudente. Anche perché è concettualmente da escludere che le linee guida e le buone prassi possano in qualche modo prendere in considerazione comportamenti professionali connotati da tali profili di colpa. Ciò che significa anche che il medico imprudente e negligente non potrebbe invocare una pretesa adesione alle linee guida per eludere la propria responsabilità".

[6] Con ordinanza 21 marzo 2013, in questa Rivista, 29 marzo 2013.

[7] Corte cost., ordinanza 6 dicembre 2013, n. 295, in questa Rivista, 9 dicembre 2013, con nota di G.L. Gatta, Colpa medica e linee-guida: manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto Balduzzi sollevata dal Tribunale di Milano.

[8] Cass. Sez. IV, 9 ottobre 2014, dep. 17 novembre 2014, n. 47289, con nota di Roiati, Prime aperture interpretative a fronte della supposta limitazione della Balduzzi al solo profilo dell'imperizia, in questa Rivista, 23 marzo 2015 e, più di recente, Cass. Sez. IV, 16 aprile 2015, dep. 15 maggio 2015, n. 20300; Cass. Sez. IV,  7 maggio 2015, dep. 6 agosto 2015, n. 34295; Cass. Sez. IV, 1 luglio, dep. 16 novembre 2015, n. 45527, in Riv. it. med. leg., 2016, p. 361 ss.

[9] Lo segnala, tra gli altri, O. Di Giovine, In difesa del c.d. Decreto Balduzzi. Ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come se fosse medicina, in Arch. pen., 2014, p. 7.

[10] O. Di Giovine, In difesa del c.d. Decreto Balduzzi, cit., p. 7.

[11] Come evidenziato efficacemente da P. Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, in questa Rivista, 24 aprile 2015, p. 2 ss.

[12] Ancora P. Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat, cit., p. 3 ss., con ampi riferimenti tratti dall'esperienza giurisprudenziale.

[13] In Giur. cost., 1973, p. 1795 ss.

[14] Per i necessari riferimenti, sia consentito rinviare a C. Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, Napoli, 2013, 175 ss.

[15] Cass., sez. IV, sent. 9 aprile 2013, n. 16237, cit., p. 2997 ss.

[16] In questo senso, seppure con sfumature differenti, fra le altre, Cass. sez. IV, sentenza 17 novembre 2014, n. 47289, in Guida dir., n. 2/2015, p. 79 ss. e Cass., sez. IV, sent. 6 marzo 2015, n. 9923, ivi, n. 15/2015, p. 96 e in questa Rivista, 24 aprile 2015, con nota di P. Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, cit.

[17] Sul quale, a prima lettura e con diverse prospettive di analisi, v. i commenti di P. Piras, La riforma della colpa medica nell'approvando legge Gelli-Bianco, in questa Rivista, 25 marzo 2016 e A. Panti, Il d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario: il punto di vista del medico, in Dir. pen. proc., 2016, p. 374 ss.

[18] Si rinvia, in particolare, ai molteplici contributi offerti nell'ambito dell'incontro di studi su "La riforma delle responsabilità sanitarie", tenutosi lo scorso 8 giugno 2016 presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Roma "Tor Vergata" e la cui registrazione integrale - in attesa della pubblicazione degli atti - è reperibile al seguente link: https://youtu.be/H3A6QQj4CwE.