11 luglio 2016 |
Omesso versamento di IVA e diretta applicazione delle norme europee in materia di ne bis in idem?
Cass. pen. sez. III, sent. 21 aprile 2016 (dep. 22 giugno 2016), n. 25815, Pres. Amoresano, Est. Di Stasi, Ric. Proc. Gen. Torino in proc. Scagnetti
1. Con la sentenza qui pubblicata in calce, la terza sezione penale della Cassazione, su ricorso per saltum della pubblica accusa, annulla con rinvio una sentenza del Tribunale di Asti che aveva tra l'altro disposto di non doversi procedere, ex art. 649 c.p.p., in relazione a un fatto di omesso versamento di IVA (art. 10-ter d.lgs. 74/2000) per il quale erano già state irrogate sanzioni amministrative dall'amministrazione tributaria.
La sentenza di merito si era evidentemente fondata sulla giurisprudenza della Corte EDU (sulla quale abbiamo più volte richiamato l'attenzione dalle pagine di questa Rivista, come si evince dai numerosi documenti elencati nella colonna a destra) secondo cui viola il diritto al ne bis in idem di cui all'art. 4 Prot. 7 CEDU l'apertura o la prosecuzione di un procedimento penale avente ad oggetto la medesima violazione tributaria già oggetto di un provvedimento sanzionatorio definitivo avente natura sostanzialmente punitiva in base ai noti criteri Engel, ancorché formalmente qualificato come "amministrativo" nell'ordinamento nazionale.
2. La Cassazione rammenta, anzitutto, che secondo l'insegnamento delle "sentenze gemelle" della Corte costituzionale (le nn. 348 e 349/2007), in caso di contrasto tra una disposizione della CEDU o dei suoi protocolli e una norma nazionale il giudice comune deve preventivamente sperimentare la possibilità di una interpretazione conforme di quest'ultima, in modo da risolvere il contrasto in via ermeneutica. Ove ciò sia impossibile, il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna ex art. 117 co. 1 Cost., assumendo la disposizione convenzionale come parametro interposto della questione, e rimettendo così la questione alla Consulta; risultandogli invece preclusa la strada della disapplicazione della norma interna contrastante.
Un tale assetto, ricorda ancora la Cassazione in stretta aderenza a quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 80/2011, non è stato modificato dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nel 2009, che - se ha attribuito il medesimo rango giuridico dei trattati alla Carta dei diritto fondamentali dell'UE (di seguito: CDFUE) - non ha invece determinato alcuna variazione del rango giuridico della CEDU e dei suoi protocolli nel nostro ordinamento.
3. Sulla scorta di tali premesse, osserva dunque la S.C. che l'art. 649 c.p.p. invocato dal Tribunale di Asti fa inequivoco riferimento, nel dettare la disciplina del divieto di un secondo giudizio, alla presenza di una "sentenza o di un decreto penale" divenuti irrevocabili: espressioni che non possono essere dilatate, in via di interpretazione conforme, sino a comprendere provvedimenti sanzionatori adottati dall'autorità amministrativa, ancorché qualificabili come "sostanzialmente punitivi" in base all'apprezzamento autonomo della Corte EDU.
Risultando dunque impraticabile la strada di un'interpretazione conforme, il giudice di merito avrebbe dovuto secondo la S.C. - in base all'insegnamento delle sentenze gemelle - sollevare questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 649 c.p.p. ai sensi dell'art. 117 co. 1 Cost., assumendo per l'appunto quale parametro interposto l'art. 4 Prot. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, "nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione dì una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli".
La Cassazione si astiene, tuttavia, dal formulare essa stessa la questione di legittimità costituzionale per due ragioni. La prima è che, in punto di fatto, non appare chiaro se l'accertamento tributario compiuto a carico dell'imputato abbia carattere definitivo: il che condiziona, ovviamente, la stessa rilevanza della questione, che - par di comprendere - dovrà a questo punto essere rivalutata dal giudice del rinvio. La seconda, appena accennata nella parte conclusiva del provvedimento, è che la recentissima sentenza n. 102/2016 della Corte costituzionale[1] ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale identica a quella ora prospettata (ancorché formulata in relazione a un procedimento per il diverso delitto di abuso di informazioni privilegiate di cui all'art. 184 t.u.f.), sottolineando tra l'altro che "spetta innanzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema [di 'doppio binario' tra sanzione penale e amministrativa: n.d.r.] genera tra l'ordinamento nazionale e la CEDU".
4. La Cassazione si pone, infine, il problema se al risultato di chiudere il procedimento penale attraverso una pronuncia di rito possa pervenirsi attraverso la diretta applicazione dell'art. 50 CDFUE, che sancisce anch'esso il diritto al ne bis in idem nell'ambito dell'ordinamento eurounitario, e che pure era stato richiamato dal giudice di merito.
Anche rispetto a questa possibilità, il collegio ritiene tuttavia che il difetto di prova circa la definitività dell'accertamento tributario osti alla possibilità di proporre una questione pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 TUE alla Corte di giustizia, relativa per l'appunto all'interpretazione dell'art. 50 CFFUE e ai suoi riflessi nel caso di specie: questione che, evidentemente, la Cassazione riterrebbe imprescindibile prima di poter procedere alla diretta applicazione della disposizione in questione.
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5. La pronuncia liquida così in modo perentorio una questione che è, in realtà, un pochino più complessa, e che avrebbe meritato di essere analizzata con qualche maggiore attenzione: anzitutto cogliendo l'occasione per analizzare la praticabilità nel caso di specie dei molteplici canali con cui gli obblighi sovranazionali - tra i quali quelli in materia di ne bis in idem derivanti dall'art. 4 Prot. 7 CEDU e dall'art. 50 CDFUE - sono in grado di penetrare nel nostro ordinamento, ed assumono rilevanza per lo stesso giudice comune.
6. La primissima via è quella, correttamente individuata dalla pronuncia in esame, dell'interpretazione conforme: ossia dell'armonizzazione tra ordinamento interno e obblighi sovranazionali realizzata in via ermeneutica dallo stesso giudice comune, attraverso l'attribuzione alle stesse disposizioni nazionali di un significato compatibile con quello imposto dagli obblighi sovranazionali.
Si tratta, in effetti, della via maestra, indicata come prioritaria anche dalle "sentenze gemelle", che la considerano anzi come pregiudiziale a qualsiasi questione di illegittimità costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost., questione che sarà considerata inammissibile ove non preceduta dalla dimostrazione dell'impossibilità di eliminare in via ermeneutica la denunciata antinomia tra legge nazionale e obbligo sovranazionale.
Altrettanto correttamente, a mio avviso, la Cassazione esclude però che all'art. 649 c.p.p. possa essere assegnato un significato in grado di inglobare nella relativa fattispecie anche l'ipotesi del provvedimento sanzionatorio amministrativo divenuto irrevocabile, al quale debba essere riconosciuta natura "sostanzialmente punitiva" ai sensi della CEDU: il linguaggio usato dal legislatore, il contesto sistematico, la logica della disposizione parlano tutti nel senso che l'espressione "sentenza o decreto penale" nell'art. 649 c.p.p. debba essere riferita ad un provvedimento che ha anche formalmente la fisionomia, appunto, di una "sentenza" (come tale necessariamente pronunciata da un giudice) o di un "decreto penale", espressione univocamente riferita al provvedimento di cui all'art. 460 c.p.p.
Altra questione - non esplorata in questa occasione dalla Cassazione - è se, al di là della disposizione di cui all'art. 649 c.p.p., possa per avventura ravvisarsi nel sistema un principio generale che riconosca all'individuo il diritto al ne bis in idem: un principio del quale lo stesso art. 649 c.p.p. costituisca una specifica ma non necessariamente esclusiva manifestazione, e i cui confini debbano essere ricostruiti dall'interprete anche tenendo conto degli obblighi sovranazionali in materia. Una simile prospettiva sarebbe tutta da studiare con riferimento alla questione che qui ci occupa (l'eventuale rilevanza preclusiva di un precedente provvedimento sanzionatorio formalmente "amministrativo" ma sostanzialmente punitivo"), ma non sarebbe affatto nuova per la nostra giurisprudenza di legittimità, che già nella sentenza Donati delle Sezioni Unite, nel 2005, riconobbe l'esistenza di un principio generale in materia di ne bis in idem la cui portata deontologica eccede l'art. 649 c.p.p., determinando un obbligo di archiviazione del procedimento anche nel caso (non previsto dalla norma codicistica) di mera pendenza presso la medesima sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del p.m. di un procedimento penale per il medesimo fatto[2].
7. Una volta però che si escluda la praticabilità di un'interpretazione conforme (nemmeno attraverso il procedimento ermeneutico dell'analogia iuris), una seconda - e consolidata - via per la soluzione dell'antinomia tra ordinamento interno e obblighi sovranazionali è quella, pure correttamente evocata dalla sentenza ora in esame, della proposizione di una questione di legittimità costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost. della norma interna che si assume contrastante con l'obbligo internazionale, che assurgerà così a "parametro interposto" della questione, secondo i noti insegnamenti delle sentenze gemelle.
La S.C. prospetta qui essa stessa la questione, in termini come abbiamo visto identici a quelli utilizzati dalla quinta sezione penale della Cassazione nel formulare, in via subordinata, una parallela questione in materia di abuso di informazioni privilegiate; ma si astiene dal rinviare essa stessa gli atti alla Consulta, non risultando chiaro dal fascicolo se l'accertamento tributario sul medesimo fatto fosse o meno definitivo, con conseguente dubbio sulla rilevanza della questione nel caso concreto.
Il dubbio sulla rilevanza della questione dovrà ora essere sciolto dal giudice del rinvio, al quale spetterà la decisione se formulare o meno la questione, anche alla luce della recente sentenza n. 102/2016 della Corte costituzionale che ha dichiarato inammissibile il quesito. Valutazione invero non agevole: perché, se è vero che la dichiarazione di inammissibilità in quella sentenza è stata essenzialmente motivata in ragione della natura "perplessa" di quel quesito, sottopostole dalla Cassazione in via soltanto subordinata quale soluzione - per così dire - 'di ripiego' nell'ipotesi in cui non fosse stata accolta la questione formulata in via principal, è però anche vero che, come la Cassazione giustamente sottolinea, la Consulta ha espressamente evidenziato la necessità di un intervento del legislatore per risolvere la denunciata antinomia, in relazione agli elementi di irrazionalità che - a parere degli stessi giudici costituzionali - si determinerebbero nel sistema in caso di accoglimento della questione avente ad oggetto l'art. 649 c.p.p. Il che induce in effetti a ipotizzare che la Consulta possa ritenere, ancora una volta, inammissibile e/o infondata la questione, anche se venisse prospettata in via principale e non più "perplessa".
8. Un'attenzione maggiore di quella riservatale dalla Cassazione avrebbe invece meritato una terza possibile via, che passa per il diritto dell'Unione europea e che ha come referente normativo non più - se non in via mediata - l'art. 4 Prot. 7 CEDU, ma l'art. 50 CDFUE: e cioè la norma che riproduce a livello eurounitario la corrispondente garanzia convenzionale al ne bis in idem, estendendone peraltro l'ambito di applicazione territoriale all'intero spazio giuridico europeo.
La Cassazione coglie, invero, esattamente la premessa logica dell'argomento evidentemente svolto dalla sentenza impugnata: l'art. 50 CDFUE è invocabile nel caso di specie, perché la materia dell'evasione dell'IVA ricade nell'ambito di applicazione del diritto UE, come più volte chiarito dalla Corte di giustizia[3]; ciò che è a sua volta condizione perché - ai sensi dell'art. 51 CDFUE - i diritti riconosciuti dalla stessa CDFUE possano trovare applicazione. Ciò non varrebbe, ad es., ove il procedimento vertesse in materia di omesso versamento di ritenute (art. 10-bis d.lgs. 74/2000), che non è regolato dal diritto UE.
Quel che la Cassazione non esplicita è la conseguenza, sistemicamente destabilizzante, dell'applicabilità dell'art. 50 CDFUE nel caso di specie: se davvero all'imputato dovesse essere riconosciuto un diritto, derivante dall'art 50, a non essere più sottoposto a un processo penale per un fatto di omesso versamento dell'IVA per il quale sia già stato definitivamente sanzionato dall'amministrazione tributaria, l'art. 50 medesimo dovrebbe essere direttamente applicato in suo favore dal giudice penale, se del caso previa disapplicazione di ogni altra norma nazionale contrastante, trattandosi di disposizione di diritto primario dell'Unione, dotata di primazia sul diritto nazionale e idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, così come espressamente affermato dalla Corte di giustizia ai §§ 45-48 del caso Fransson. E ciò, si noti, senza alcuna necessità - né possibilità - di interpellare sul punto la Corte costituzionale, che non è competente a risolvere le antinomie tra disposizioni di legge interne e disposizioni di diritto UE dotate di effetto diretto.
Il giudice penale avrebbe qui, piuttosto, la possibilità di interpellare la Corte di giustizia, nel caso in cui nutrisse dei dubbi sulla corretta interpretazione della disposizione di diritto UE in questione, e dunque - nel nostro caso - sull'art. 50 CDFUE.
Un simile dubbio è stato in effetti già prospettato alla Corte di giustizia in almeno tre ordinanze ex art. 267 TFUE, all'origine di tre procedimenti ora riuniti che pendono avanti alla Corte di giustizia[4], nei quali i giudici rimettenti essenzialmente chiedono ai giudici di Lussemburgo di chiarire se l'art. 50 CDFUE - letto, secondo le indicazioni dell'art. 52 § 3 CDFUE, alla luce dell'art. 4 Prot. 7 CEDU così come interpretato dalla Corte di Strasburgo - osti alla possibilità di un giudizio penale e di una successiva condanna per omesso versamento di IVA, allorché il contribuente sia già stato sanzionato con provvedimento definitivo da parte dell'amministrazione tributaria.
La Corte di giustizia dovrà dunque presto stabilire a) se effettivamente, come suggerito dai giudici rimettenti, le sanzioni irrogate dall'amministrazione tributaria (anche se concordate con il contribuente) ex art. 13 d.lgs. 471/1997 abbiano natura "sostanzialmente penale" anche ai sensi dell'art. 50 CDFUE, e b) se il procedimento penale per il delitto di cui all'art. 10-ter d.lgs. 74/2000 abbia effettivamente ad oggetto, come parimenti suggerito dai giudici rimettenti nonostante la nota opinione contraria della Cassazione, lo stesso fatto già sanzionato dall'amministrazione tributaria.
In caso di risposta affermativa a entrambi i quesiti, la conseguenza sarà in effetti inevitabile: il giudice penale avrà l'obbligo di applicare direttamente l'art. 50 CDFUE, e conseguentemente di chiudere i relativi procedimenti con una pronuncia di rito del tutto analoga a quella prevista dall'art. 649 c.p.p.
Bene farà, dunque, il giudice del rinvio nel caso di specie - una volta verificato il presupposto della definitività delle sanzioni irrogate dall'amministrazione tributaria - a sospendere il procedimento in attesa della definizione delle cause pendenti avanti alla Corte di giustizia, ovvero a sottoporre direttamente alla stessa una nuova questione sovrapponibile a quelle già proposte, onde evitare di formare una sentenza di condanna che potrebbe un domani essere giudicata illegittima al metro dello stesso diritto UE, e che dovrebbe come tale essere inesorabilmente revocata.
9. Infine, la Cassazione non dedica neppure una riga a una quarta possibile via, sulla quale chi scrive ha più volte richiamato l'attenzione[5], attraverso argomenti a mio avviso non futili, e che meriterebbero forse di essere analiticamente confutati anziché semplicemente ignorati.
L'art. 4 Prot. 7 CEDU è stato, come la stessa CEDU, incorporato nell'ordinamento italiano in forza della relativa legge di esecuzione (nel caso del prot. 7, la legge n. 98/1990), ed ha pertanto acquistato il rango di normativa (quanto meno) di rango primario nel nostro sistema. Tutte le sue disposizioni self-executing - come è certamente l'art. 4, che impone un mero dovere negativo a carico dello Stato italiano: quello di non esercitare, o non proseguire, un'azione penale a carico di chi sia già stato giudicato in via definitiva per lo stesso fatto - sono pertanto divenute parte di quella "legge" (intesa come sinonimo di "diritto") che vincola ciascun giudice ai sensi dell'art. 101 co. 2 Cost., e che questi ha l'obbligo di applicare nei casi sottoposti al suo esame.
Che le norme self-executing della CEDU (e dunque anche i suoi protocolli) costituiscano disposizioni direttamente applicabili dal giudice italiano, è d'altronde acquisizione risalente nella nostra giurisprudenza di legittimità, a partire almeno dal caso Polo Castro del 1989[6]: un caso citatissimo, ma che vale forse la pena di rammentare un po' più nel dettaglio. In quell'occasione, le Sezioni Unite intesero per l'appunto sciogliere in senso affermativo il dubbio circa la possibilità per il giudice di applicare direttamente le disposizioni della CEDU, dichiarando perentoriamente che la CEDU conferisce al singolo «la legittimazione attiva per garantir[e] la tutela giurisdizionale» dei diritti da essa riconosciuti, e che «nel nostro paese, in linea di massima, le norme della Convenzione sono di immediata applicazione e, soprattutto, che all'interno dello Stato aderente alla Convenzione, i diritti da questa riconosciuti all'individuo sono 'soggettivi e perfetti'», eccezion fatta per le norme tanto generiche da non poter essere considerate self executing, abbisognando di una specifica attività normativa dello Stato per essere attuate. Da tali premesse, la Cassazione trasse la conclusione dell'immediata applicabilità nel caso di specie (concernente un soggetto arrestato in pendenza di un procedimento di estradizione) dell'art. 5 comma 4 Cedu, che - riconoscendo a chiunque il diritto di ricorrere a un giudice per fare esaminare la legalità della propria detenzione - si pone come norma direttamente attributiva del potere dell'interessato di azionare la tutela giuridica, anche laddove, come nel caso di specie, l'ordinamento italiano non gli conferisca espressamente tale potere: senza alcuna necessità, dunque, di un intervento ad hoc da parte del legislatore, né di una sentenza additiva da parte della Corte costituzionale.
I medesimi principi - reiterati dalla Cassazione nell'altrettanto celebre caso Medrano del 1993[7] - sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite anche in epoca successiva alle sentenze gemelle, nel 2010, in relazione alla (allora) vexata quaestio della possibilità di fondare una sentenza di condanna unicamente su di una prova dichiarativa non assunta in contraddittorio alla luce dell'art. 6 CEDU, così come declinato dalla giurisprudenza di Strasburgo. «La norma in questione» - osservano le Sezioni Unite nel 2010 - «essendo stata recepita con un atto avente forza di legge, ha anch'essa, quanto meno, forza e valore di legge, anche se poi, sotto altri profili, funge anche da parametro di costituzionalità, ossia da norma interposta, ai sensi dell'art. 117 comma 1, tanto da essere stata anche collocata ad un livello sub-costituzionale (Corte cost., sent. n. 348 e 349 del 2007 e successive). Inoltre, non si tratta di una norma-principio, ossia di una norma generica ed aspecifica, che di solito si ritiene, in quanto tale, insuscettibile di automatica operatività e di immediata applicazione da parte del giudice (Sez. 1, sent. n. 2549 del 16/04/1996, Persico, Rv. 204733), bensì di una norma che è stata resa specifica e dettagliata dalla giurisprudenza della Corte EDU, sicché non vi sono ostacoli alla sua immediata operatività ed alla sua diretta applicabilità da parte del giudice italiano (come perspicuamente affermato da Sez. U, sent. n. 15 del 23/11/1988, dep. 1989, Polo Castro, Rv. 181288, che esattamente ha rilevato che 'ove l'atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz'altro creare obblighi e diritti, l'adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico)')»[8].
Si noti: questi principi non si pongono in alcun modo in contrasto con l'insegnamento delle sentenze gemelle. Come sottolineano le Sezioni Unite nel passo del 2010 appena citato, la possibilità per le norme della CEDU di essere direttamente applicate nel caso pendente avanti al giudice comune, alla pari di qualsiasi legge ordinaria nazionale, non esclude che esse possano altresì svolgere la funzione di parametro interposto in un diverso giudizio di legittimità costituzionale; così come accade del resto alle stesse norme costituzionali, che operano come parametro di legittimità costituzionale delle leggi nei giudizi avanti alla Consulta, ma che ben sono idonee ad essere direttamente applicate dal giudice comune come qualsiasi altra norma dell'ordinamento.
Nell'uno e nell'altro caso, il presupposto implicito della diretta applicazione da parte del giudice comune è che la norma, costituzionale o internazionale, si inserisca in uno spazio giuridico 'vuoto', non regolato in maniera antinomica da una legge (nazionale) ordinaria: ché, altrimenti, la via obbligata per il giudice comune sarebbe effettivamente quella di sospendere il procedimento, e di rimettere la soluzione dell'antinomia al giudice delle leggi.
In ciò si apprezza, dunque, l'autonomo spazio applicativo del meccanismo cristallizzato dalle sentenze gemelle, imperniato sull'art. 117 co. 1 Cost., rispetto alla diretta applicazione delle disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli, e in genere delle disposizioni di diritto internazionale pattizio incorporate nell'ordinamento e self-executing. La diretta applicazione di queste ultime diviene impossibile per il giudice ove sussista un ostacolo normativo, rappresentato da una norma di diritto nazionale che regola in modo opposto la medesima fattispecie. In tal caso, la norma potrà essere rimossa - in base all'insegnamento delle sentenze gemelle - soltanto da un intervento della Corte costituzionale in forza dell'art. 117 co. 1 Cost.; mentre la diretta applicazione della norma sovranazionale sarà possibile - e anzi doverosa ex art. 101 co. 2 Cost. - ogniqualvolta essa non presupponga la contestuale disapplicazione di alcuna norma di legge nazionale contrastante.
10. Se queste premesse - non prive peraltro di autorevoli riscontri dottrinali[9] - non fossero del tutto infondate, resterebbe allora da vagliare se la diretta applicazione dell'art. 4 Prot. 7 CEDU in casi di specie come quello ora esaminato dalla Cassazione incontri o meno insuperabili ostacoli normativi nell'ordinamento italiano, tali da rendere necessario un intervento della Corte costituzionale ex art. 117 co. 1 Cost.
La mia sommessa opinione, in proposito, è che ostacoli normativi siffatti non sussistano.
Certamente non costituisce un ostacolo normativo lo stesso art. 649 c.p.p., che semplicemente non prevede l'ipotesi di cui ora si discute - quella, cioè, di un provvedimento sanzionatorio definitivo, avente natura sostanzialmente punitiva ma adottato dall'autorità amministrativa, sul medesimo fatto oggetto di un procedimento penale -, a meno di non voler ritenere (in linea generale) che una norma che prevede una certa conseguenza giuridica per la fattispecie A (qui: una previa sentenza o decreto penale di condanna) implicitamente escluda che la stessa conseguenza giuridica possa applicarsi a tutte le altre pensabili fattispecie, tra cui la fattispecie B (qui: un previo provvedimento sanzionatorio adottato dall'autorità amministrativa).
Assai più ragionevole, mi pare, è ritenere che la norma (nel nostro caso, l'art. 649 c.p.p.) che prevede la fattispecie A non escluda che altra norma (nel nostro caso, l'art. 4 Prot. 7 CEDU) possa prevedere la medesima conseguenza giuridica (= una sentenza in rito che chiuda il processo, assicurando così tutela in forma specifica al diritto riconosciuto da detta norma) anche per la diversa fattispecie B, oltre che per la fattispecie A già 'coperta' dalla norma nazionale: senza che possa essere ravvisato alcun rapporto di contraddizione tra le due norme.
Una pronuncia di non doversi procedere in forza dell'art. 4 Prot. 7 CEDU non implica dunque in alcun modo la disapplicazione dell'art. 649 c.p.p.: semplicemente, attraverso tale pronuncia il giudice applicherà direttamente una diversa norma, con un proprio ambito applicativo eccedente quello disegnato dalla norma codicistica e pertanto autonomo, in parte qua, rispetto ad esso.
Di simili ragionamenti non v'è purtroppo traccia nel provvedimento qui commentato, nemmeno al fine di confutare l'iter argomentativo qui schizzato, che immaginiamo sarà stato svolto almeno in nuce anche dalla pronuncia annullata.
11. Una (giustificata) ragione di cautela rispetto alla possibilità di definire il procedimento penale con una pronuncia di rito fondata direttamente sull'art. 4 Prot. 7 CEDU - soluzione, questa, astrattamente prospettabile tanto per il delitto di cui all'art. 10-ter quanto per il parallelo delitto di cui all'art. 10-bis d.lgs. 74/2000, l'art. 4 Prot. 7 CEDU applicandosi in ogni settore dell'ordinamento e non solo, come l'art. 50 CDFUE, all'interno dell'abito di applicazione del diritto UE - deriva, semmai, dalla considerazione che è pendente di fronte alla Grande Camera un procedimento - A e B c. Norvegia - nel quale la Corte EDU, nella sua più autorevole composizione, è stata sollecitata dal governo resistente e da vari altri governi intervenuti, come si evince dalla videoregistrazione dell'udienza svoltasi lo scorso gennaio, a rimeditare e, se del caso, a modificare la propria giurisprudenza che riconosce natura di autentiche sanzioni penali alle sovrattasse irrogate dall'amministrazione tributaria, spesso in esito a procedimenti conciliativi con il contribuente, in relazione a violazioni aventi anche rilievo penale, e che molti Stati oltre all'Italia vorrebbero potere autonomamente sanzionare in esito a un distinto processo penale.
Difficile fare previsioni sull'esito di questo procedimento: la Grande camera è, infatti, chiamata a rivalutare una giurisprudenza ormai consolidata, che - a partire almeno dal caso Jussila c. Finlandia, deciso anch'esso dalla Grande camera nel 2006 - riconosce natura sostanzialmente penale (con tutte le connesse conseguenze, in materia di art. 6, 7 e - appunto - art. 4 prot. 7 CEDU) a tutte le sovrattasse che eccedano l'importo del tributo non pagato e degli interessi, anche se di importo percentuale o assoluto assai modesto[10]. Se questa giurisprudenza venisse ora confermata, tutti gli Stati - tra cui l'Italia - dovrebbero trarne le necessarie conseguenze, ed eliminare i sistemi di doppio binario attualmente previsti, provvedendo nelle more ad arrestare i processi penali in corso su fatti già sanzionati in via definitiva dall'amministrazione tributaria. Se, invece, la Corte dovesse modificare la propria giurisprudenza, un simile esito potrebbe non risultare necessario, naturalmente alle condizioni che la Grande camera indicherà in questa attesa sentenza.
La soluzione che la Corte EDU fornirà nel caso A e B non potrà, d'altra parte, passare inosservata sul fronte della Corte di giustizia, chiamata anch'essa - come si è detto - a puntualizzare la propria opinione su ne bis idem e reati fiscali dai tre rinvii pregiudiziali italiani; ed è anzi probabile che i giudici di Lussemburgo decidano per ora di prendere tempo, attendendo la decisione di Strasburgo in A e B, non foss'altro che per evitare di assegnare al diritto al ne bis in idem di cui all'art. 50 CDFUE un significato più ampio di quello che si verrà a consolidare sulla parallela disposizione di cui all'art. 4 Prot. 7 CEDU.
Un simile atteggiamento di prudenza, quanto meno in materia di delitti tributari, potrebbe dunque apparire allo stato consigliabile anche per la Cassazione italiana, in attesa delle novità che potrebbero presto preannunciarsi sul duplice fronte europeo in questa sempre più intricata vicenda.
[1] Pubblicata in questa Rivista con nota di F. Viganò, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, 16 maggio 2016.
[2] Cfr. Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, sulla quale cfr. più ampiamente Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta?, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 3-4/2014, p. 228 nt. 34.
[3] C. giust. UE, sent. 26 febbraio 2013, Akenberg Fransson, § 24-28; sent. 8 settembre 2015, Taricco, § 36-38.
[4] Il procedimento è ora rubricato sotto il nome Orsi e a. (C-217/15 e cause riunite). Il rinvio pregiudiziale proveniente dal Tribunale di Bergamo in causa Menci è stato pubblicato anche dalla nostra Rivista, con nota di F. Viganò, Ne bis in idem e omesso versamento dell'IVA: la parola alla Corte di giustizia, 28 settembre 2015.
[5] Ad es. in F. Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, 8 febbraio 2016, p. 16 ss.
[6] Cass., sez. un., 23 novembre 1988, Polo Castro, in Cass. pen., 1989, p. 1418 ss.
[7] Cass., sez. I, 12 maggio 1993, Medrano, ivi, 1994, p. 439 ss.
[8] Cass., sez. un., 14 luglio 2011 n. 27918, § 11 e 14.
[9] Cfr., in particolare, A. Ruggeri, Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento "intercostituzionale", in Rivista AIC, n. 4/2013 p. 4 ss. e spec. p. 5, ove l'illustre autore tematizza proprio l'ipotesi in cui «non si dia l'esistenza di una norma interna e il giudice possa pertanto colmare il vuoto facendo immediato riferimento alla norma convenzionale. Non si capisce [...] la ragione per cui, mentre diffusamente si ammette, quanto meno con riferimento a taluni casi, la possibile (ed anzi doverosa) applicazione diretta della Costituzione, non possa dirsi lo stesso delle Carte internazionali dei diritti (e, segnatamente, della CEDU), tanto più che esse sono rese esecutive con legge (dunque, come si vede, una vera e propria lacuna legislativa in una siffatta circostanza non si ha)». Nello stesso senso qui sostenuto, cfr. anche F. Giuffrida - G. Grasso, L'incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in questa Rivista, 25 maggio 2015, p. 15 s.
[10] Cfr. ad es. Corte EDU, sent. 20 maggio 2014, Nykänen c. Finalandia, con nota di M. Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatori e giudici nazionali e sovranazionali, in questa Rivista; Corte EDU, sent. 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, in questa Rivista, con nota di M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile, 11 dicembre 2014; Corte EDU, sent. 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia, con nota di M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: nuova condanna della Finlandia e prima apertura della Cassazione, 27 marzo 2015