21 settembre 2015 |
Per la Cassazione non viola il divieto di bis in idem la previsione di un doppio binario sanzionatorio per l'omesso versamento di ritenute previdenziali
Nota a Cass. pen., Sez. III, 14 gennaio 2015 (dep. 20 luglio 2015), n. 31378, Pres. Fiale, Rel. Grillo
1. Con la sentenza in commento, la Cassazione si pronuncia sul ricorso di un datore di lavoro condannato, dai giudici di merito, per il reato di cui all'art. 2, co. 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modif. in l. 11 novembre 1983, n. 638, che punisce il datore di lavoro che ometta di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
Due i motivi di ricorso proposti dall'imputato.
Col primo motivo, il ricorrente lamenta l'incostituzionalità dell'art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che l'autore di un fatto illecito, già punito con una sanzione non qualificata formalmente come penale, ma avente natura sostanzialmente penale, vada prosciolto nel procedimento penale successivamente instauratosi a suo carico per il medesimo fatto.
La norma, nella sua attuale formulazione, infatti, disciplina le ipotesi di ne bis in idem limitatamente al caso in cui un soggetto, prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, venga sottoposto per il medesimo fatto a un nuovo procedimento penale. La disposizione codicistica, in altre parole, circoscrive il divieto di bis in idem alla materia formalmente penale, escludendo che una persona possa essere processata due volte in sede penale per un medesimo fatto.
La Corte europea dei diritti dell'uomo, al contrario - rammenta il ricorrente -, pacificamente considera violato tale principio, sancito dall'art. 4, Prot. 7, CEDU, qualora imputato in un procedimento penale sia un soggetto già sottoposto, per il medesimo fatto, a un procedimento per l'applicazione di una sanzione che, ancorché formalmente non qualificata come penale dall'ordinamento interno, abbia natura di sanzione penale. Stante la vincolatività, per l'ordinamento nazionale, delle norme di fonte CEDU per come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la disciplina contenuta nell'art. 649 c.p.p. sarebbe, pertanto, incostituzionale per violazione dell'art. 117 Cost.
La rilevanza della q.l.c. per il caso di specie risiederebbe, poi, nel fatto che l'imputato, sottoposto a processo per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, era già stato sanzionato per il medesimo fatto al pagamento della "sanzione civile" comminata dall'art. 116, co. 8, lett. a) della l. 23 dicembre 2000, n. 388 - che prevede che "i soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali [...] sono tenuti [...] al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti" -, sanzione che il ricorrente sostiene doversi considerare, per la sua afflittività, come avente natura penale a dispetto del nomen iuris.
Col secondo motivo, il ricorrente lamenta un vizio di motivazione della sentenza impugnata per non aver il giudice del merito ritenuto che la crisi di liquidità in cui versava l'azienda escludesse il ricorrere, in capo al datore di lavoro imputato, del dolo del delitto contestato.
2. La Corte liquida in poche battute il secondo motivo di ricorso, richiamandosi alla propria consolidata giurisprudenza, "concorde nell'escludere ogni rilevanza, sotto il profilo soggettivo, alla circostanza che il datore di lavoro stia attraversando una fase di criticità e destini le proprie risorse finanziarie per fare fronte a debiti di altra natura (come, in ipotesi, il pagamento degli emolumenti ai dipendenti) ritenuti più urgenti" (sul punto, si veda anche la recente Cass. 12 febbraio 2015, n. 11353, P.G., in questa Rivista, 20 aprile 2015, con nota di Valsecchi, La Cassazione conferma la (tendenziale) irrilevanza dell'impossibilità ad adempiere rispetto alla consumazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali).
Maggior spazio, invece, il Supremo Collegio riserva all'illustrazione delle ragioni che conducono a rigettare per manifesta infondatezza la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente.
Sul punto, la Corte dimostra senz'altro di condividere le premesse dell'istanza sollevata dal ricorrente, fondate sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di ne bis in idem e, in particolare, sulla decisione assunta nel noto caso "Grande Stevens" (Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, in questa Rivista, 9 marzo 2014, con nota di Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L'Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato; per un ampio commento della sentenza si rinvia a Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta?, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 3-4/2014, p. 219 ss.). La Cassazione, infatti, richiamando la decisione della Corte europea nel caso Grande Stevens, fa propria una concezione sostanzialistica del divieto di bis in idem, sicché, per valutare se vi sia stata o meno violazione, nel caso di specie, del principio sancito dall'art. 4, Prot. 7, CEDU, e, di conseguenza, se la q.l.c. dell'art. 649 c.p.p. per violazione dell'art. 117 Cost., sollevata dal ricorrente, meriti di essere portata all'attenzione del Giudice delle Leggi, guarda alla reale natura della "sanzione civile" già applicata all'imputato ai sensi dell'art. 116, co. 8, l. 388/2000.
Anche rispetto a tale valutazione la Corte dichiara di muovere dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che da tempo ha fissato un decalogo per stabilire la sussistenza di un'accusa in materia penale. In particolare, tre sono i criteri - alternativi - che la Cassazione dichiara di dover applicare per adeguarsi alla giurisprudenza della Corte europea (richiamando, sul punto, il leading case Corte EDU, 8.6.1976, Engel e altri contro Paesi Bassi): (i) qualificazione giuridica della sanzione nel diritto nazionale, (ii) natura dell'illecito, (iii) natura e grado di severità della sanzione.
Nel caso di specie, escluso subito il primo criterio stante l'espressa qualificazione come "civile" e non come penale della sanzione comminata dall'art. 116, co. 8, l. 388/2000, la Corte ritiene di focalizzare la propria attenzione soprattutto sulla natura della sanzione, "onde verificare se le sue caratteristiche possano incidere sulla sua qualificazione in termini assimilabili a quelli propri della sanzione penale".
Sul punto, le conclusioni della Corte sono perentorie: la "sanzione civile" già applicata all'imputato non ha natura di sanzione penale in quanto, innanzitutto, l'art. 116 della l. 388/2000 persegue l'obiettivo (esplicitato dalla rubrica) di favorire l'emersione del lavoro irregolare; inoltre, tale sanzione, obbligando il datore di lavoro inadempiente al pagamento di una somma pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti, ha solo effetti ristoratori verso l'INPS e, dunque, natura - oltre che nomen juris - di sanzione civile.
Tale particolare finalità - rileva la Cassazione - porta anche a escludere che vi sia identità fra il fatto sanzionato dall'art. 116, l. 388/2000, e il fatto integrante la fattispecie di reato contestata all'imputato, dal momento che la fattispecie penale avrebbe una finalità diversa, da ravvisarsi nella tutela del "diritto del lavoratore in danno del quale il datore di lavoro si è appropriato delle somme a lui riservate (tanto che comunemente il delitto [in questione] viene accostato alla figura dell'appropriazione indebita)".
Da ultimo, la Cassazione ritiene che la "sanzione civile" prevista dall'art. 116, co. 8, l. 388/2000, nemmeno si contraddistingua per una particolare afflittività, sicché anche sotto questo profilo deve essere esclusa la qualificazione come sanzione "di fatto" penale.
Ricapitolando: rispetto alla q.l.c. dell'art. 649 c.p.p. per contrasto con l'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 4, Prot. 7, CEDU, sollevata dal ricorrente, (i) la Cassazione fa propria la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in base alla quale, per verificare se vi sia stata violazione del principio fondamentale del ne bis in idem, l'interprete deve guardare alla reale natura di una sanzione non qualificata formalmente come penale dall'ordinamento nazionale; (ii) nel caso di specie, sempre sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la Cassazione esclude che la "sanzione civile", già applicata all'imputato prima dell'avvio del procedimento penale a suo carico, abbia i caratteri della sanzione penale, sia perché persegue una finalità meramente ristoratrice del danno economico sofferto dall'INPS, diversa dalla finalità perseguita dell'illecito penale oggetto di contestazione, sia perché manca di quel carattere di particolare afflittività che consente di identificare come sostanzialmente penale una sanzione; (iii) alla luce di tale valutazione, il Collegio rigetta come manifestamente infondata la q.l.c.
3. La sentenza si segnala per l'esplicita presa d'atto, da parte del Supremo Collegio, che, in materia di ne bis in idem, la disciplina di riferimento, oggi, non è più quella contenuta nell'art. 649 c.p.p., bensì quella descritta dall'art. 4, Prot. 7, CEDU, e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Potrebbe apparire una presa d'atto scontata, dal momento che non è certo in dubbio la primazia assicurata dall'art. 117 Cost. alle norme CEDU e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulle norme di rango ordinario del nostro ordinamento. Eppure, ad oggi, nonostante una giurisprudenza della Corte EDU consolidata e una condanna dell'Italia per violazione dell'art. 4 Prot. 7 CEDU (nel già rammentato caso Grande Stevens), siamo ancora in attesa che il legislatore o, in sua vece, la Corte costituzionale provveda a modificare l'art. 649 c.p.p. per allineare la disciplina del ne bis in idem nazionale a quella di fonte CEDU (suggerisce la possibilità che il contrasto possa essere risolto anche dal giudice ordinario attraverso un'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 649 c.p.p. Viganò, Sanzione penale, sanzione amministrativa e ne bis in idem, in Il libro dell'anno del diritto 2015 Treccani, 2015, p. 111).
Ci chiediamo, però, se, nel caso di specie, correttamente riconosciuto come vincolante e preordinato rispetto alla disciplina codicistica italiana il principio del ne bis in idem di fonte CEDU, la q.l.c. sollevata dall'imputato fosse davvero da ritenersi manifestamente infondata.
In particolare - come ricordato sopra -, la Corte esclude la natura penale della sanzione, innanzitutto, ponendo l'accento sulla finalità pubblicistica della disposizione di cui all'art. 116, l. 388/2000, ossia l'introduzione di misure atte a favorire l'emersione del lavoro irregolare. Tale finalità sarebbe distinta, a detta dei giudici del Supremo Collegio, dallo scopo di tutela affidato dal legislatore al reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali, di cui all'art. 2, co. 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modif. in l. 11 novembre 1983, n. 638, da ravvisarsi nella protezione del diritto individuale del lavoratore vittima dell'omesso versamento da parte del datore di lavoro. Ciò sarebbe peraltro avvalorato, si legge nella sentenza, dal fatto che al comma 12 del medesimo art. 116, l. 388/2000, si prevede che, "ferme restando le sanzioni penali, sono abolite tutte le sanzioni amministrative relative a violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie consistenti nell'omissione totale o parziale del versamento di contributi".
Inoltre, la sanzione di cui all'art. 116, l. 388/2000, secondo i giudici del Supremo Collegio, avrebbe una funzione esclusivamente ristoratrice verso l'INPS, dunque una funzione tipicamente civilistica e non penalistica.
Ebbene, a ben vedere, da un confronto fra illecito civile e illecito penale non pare emergere alcuna diversa finalità di tutela. Vero è che la sanzione civile comminata dall'art. 116, l. 388/2000 si inerisce in una norma finalizzata a "favorire l'emersione del lavoro irregolare", dunque un interesse che va oltre la sfera del singolo lavoratore vittima dell'omesso versamento delle ritenute; tuttavia, anche il reato di omesso versamento della ritenute, di cui all'art. 2, d.l. 463/1983, non sembra affatto posto esclusivamente a tutela di un interesse particolare del lavoratore, se consideriamo che è inserito in un corpus normativo che prevede "misure urgenti in materia previdenziale". In generale, poi, ogni provvedimento teso ad assicurare il regolare adempimento dell'obbligo di versamento dei contributi da parte del datore di lavoro non può mai essere considerato come finalizzato alla tutela di un interesse individuale del lavoratore, ma abbraccia sempre l'interesse superindividuale al buon funzionamento del sistema previdenziale, tant'è che il lavoratore, anche volendo, non potrebbe sollevare il datore di lavoro dall'obbligo di effettuare i versamenti previsti dalla legge. In questo senso, non ci pare calzante l'equiparazione proposta dalla Corte fra reato di omesso versamento delle ritenute e reato di appropriazione indebita, mentre crediamo che i due illeciti, civile e penale, condividano il medesimo oggetto giuridico.
Tanto meno ci pare possa sostenersi che la sanzione di cui all'art. 116, l. 388/2000, svolga una funzione esclusivamente ristoratrice verso l'INPS. La norma prevede, infatti, che la sanzione sia calcolata aumentando il tasso ufficiale di riferimento di 5,5 punti. Ciò significa che al datore di lavoro inadempiente si chiede di versare una somma che va ben oltre gli interessi legali, la cui funzione è proprio quella di riparare il danno derivante al creditore dalla mora del debitore, tant'è che correttamente il legislatore ha qualificato tale somma come "sanzione" e non come "interessi di mora". Sul punto, merita di essere richiamata la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, 28 agosto 2014, Nykanen contro Finlandia (in questa Rivista, 5 giugno 2014, con nota di Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatori e giudici nazionali e sovranazionali), dove la Corte ha riconosciuto la natura di sanzione penale a una sovrattassa di 1.700 euro (applicata dalla legislazione finlandese al contribuente che aveva sottratto all'imposizione fiscale un reddito di 33.000 euro), proprio in ragione della sua funzione deterrente e punitiva, e non meramente compensativa.
Sotto un diverso profilo, a giudizio della Corte, la diversa finalità perseguita dal legislatore con la sanzione civile di cui all'art. 116, l. 388/2000, e col reato di cui all'art. 2, d.l. 463/1983, escluderebbe altresì, in radice, la possibilità di considerare identici i fatti oggetto degli illeciti, civile e penale (presupposto necessario per potersi avere violazione del divieto di bis in idem), "in quanto per identità del fatto non basta certo la medesimezza dell'avvenimento storico, ma occorre che siano identici tutti i tratti caratteristici". Anche la sentenza in commento, pertanto, si inserisce nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, costante nel valutare l'identità o meno del fatto in astratto, attraverso un confronto fra le norme: si vedano, in tal senso, Cass., Sez. un., 28 marzo 2013, n. 37425, Favellato (in questa Rivista, 18 settembre 2013), nonché Cass. 8 aprile 2014, n. 20266, Zanchi (in questa Rivista, 5 giugno 2014, con nota di Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatori e giudici nazionali e sovranazionali).
Nemmeno su questo aspetto possiamo dirci persuasi dalle conclusioni raggiunte dal Supremo Collegio.
La Corte europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza 10 febbraio 2009, Zolotukhin contro Russia, mutando il proprio precedente orientamento, ha fissato il principio di diritto in base al quale, per assicurare il reale rispetto del divieto di bis in idem, l'identità del fatto non deve essere valutata confrontando le fattispecie astratte descritte dalla legge, bensì guardando al fatto concreto realizzato in determinate circostanze spazio-temporali dal soggetto (principio ripreso negli stessi termini, in tempi più recenti, dalle già citate Corte EDU, 28 agosto 2014, Nykanen contro Finlandia, e Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, nonché da Corte EDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia, in questa Rivista, 11 dicembre 2014, con nota di Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile).
Seguendo tali indicazioni, allora, l'identità del fatto, nel caso di specie, non potrebbe essere negata, dal momento che è pacifico che a integrare l'illecito civile e l'illecito penale sia stato il medesimo omesso versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro.
Da ultimo, la Corte afferma che anche la scarsa afflittività della sanzione comminata dall'art. 116, l. 388/2000 - pari a un aumento di 5,5 punti percentuali del tasso ufficiale di riferimento in ragione d'anno -, impedirebbe una riqualificazione da "civile" a "penale" della sanzione stessa.
Si tratta di una valutazione che presenta inevitabili margini di discrezionalità, soprattutto in assenza di una giurisprudenza consolidata che fissi uno standard di gravità minima per poter qualificare come penale una sanzione.
Sul punto, ci limitiamo a rilevare come, nel già rammentato caso Nikanen contro Finlandia, la Corte EDU abbia attribuito natura penale a una sanzione amministrativa di 1.700 euro applicata al contribuente che aveva omesso di dichiarare redditi per un ammontare di 33.000 euro, rilevando come non fosse l'entità - certo modesta - della sanzione a deporre nel senso di una sua riqualificazione come penale, bensì la connotazione punitiva e non meramente compensativa. Un principio che, se fosse stato applicato nel caso di specie, avrebbe dovuto condurre a un giudizio diverso, dal momento che non pare - come argomentato sopra - che alla "sanzione civile" comminata dall'art. 116 della l. 388/2000 possa essere attribuita una funzione esclusivamente riparatoria del danno subito dall'INPS per il mancato percepimento dei contributi previdenziali dovuti, danno già riparato dal datore di lavoro col versamento del capitale maggiorato degli interessi di legge.
4. Dopo la pubblicazione della sentenza della Corte EDU nel caso Grande Stevens, la dottrina ha in più occasioni segnalato le importanti ricadute dell'applicazione del principio di ne bis in idem nel nostro ordinamento, in particolare nel settore del diritto penale tributario, dove il ricorso al doppio binario sanzionatorio costituisce la regola ed è, anzi, rafforzato dall'espressa previsione, all'art. 20, d.lgs. 74/2000, della perfetta autonomia e "impermeabilità" del procedimento penale e del procedimento amministrativo (sul punto, si veda Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem, cit., p. 237; l'A. rileva, tra l'altro, che il principio di specialità, sancito dall'art. 19, d.lgs. 74/2000, che dovrebbe almeno evitare il cumulo delle sanzioni amministrative e penali, da un lato, non risolve il problema della violazione del ne bis in idem, realizzata già con la sottoposizione del soggetto a due diversi procedimenti - amministrativo e penale - per il medesimo fatto; dall'altro lato, non riesce nemmeno a evitare realmente il cumulo delle sanzioni. Si vedano anche Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in questa Rivista, 14 settembre 2014; Flick, Napoleoni, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? "Materia penale", giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, in Rivista dell'Associazione Italiana Costituzionalisti).
A nostro parere, anche la materia oggetto della sentenza in commento non fa eccezione, caratterizzata com'è dal cumulo, come conseguenza della realizzazione della medesima condotta illecita, fra una sanzione civile, da riqualificarsi come penale - secondo le indicazioni della Corte EDU, stante la sua funzione repressivo-dissuasiva e non meramente riparatoria -, e una sanzione propriamente penale.
Ad oggi, però, non si sono ancora registrati in nessun settore (né in materia di market abuse, oggetto della sentenza Grande Stevens, né in materia tributaria, né in materia contributiva e previdenziale) risultati tangibili del "richiamo all'ordine", in tema di ne bis in idem, da parte della Corte EDU.
Sono, invero, pendenti, a quanto ci consta, due questioni di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. per violazione dell'art. 117 Cost. in relazione all'art. 4, Prot. 7, CEDU: una sollevata da Cass., 10 novembre 2014, Chiarion (in questa Rivista, 17 novembre 2014, con nota di Scoletta, Il doppio binario sanzionatorio del market abuse al cospetto della Corte costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in idem), nell'ambito di un procedimento penale in materia di abusi di mercato; l'altra sollevata da Trib. Bologna, 21 aprile 2015 (in questa Rivista, 18 maggio 2015, con nota di Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell'IVA: il rinvio della questione alla Corte costituzionale), nel quadro di un procedimento penale per il reato di omesso versamento dell'IVA.
Ma un'eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma, o una sentenza interpretativa di rigetto che rilegga l'art. 649 c.p.p. in maniera conforme alla giurisprudenza della Corte EDU lascerebbe in ogni caso all'interprete il difficile compito di valutare caso per caso della reale natura di una sanzione amministrativa, questione che più di tutte sembra prestarsi a giudizi contrastanti - come, a nostro parere, nel caso oggetto della sentenza qui in commento -, anche in considerazione delle resistenze che si registrano presso la giurisprudenza di legittimità (Dova, Ne bis in idem in materia tributaria, cit.).
Nemmeno il ricorso alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, nelle materie di competenza dell'UE, come per esempio in materia di IVA, sembra offrire un aiuto tangibile. Interrogata sul punto, la CGUE si è limitata ad ammettere la possibilità, in astratto, per il singolo ordinamento, di prevedere il cumulo fra sanzione amministrativa e sanzione civile, ma anche il dovere per il giudice nazionale di valutare se tale cumulo violi il divieto di bis in idem nei casi in cui la sanzione amministrativa risulti di per sé sufficientemente effettiva, proporzionata e dissuasiva (CGUE, 26 febbraio 2013, Aklagaren contro Fransson, in questa Rivista, 15 aprile 2013, con nota di Vozza, I confini applicativi del principio del ne bis in idem interno in materia penale: un recente contributo della Corte di Giustizia dell'Unione europea). Peraltro, è di questi giorni la notizia di una nuova domanda alla CGUE di pronuncia pregiudiziale sull'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, formulata dal Tribunale di Bergamo nell'ambito di un procedimento per omesso versamento dell'IVA (Trib. Bergamo, 16 settembre 2015, in corso di pubblicazione in questa Rivista).
Ferma restando, dunque, la necessità di modificare senz'altro la vigente disciplina nazionale del divieto di bis in idem in senso sostanziale, secondo le indicazioni delle Corti europee, sarebbe altresì auspicabile un intervento del legislatore volto a ridimensionare in maniera significativa il sistematico ricorso, in talune materie, al doppio binario sanzionatorio (in tal senso, con riferimento alla materia degli abusi di mercato, De Amicis, Ne bis in idem e "doppio binario" sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza "Grande Stevens" nell'ordinamento italiano, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 3-4/2014, p. 218). Sono proprio queste, peraltro, le indicazioni che provengono dal legislatore eurounitario col Regolamento (UE) 596/2014 e con la Direttiva 2014/57/UE in materia di abusi di mercato (per un'ampia e approfondita disamina, sul punto, si rinvia a Mucciarelli, La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in questa Rivista, 17 settembre 2015). Il nostro legislatore, però, finora non ha dimostrato di voler imboccare con decisione questa strada, come prova il fatto che né la delega per la revisione del sistema sanzionatorio in materia fiscale (art. 8, l. 11 marzo 2014, n. 23), né la delega per la riforma della disciplina sanzionatoria (tra gli altri) del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali (art. 2, l. 28 aprile 2014, n. 67), pur prevedendo una riduzione dell'area del penalmente rilevante, contengono specifiche indicazioni al Governo nel senso dell'eliminazione delle ipotesi di cumulo della sanzione amministrativa e della sanzione penale per il medesimo fatto.